Il regista Giancarlo Soldi e sua moglie, l’attrice e regista Stefania Casini, sono stati ospiti a Praga nei giorni 5-8 aprile per partecipare alla proiezione del film documentario:“Cinque mondi” (2016), proiettato venerdì 7 aprile presso il “Cinema Pilotů” di Praga 2. L’iniziativa, promossa dall’Istituto Italiano di Cultura, si è inserita nell’ambito della XXIV edizione delle Giornate del Cinema Europeo dove l’Italia è stata rappresentata, oltre che dal documentario di Soldi, anche dai lungometraggi “Fai bei sogni” di Marco Bellocchio e “La pazza gioia” di Paolo Virzì.
Noi di Cafeboheme.cz abbiamo incontrato la coppia di registi per fare loro qualche domanda.
CB. Da “Paranaia” (1979) a “Cinque Mondi” (2016), con uno sguardo retrospettivo sulla sua produzione di regista, quali sono stati i momenti più significativi della sua
GS. Di sicuro la realizzazione del secondo corto No future (1982), che inizialmente non vide nessuno, ma due anni dopo vinse “Film Maker Doc” e tutt’ora è uno dei cortometraggi più visti al mondo. Quel piccolo lavoro mi permise di realizzare un altro corto dal titolo “Polsi sottili” (1986), che in seguito ho trasformato in mediometraggio e ha partecipato al Festival di Berlino. Lì c’è stata la svolta. Nulla si può programmare in questo lavoro. Nel mondo del cinema è tutto imprevedibile.
CB. Quali sono le sue fonti di ispirazione in ambito documentaristico?
GS.In verità nasco come regista cinematografico. Lo devo a due grandi passioni: in primis mi piaceva molto il cinema neorealista. Facevo centinaia di km per vedere qualunque cosa di Rossellini, anche i piccoli film di 5 minuti. In secondo luogo amo molto il cinema sperimentale. Ho avuto la fortuna di fare da assistente ad un artista – che oggi espone anche a Kassel – che faceva film sperimentali. Questo mi ha aiutato molto nell’autostima e soprattutto nella capacità di riprendere da solo.
GS.I cinque personaggi sono accomunati non solo dall’Oscar, ma dal fatto che sono molto “personali”. Ognuno di loro è davvero unico. Nessuno aveva pensato di metterli insieme, semplicemente perché si era rivelato impossibile – così mi hanno detto anche altri che ci avevano provato.
Se sulla carta non mi è stato dato alcun credito e non ho avuto alcun finanziamento, da parte mia ho preso coscienza soltanto in seguito della forza di questa scelta. Ho dovuto contare molto sulla mia tenacia, e la mia capacità di “capire che fare col niente”, che mi ha sempre ispirato. Solo quando sono riuscito a mettere insieme le 5 interviste ho capito meglio cosa farne…e realizzato che cucendo le loro parole veniva fuori una bella storia del cinema italiano: 5 età diverse, 5 amori, 5 tipi di influenze sul loro cinema. Sapete che non si vedono film in questo documentario? Si vedono backstage o i filmini familiari dei registi sui set. Questa scelta stilistica ha dato una forma diversa al progetto e mi ha permesso di inserire delle musiche stranianti e di poter accostare alle loro parole dei lavori di ricerca sperimentale, lavori che sembrano invece fatti apposta per quello che dicono.
Da parte mia non volevo realizzare un’opera televisiva ma qualcosa che fosse molto più personale. Sarei entrato altrimenti in conflitto con loro. Nella sua semplicità ritengo che “Cinque Mondi” sia pieno di idee, che è l’aspetto che mi interessa di più.
CB. Se dovesse descrivere con un unico aggettivo ciascuno dei 5 registi (Bertolucci, Salvatores, Benigni, Sorrentino e Tornatore) quali sarebbero questi aggettivi?
GS. Non è facile… Bertolucci è un ultra-appassionato di cinema, anche moderno, e a ciò è molto attento. Sorrentino ha uno strano rapporto con il cinema, un unicum da questo punto di vista e
CB. Quali sono oggi secondo lei le caratteristiche distintive del cinema italiano (se ne ha di proprie) che lo distinguono dal modo di fare cinema negli altri paesi?
