Carlo Bernari, pseudonimo di Carlo Bernard (Napoli, 13 ottobre 1909 – Roma, 22 ottobre 1992), è stato uno scrittore, antifascista e partigiano italiano. Nel 1934 pubblica ” Tre operai”, romanzo di stampo neorealista che, senza cedere al populismo, rappresenta, in una Napoli dal cielo plumbeo, l’alienante vita di fabbrica, descrivendo i sentimenti cupi e le inquietudini dei suoi protagonisti.
Nel 1949, lo stesso anno in cui Eduardo scrive Napoli milionaria!, Carlo Bernari pubblica, nella collana “La Medusa degli italiani” di Mondadori, il romanzo Speranzella, che, nel 1950, vince il Premio Viareggio: un romanzo corale dalla cifra neorealista dove la Napoli post-bellica rappresenta lo sfondo e il destino, la speranza e il luttuoso presagio di morte. Il vicolo Speranzella diventa metafora parlante, luogo reale ma anche allegorico, luogo della lacerazione e delle ferite della guerra, ma anche della luce della speranza sull’orrore dell’abisso della guerra.
In Speranzella si concentra la cosciente visione della “realtà della vita” (p. 28) dei bassifondi e dei vicoli di
Nel dedalo dei vicoli brulicanti di umori, sussulti di vita, speranze, lo sguardo di Bernari si sofferma in particolare su due personaggi femminili: la Cafettèra donn’Elvira, sensuale matriarca del Bar Babilonia che tiranneggia il debole marito Ciccillo, e Nannina, una giovane donna che trova ricovero e “protezione” nel suo basso. Elvira e Nannina sono due figure emblematiche in bilico tra la morte e la speranza ed è proprio questo confine che possiamo intendere, a un livello più profondo di lettura, come motivo-senhal dominante nel romanzo: donn’Elvira è una figura di grande suggestione sospesa tra la violenza dell’abbandono erotico e la superstizione, gli istinti elementari della sopravvivenza e la nostalgica elegia del sogno filomonarchico:
“Elvira in quella luce era già sveglia e in camicia da notte macinava caffè in un grosso macinino che teneva fermo tra le cosce. Ad ogni giro di manovella le sue mammelle tonde e piene rotolavano nella trasparenza del lino ora sotto l’ascella destra ora sotto quella sinistra (pp. 76-77); “ ogni cinghiata accompagnava una frase: era come il prolungamento nell’aria di un fascio di nervi per troppo tempo castigato; ogni cinghiata aveva radice nell’odio e nell’amore, usciva come un ramo dall’albero, né troppo lungo, né troppo corto, pareva naturale che la Cafettèra avesse mille cinghie per braccia e che si agitassero tutte furiosamente” (p. 121). Nelle pagine del romanzo la rappresentazione è dotata di una grande vivacità, senza però mai cedere al folklore:
I personaggi non cadono mai nel bozzetto anche là dove appaiono fortemente caratterizzati, perché alla base della scrittura di Bernari persiste sempre un sostrato storico-documentario.
Sul piano formale, appare dominante la struttura dialogata, con una rappresentazione connotata d’immediatezza e spontaneità d’azione anche con i mezzi espressivi dettati dal dialetto.
Il romanzo è stato appena ripubblicato per l’edizioni BeaT, casa editrice fondata da Enrico Bernard, figlio di Bernari, con una nota introduttiva di Carmen Lucia