Marco Mastromauro vive a Novara, lavora a Vercelli. Segno zodiacale: cancro e, dicono, si vede.
Ama la bicicletta, i cavalli e i cani. Sta con una cagnolina abbastanza ubbidiente e, anche, con una moglie paziente (alla quale, invece, è lui a ubbidire volentieri ma con scarso impegno). Sogna un mondo senza classi e un’isola deserta. E’, sì, affascinato dal deserto: per ora, tuttavia, cerca scampo nella poesia. Questa, peraltro, gli chiude spesso la porta in faccia ma, quando inaspettatamente (molto raramente) gli apre… Beh, è veramente accogliente pur se, secondo l’umore del momento, può risultare leggera oppure dura e impietosa (ma sempre sincera), elegante oppure sciatta e incostante. In quest’ultimo caso Marco ha capito che è meglio uscire e tornare, poi, in tempi migliori.
A Marco piace leggere racconti, storie, romanzi e poesie, le poesie che preferisce sono quelle di Celan, Trakl, Antonia Pozzi e, soprattutto, di Willem Van Toorn.
Cominciamo subito con le provocazioni. Dopo che ne fece accenno De André, quella sentenza di Benedetto Croce sui poeti è ormai notissima:
“Fino ai diciott’anni tutti scrivono poesie, poi continuano a farlo solo due categorie di persone: i poeti e i cretini”.
Signor Mastromauro, tu che ormai sei grande, che ci dici in proposito?
Ahi, ahi! E pensare che sono un fan, da tantissimo tempo, di Fabrizio De André… Sì, forse sono rimasto un po’ stupido… Mi sento di dire, però, che continuare a scrivere mi è servito molto ed è diventato un bisogno che, a intervalli, si ripresenta sempre.
Qual è la poetica di Marco Mastromauro? Se dovessi darci una sintetica “definizione di poesia”, cosa ci diresti?
Mi piacerebbe affermare che la poesia è, per me, inevitabile: ecco una semplice definizione e caratteristica della poesia, l’inevitabilità. Un po’ come quando, di fronte a una forte emozione, non si trovano più le parole e restano gli sguardi e gli occhi si riempiono di…. Come quando, tra due persone (ma anche esseri viventi in genere), ci si capisce senza parlare. È lì che entra in gioco la poesia, è lì che, come scriveva un grande poeta, “primavera brilla nell’aria e per li campi esulta…”.
Sono d’accordo con Raffaele La Capria quando scrive che la poesia non può e non deve essere solo descrizione della realtà ma una sorta di rappresentazione che, pur attingendo dalla realtà, vive di sé proponendo un proprio mondo di emozioni e allusioni… Ciò dovrebbe consentire, a chi legge, una personale interpretazione della poesia in base a quanto viene suscitato in lui. È quello, comunque, che cerco come lettore… Si finisce, poi, per proporre, da autore, un tipo di poesia simile a quello che si è soliti apprezzare di più.
Quali poeti del passato hanno influito di più sul tuo modo di scrivere versi? E in che modo?
Ho iniziato a scrivere quando ero alle medie e, poi, al liceo, con tentativi veramente incerti e così malriusciti (col senno di poi) da sembrare pretenziosi. Mi dicevano che, tanto per tornare a Fabrizio, ero molto influenzato da De André (che ascoltavo molto) e, così, dietro a lui, mi sono interessato alla poesia di Edgar Lee Master e di altri poeti americani e a poeti che erano stati vicini a quel mondo, anche in Italia, come Cesare Pavese.
Quest’ultimo mi ha sempre colpito con “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” e “Lavorare stanca”. A furia di leggerlo mi rimaneva in testa, anche in questo caso, la sua modalità espressiva che, quindi, mi capitava di riportare nei miei primi “approcci” poetici.
Poi ho continuato a leggere poesia, dai “classici” (Quasimodo, Montale, Ungaretti) a quelli più recenti (Milo De Angelis, Tiziano Rossi, Maurizio Cucchi), fino ai giovani poeti di oggi, dispersi nei meandri di piccole case editrici o di internet (ad esempio un poeta come Davide Valecchi).
Fraintendimenti e carpe diem o “Fraintendimenti di attimi non colti”?
Sicuramente “di attimi non colti” e, in particolare, di occasioni mancate di capirsi, di intendere se stessi in rapporto agli altri e al mondo sapendo anche accettare il fatto che ci si può preservare solo mettendo in conto “il fraintendersi” come parte essenziale del nostro vivere.
Così, anche se ai miei tentativi “poetici” nessuno risponde (il più delle volte), è anche bello, attraverso la poesia, parlare al vento, comunicare con se stessi, tentare altre forme e percorsi, quasi si provasse una personale terapia.
Generalmente la curiosità di chi legge si concentra sulla voce che dice “io” nei testi. L’io del poeta in questo caso, però, non sempre emerge con chiarezza. Potremmo dire che Fraintendimenti è la raccolta di un poeta osservatore, anziché protagonista?
Certo. Descrivendo, raccontando, osservando si rivela l’io attraverso le cose che si rappresentano… Una poesia incentrata sulla soggettività dell’autore, troppo esplicita, non mi attira, preferisco una dimensione dai contorni incerti, più sfumata, che il lettore possa interpretare secondo la propria sensibilità.