GS.Le caratteristiche sono sempre quelle. Non esiste una scuola unica del cinema, ma delle divergenze parallele. Sono tutti italiani, ognuno va per la sua strada…ma in effetti ognuno racconta l’Italia. Ho scelto loro cinque perché tutti dicevano che ero pazzo a voler raccontare il cinema italiano. Avessi dovuto sceglierne un sesto avrei avuto tutto il mondo contro…perché lui e non altri?
Mi son posto questo problema. Se avessi potuto avrei intervistato anche solo Virzì o Frammartino (sconosciuto in Italia, ma tra i più visti al mondo!) o la Wertmüller, di cui in realtà ho inserito una brevissima inquadratura insieme a Rita Pavone. Ho molto amato la svolta che ha dato ai Musicarelli italiani, che da parte mia non considero cinema minore o snob. Infine non dimentichiamo che lei ha fatto un grandioso “Gian Burrasca” con le musiche di Rota, oltre a “Rita la zanzara”. Sì, manca la parte femminile nel mio documentario, ma non era mia intenzione dimenticarla.
CB. Da “Come Tex nessuno mai” (2012) alle collaborazioni con Tiziano Sclavi, Hugo Pratt e Alfredo Castelli (autore del fumetto Martin Mystère”) passando per i documentari “Nuvole parlanti” (2006) e “Graphic Reporter” (2009) de “La storia siamo noi”, molte delle sue opere rappresentano un’ode al fumetto. Come nasce questa sua passione?
GS. Perché la mamma mi permetteva di leggere i fumetti, ben prima di andare a scuola – non è da poco. Non ho mai avuto ostacoli di nessun tipo. In più quando non capivo un fumetto, ho anche avuto la faccia tosta di andare a bussare alle porte di chi lo faceva, facendo – anche lì da 12enne – centinaia di km. Ciò mi ha permesso di avere degli amici che poi mi hanno “allevato”. Nel senso: io dico sempre che ci sono due persone che mi hanno spiegato cos’era il fumetto. Uno è Sergio Bonelli. Sergio amava molto le cose che amo anch’io, su tutte, i fumetti degli anni ’20 e ’30, che conosceva benissimo. Questo ci ha permesso di instaurare un rapporto particolare, anche se con Sergio Bonelli era raro parlare di fumetti. Parlavamo più che altro di viaggi nel mondo. L’altra persona è Giovanni Gandini, l’ideatore di “Linus”. Quando mi son trovato davanti a lui a 13 anni gli ho chiesto: “cos’è questa rivista che non capisco? Com’è possibile che non capisca i fumetti di cui invece so tutto?” Lui mi ha risposto con una leggerezza unica, introducendomi al concetto di profondità nel fumetto.
CB. I Fumetti, in Italia, più che in altri paesi sono entrati a far parte della cultura della nazione, con i fumetti di Bonelli, che lei conosce bene, sono cresciute due intere generazioni. Come mai in questo Paese il fumetto ha riscosso così tanto successo?
GS.Benché i fumetti francesi fossero altrettanto belli, lì c’era l’idea di fare i volumi, che sono più costosi. In Italia invece il formato “bonelliano” in bianco e nero era ultra-povero su questo aspetto e pertanto i costi più contenuti… Ma la sua vera fonte di grandezza risiede da sempre nella cadenza mensile, che ha permesso a due generazioni di leggere la storia del proprio eroe preferito 12 volte l’anno. In Francia per leggere una storia completa ci volevano 2-3 anni! La serialità mi è sempre piaciuta molto, cioè la capacità di raccontare in modo continuativo il mondo intorno a te. Credo proprio sia stato questo il principale punto di forza del fumetto italiano. Inoltre, se penso alle storie americane di 6-9 pagine, a “Superman” e a “Batman” per fare un esempio, non vedo confronto con la produzione italiana di migliaia di tavole. Quanto al mio lavoro, volevo aggiungere che: è vero che leggo fumetti, che mi ispiro ed allaccio sempre al fumetto, però il mio intento è di raccontare il mondo. Il fumetto è esclusivamente un pretesto narrativo. Oggi sto lavorando a due progetti, uno dei quali su Crepax, che mi permetterà ancora una volta di parlare di questa parte del mondo che amo molto.
CB. È risaputo che Tiziano Sclavi si sottrae alle luci della ribalta. In un’intervista a “Dagospia” lei sostiene che ci sono voluti 12 anni per convincerlo a farsi intervistare. In che occasione vi siete conosciuti e com’è riuscito in questa impresa?
GS. L’ultima volta che l’ho sentito è stato due giorni fa, la prima più di 30 anni fa, perché avevo letto un suo fumetto che mi era piaciuto molto e avevo cercato un contatto con lui. Lui invece aveva visto il mio mediometraggio “Polsi sottili” (1985), perciò è stato facile. Mi diede appuntamento in un ristorante e mangiammo insieme. In merito alla sua intervista in “Nessuno siamo perfetti”, di questo lavoro ho rilasciato tre trailer, molto diversi. All’apparenza sembra un documentario, ma è un film. Tanto che è stato presentato in diversi festival di cinema o nei cinema, e non alle fiere del fumetto. Questa è la cosa più importante per me.
GS. Una volta era più semplice… Lui era più tranquillo. Non era ancora sovrastato e mangiato dalla sua creatura. Non era consapevole di quello che sarebbe successo (nessuno di noi lo era), per cui rideva molto. Ridevamo tantissimo. Era uno spasso stare con lui, sparava cavolate a raffica, giochi di parole… Non a caso traduceva fumetti francesi che erano basati su giochi di parole.
Non tutti sanno che Tiziano è anche un grande enigmista, oltre che un grande giocatore di games. Allora non ci pensavo, ma la scoperta che ho fatto lavorando con lui è stata proprio questa, tutte le sue storie sono fatte come i games, a livelli. Superato un inconveniente, si passa al livello superiore. Lui lavorava su questo, parlando ad un pubblico nuovo, nonostante il calo di lettori di fumetti.
Infine ritengo che la sua grande scoperta e più grande intuizione, sia stata di parlare inconsciamente al pubblico femminile, senza che nessuno gliel’avesse chiesto. I lettori di fumetti erano 350000-400000 fino all’ 86 (si desume dalle vendite di “Tex”, il più comprato, e da quelle di “Topolino”) Improvvisamente si arriva a un milione di copie. Il pubblico femminile scopre “Dylan Dog”. Molto semplicemente lui inventò qualcosa che nessuno aveva ancora inventato. L’eroe delle storie, quando dà o chiede l’amore a una donna, lo fa per sempre. È vero, lei muore in ogni storia… ma non è lui a deciderlo, è il destino. La verità è che Sclavi stava molto male quando scriveva, al punto da piangere se stava morendo qualcuno. Un’identificazione totale. Tutto il sangue che c’è nelle storie lui l’ha versato e benché cercasse di tenere in vita i personaggi, non ci riusciva, era più forte di lui. Questo è stato percepito molto dal pubblico femminile e tutte le donne si sono innamorate di lui.
CB. Lei lavorato anche con Hugo Pratt, un altro grandissimo del fumetto. Cosa può dirci di lui?
GS. È la persona con cui vorresti stare zitto, seduto a un tavolino, ad ascoltare sempre. Un po’ come Bertolucci, o altri grandi. Ti raccontano mille aneddoti. Con una leggerezza, parlando di persone, di posti, di luoghi. Quando lo contattai per tramite dei Bonelli, volevo che lui lavorasse per il mio film e lui accettò di incontrarmi. Malauguratamente gli dissero che ero un esperto di fumetti. Così, per mettermi alla prova citò una battuta di un fumetto del ’34, che conoscevano in quattro. Quando gli dissi di quale fumetto si trattava lui si tranquillizzò. Fu come un’iniziazione, come se avessi pronunciato una parola magica, che permette a chi la conosce di entrare nel club. Per fortuna mi piaceva molto quel periodo, su cui sono ferratissimo – molta parte della mia vita l’ho spesa leggendo fumetti e parlando con chi li ha fatti! Mi sentivo preparato a tal punto che decisi anche di andare al quiz serale di Mike Bongiorno, presentandomi sui fumetti. Arrivai alle domande finali e con la vincita riuscii a stampare le copie per il Festival di Berlino. Per finanziarmi partecipai anche a un concorso che vincemmo io e Silvio Soldini, di cui ero amico e con cui lavoravo spesso insieme. Se però la sua famiglia lo sosteneva economicamente, la mia famiglia mi sosteneva solo moralmente. Penso che nella vita bisogna veramente esser pronti a tutto.