L’ispirazione. Come t’ispiri? Dove scrivi? Quanto tempo ti occorre?
Ho bisogno di uno “spunto”, deve “scattare” qualcosa: può essere un’immagine, una frase, un film, un libro… Poi non è detto che quello che ne deriva sia valido. Spesso quello che mi sembra ben riuscito a una lettura successiva mi si rivela una gran str….ta!
Oppure ciò che nasce “grezzo” e incompiuto poi si riesce a completare in modo accurato e ad esprimere quello che si voleva o, addirittura, si riesce a rivelare qualcosa che, all’inizio, non si era prospettato in quel modo e per quel determinato fine.
È anche vero che, in alcuni casi, poesie da me “prodotte”, alle quali mi sono affezionato e che mi piacciono, ad altri risultano del tutto inutili, banali e non riuscite.
Che supporti usi per scrivere: telefono? Block-notes? Oppure, come un altro noto poeta, “scrivi sull’acqua”?
Scrivo su carta e, però, il foglio bianco è meglio non affrontarlo senza un’idea! Poi uso il computer. Stampo: se non mi convince cerco qualcosa per integrare o correggere il testo. A volte mi segno una parola, una frase (che mi sono venute in mente) su un pezzo di carta qualsiasi per poi vedere se mi tornano utili… Insomma: a riferire questi “procedimenti”, mi sembra che i supporti esterni di cui parlo, un po’ eterogenei, siano conformi a un certo mio disordine mentale….
La raccolta Fraintendimenti è divisa in due sezioni: transiti e attese. Puoi darci qualche chiave di lettura per ognuna di esse?
Beh, a questo proposito, per non ripetermi, non posso che richiamare quanto ho cercato di spiegare nell’introduzione alla raccolta. Ribadisco, tuttavia, che l’autore di poesia (sempre che di poesia, per quanto riguarda le mie “opere”, si possa trattare), per me, ha il compito di descrivere e di suggerire: spetta al lettore percepire secondo i propri “filtri” soggettivi.
L’immagine della bicicletta sembrerebbe esserti alquanto cara…
Sì, mi piace. La uso anche abbastanza: è un mezzo di locomozione che contraddice l’ansia comune di arrivare in fretta (di abbreviare i tempi senza gustare il viaggio) rimanendo in una dimensione “piccola” e a misura d’uomo.
Per quanto riguarda la raccolta, con questa immagine spero di aver dato il senso di fragilità che accompagna la condizione umana di isolamento e il desiderio di rimanere in equilibrio tra ciò che è e ciò che potrebbe essere e non è.
Quale pensi sia la sensazione o il sentimento più ricorrente della tua raccolta?
La sensazione di incertezza (anche per la mancanza di appigli sicuri), di inadeguatezza e, nello stesso tempo, il sentimento (un po’ sognante) di illusoria soavità.
Fraintendimenti è la tua prima raccolta? O possiamo chiamarti “poeta navigato”?
Ho scritto altre raccolte ma con scarsissimo successo… Forse solo una, “Eros. Trinidad e altre poesie”, ha avuto qualche lettore (pochi, comunque). Ho collaborato, in passato, con due riviste (poco diffuse, a Milano e dintorni) di arte e letteratura e, forse, in quel caso ho avuto qualche attenzione in più.
Dopo tanti anni sono ancora un principiante… Eppure insisto: che abbia proprio ragione De André?
Come valuti la decisione di averle dato forma ebook?
Senz’altro positivamente…. Non essendo molto pratico del “mezzo informatico” mi sento attirato da ciò che mi appare un po’ sconosciuto. Credo che sia una comunicazione letteraria in via di ulteriore sviluppo (anche più economica e immediata). Con tutto ciò (sentendo anche l’opinione di appassionati lettori), l’ebook resta, secondo me, una forma che non potrà soppiantare quella tradizionale, “cartacea”, ma è, comunque, una modalità ulteriore che può presentarsi anche in forma molto accurata e di pregio (senza alcuna “minorità”, quindi, rispetto al libro su carta).
Marco Mastromauro e Prospero Editore: come siete entrati in contatto? E… come ti sei trovato? (Tutta la verità, nient’altro che la verità, giurin giurello!)
È stato un contatto casuale e fortunato! Mentre scorrevo la pagine iniziale del sito di “Fara editore” (che apprezzo molto) ho notato un’immagine relativa a “Prospero editore”, mi sono collegato, ho cercato di capire la “filosofia” di quell’editore (che mi è sembrato in fase organizzativa) e, dal momento che, contrariamente al solito, si richiedevano anche raccolte di poesie da valutare e non si faceva cenno ad alcun contributo economico a carico dell’autore, ho inviato la mia raccolta senza tante speranze…Dopo pochissimi giorni sono, poi, stato ricontattato e ho parlato con il responsabile che ha mostrato interesse e mi ha spiegato come intendeva procedere (con me come con altri autori).
Senza voler compiacere nessuno… Mi sono trovato a mio agio. C’è stata subito una collaborazione e uno scambio di idee costante (provare per credere!).
Comunque vada a finire, per me è stata (ed è) una bella e inaspettata esperienza.
http://www.prosperoeditore.com/fraintendimenti-detail.html