CB. C’è un altro disegnatore di “Dylan Dog”: Bruno Brindisi. Che ne pensa?
GS. Lo conosco benissimo. Persona amabile. Secondo me c’è stato un periodo in cui lui era il più adatto disegnatore italiano per le storie di “Dylan Dog”. A un certo punto Tiziano aveva virato verso la commedia e Bruno è quello che aveva il tratto più chiaro e più “francese” tra tutti i disegnatori. “Tre per zero” ne è l’esempio lampante.
CB. Rimanendo sempre su “Dylan Dog”. Qual è il numero che in assoluto le è piaciuto di più o che hai riletto più spesso?
GS.“Memorie dall’invisibile”. E’ veramente un’opera a parte. Scritta bene, disegnata bene, con una grandissima maturità nella scrittura, continui cambiamenti, un titolo meraviglioso. Ha tante
CB. Lei è anche un collezionista di fumetti. Ce l’ha i “Dylan Dog” usciti in lingua ceca? Sa che qui sono stati pubblicati 3 numeri di “Dylan Dog”, e altrettanti di “Myster No” e altri?
GS. Purtroppo no, anche perché non parlo il ceco, ma ho quelli in lingua inglese.
CB. “Dampyr” è ambientato a Praga. Lei è qui per la prima volta. Pensa di conoscerla già un po’, la città, dai fumetti?
GS. Indubbiamente, oltre che dalla letteratura. Quanto ai fumetti, ci sono le prime storie di Battaglia su “Linus” che sono veramente questa Praga. Anche “Valentina” era qui all’inizio della sua vita. Questa città continua ad affascinare. Ieri sono andato in giro con mia moglie. Ho chiesto informazioni, pensando, devo trovare questi scorci di Praga (mostra delle vignette di fumetto fotografate nel telefono). Lo faccio spesso.
CB. La ringraziamo molto e adesso faremmo qualche domanda a sua moglie Stefania.
Stefania Casini, anche lei ha una lunga e brillante carriera alle spalle non soltanto nel cinema, ma anche nella televisione e poi come regista. Prima si parlava di Bertolucci e di premi Oscar. Lei recita nel ’76 in “Novecento”, film che è stato scelto per essere conservato tra i 100 migliori film italiani. Che ricordi ha di quel film, se vuole raccontarci qualcosa?
Tale era il suo carisma da fare in modo che tutta la sua troupe lo seguisse non perché dava degli ordini, ma perché tutti erano convinti che quello sarebbe stato il più bel film in cui hanno recitato. Il suo carisma consisteva nel comunicare questa tranquillità, questa sicurezza di star lavorando ad un progetto meraviglioso, epocale, a un capolavoro. E quasi sempre era un capolavoro. Personalmente per me è stato un film abbastanza difficile, poiché come saprete avevo una parte complicata: interpretavo una prostituta e in una scena tenevo in mano il pene di De Niro e quello di Depardieu al tempo stesso. Al termine dovevo simulare una crisi epilettica. Questa scena che mi ha reso l’idolo dei gay, è stata una situazione difficile per tutti noi tre attori. Non è così facile denudarsi di se stessi. Bertolucci però era una persona meravigliosa, oltre che un grande regista, e mise tutti a proprio agio. Al momento di girare c’era il silenzio più assoluto, non volava una mosca, nessuno faceva smorfie o ghigni, come si potrebbe pensare in una situazione del genere. Credo che una simile tranquillità difficilmente l’avrei trovata in un altro set.
CB. Lei ha lavorato con tanti registi italiani e stranieri. La domanda che sto per farle probabilmente la conosce già. La parentesi americana con Andy Warhol. Che
SC. Ho dei ricordi fantastici. Intanto perché sono stata a New York in un momento in cui New York era estremamente effervescente. Questa effervescenza la si vedeva nell’aria, tanto che io sono andata lì per fare il film con Andy Wharol e poi ci sono rimasta quattro anni. È chiaro che fosse un momento particolare e magico. Oggi se vado a New York la trovo una città noiosissima, borghesissima, piena di italiani che parlano solo di quali ristoranti hanno provato e cosa hanno comprato. Allora era affollata di artisti, c’erano gli italiani come Clemente, pittori che cercavano di affermarsi, graffitisti come “SAMO” poi detto Basquiat. C’era la British invasion nella musica…Era una città sesso droga e rock’n roll, ma ricca sul piano culturale. Sono ad oggi felicissima di aver avuto questa occasione. Sul set eravamo tutti molto giovani ed è stato molto divertente. Naturalmente ho avuto l’occasione di conoscere meglio Andy Warhol, che avevo già incontrato a Roma durante le riprese di “Bloodful Dracula”. Lo frequentavo e frequentavo la Factory soprattutto. Andy Warhol era una persona molto diversa da quello che un giovane si può immaginare. Aveva una mamma a cui teneva molto, beveva solo Coca-Cola e mangiava solo hamburger. Aveva un meraviglioso bassotto che si chiamava Oliver che era il centro dei suoi pensieri. Così diverso da un’immagine di artista maledetto, non faceva stravizi come tutti pensano. Era molto ben organizzato, conosceva perfettamente le regole del marketing e per questo girava molto. Detto ciò, ad ogni modo la Factory era un crogiuolo di incontri e personaggi quantomeno stravaganti.
CB. Se dovesse in un attimo ripercorrere con la mente tutta la sua carriera, quali momenti fermerebbe?
Altro momento importantissimo che ricordo con piacere ed emozione, è stato interpretare la figliastra nell’opera teatrale “Sei personaggi in cerca d’autore”, accanto a Tino Buazzelli. Per tante ragioni: ero al tempo stesso la più giovane attrice ad aver rivestito un ruolo di questa levatura e la prima a spogliarsi interpretando questo ruolo. Rimanevo a seno nudo, dichiarando come dice il sottotesto di Pirandello questa sorta di “abuso del padre sulla figlia”.
Poi come dicevo, il periodo con Andy Warhol e la Factory a Roma e l’ambaradan che ne è conseguito e ovviamente le collaborazioni con Bernardo in “Novecento”, poi con Dario Argento in “Suspiria”.
Ero sempre molto attenta a come giravano i registi e posso confermare che anche lavorare con Dario Argento è stato di grande insegnamento. Dario ha sempre avuto una grande visionarietà. Ecco cos’è l’estro delle nostre maestranze: la scena in cui la cinepresa scende giù come un aquila mentre Flavio Bucci (il pianista cieco Daniel) viene sbranato dal suo cane. Io ho visto come l’hanno fatta. Adesso è facile, con i droni vai dappertutto, puoi infilarti nel naso dell’attore, scendere dalla vetta fin dentro la pupilla. In quell’occasione il capo macchinista inventò un filo teso di acciaio in cui a comando manuale la cinepresa Mitchel precipitava. Queste sono cose che restano nell’animo di chi fa il cinema e forse anche nella storia del cinema – soprattutto nei mestieri del cinema.
Infine, oltre alla parentesi newyorkese di cui ho già parlato e che per me è stata importantissima, ricordo con piacere la collaborazione con Peter Greenaway. Il rapporto con questo regista era diverso da quello fra attore e regista. Lui sapeva che ero architetto e questo suo modo di preparare le inquadrature come un architetto, come la composizione di un quadro, per me era molto interessante. Tra l’altro quel film si chiamava “Il ventre dell’architetto” e aveva una colonna sonora straordinaria. Provai ancora interesse verso il mestiere del regista. Non è un caso che poi lo sia diventata anch’io. Tutte queste cose sono entrate dentro di me fin dai primi approcci.