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Scorci di letteratura. Intervista a Filippo La Porta

filippo 2Il critico e saggista Filippo La Porta, a Praga per presentare il suo Roma è una bugia (Laterza 2014) all’Istituto Italiano di Cultura e tenere un intervento sul quadro della letteratura italiana contemporanea all’Università Karlova, ha accettato di rispondere a qualche domanda per Cafè Boheme.

Richiamando attraverso echi e divagazioni i suoi studi precedenti e la sua formazione, nel suo ultimo lavoro La Porta ha scelto di seguire una vena che oscilla tra digressione colta e sentimento dell’effimero, lasciando muovere il suo sguardo e quello del lettore lungo luoghi emblematici della città di Roma. Tra rivendicazioni di dominio e sentimenti di inappartenenza, spazi pubblici resi privati dall’indugiare dello sguardo, differimenti continui e ritorni sui luoghi della memoria, lo scrittore tratteggia le linee di una sorta di mappa sentimentale.

 

C.B.– Partiamo un po’ in generale: quali sono le linee principali del nostro quadro letterario, in questo periodo, secondo lei?

La Porta – Beh, potremmo dire che ci sono due filoni, un po’ estremizzando la situazione: ci sono gli affabulatori, che hanno soprattutto la capacità e il gusto di raccontare la realtà, tra cui,  probabilmente, il più dotato è  Niccolò Ammaniti. Poi ci sono gli stilisti, che investono tutto sulla qualità dello stile, e quindi la raffinatezza, la ricercatezza; mi viene in mente Michele Mari, per esempio il caso di Tutto il ferro della Torre Eiffel, un libro veramente visionario. La mia personale utopia è una specie di ircocervo composto di Ammaniti e di Mari, cioè che abbia bravura e voglia di raccontare, che abbia, soprattutto, qualcosa da raccontare, ma che abbia anche la qualità di scrittura di Mari. Ovviamente la mia è un’estremizzazione, perché ci sono autori che si avvicinano a questo modello. Faccio solo due o tre nomi: come autore di romanzi Sandro Veronesi, grande intrattenitore, che usa la forma della commedia per dire però anche qualcosa sul tragico dell’esistenza; poi c’è Antonio Pascale, il quale probabilmente non ha un vero talento da romanziere, e rientra più nella tradizione italiana del diario, della prosa morale e civile. Ne parlava Leopardi nella sua Crestomazia della prosa, in cui diceva che c’è il romanzo, c’è il racconto, ma ci sono tante altre cose, ci sono gli apologhi, le lettere… Pascale rientra in questa tradizione più libera, più mista della letteratura italiana. Citerei anche Antonio Moresco per la sua energia e per la sua potenza visionaria, anche se  secondo me le cose più belle di Moresco non sono, come forse lui pensa, i suoi romanzi, perché sono delle costruzioni narrative grandiose e un po’ frananti, ma sono più dei libri che lui giudica secondari. Dopodiché faccio solo il nome di una scrittrice, Camilla Baresani, che usa invece la commedia. Tempo fa, ho pensato che potesse far parte di una costellazione che chiamavo “letteratura del benessere”, perché racconta i ceti borghesi dentro il loro ambiente, però anche lei da qualche tempo usa l’intrattenimento per dire qualche verità un po’ più appuntita, appunto su di sé, sulla propria razza sociale e, quindi, anche sul mondo in cui viviamo.

C.B.– Lei parlava della letteratura come ricerca della verità, quindi una letteratura che dev’essere conflittuale e che abbia a che fare proprio con questa ricerca. Se non vado errato leggo in questa affermazione il concetto di una letteratura militante, di una letteratura impegnata. Allora la mia domanda è, possiamo veramente ancora oggi credere che la letteratura possa essere un punto di riferimento, una guida per la società in cui viviamo, o invece non è più possibile considerare la letteratura come una guida, un modello per la società in generale? La scrittura è una forma di resistenza, e resistere serve a qualcosa?

La Porta – Io onestamente non ci credo più tanto che la letteratura possa tornare ad essere una guida; e neanche piùfilippo 3 gli intellettuali. Pasolini è stato l’ultimo che ha incarnato questa figura di intellettuale con la coscienza della nazione. Sono mutate troppe cose, nel bene e nel male. Direi che l’intellettuale non ha neanche più l’autorevolezza che aveva una volta. Ma magari c’è anche un aspetto positivo, perché oggi nella rete può succedere che un ventenne sconosciuto o semi incolto possa polemizzare con un critico letterario di chiara fama o con un professore universitario, e magari riuscire perfino a sbaragliarlo sul piano argomentativo. Questo è un aspetto positivo, in rete uno vale uno, non c’è nessuno status, l’unica autorità riconosciuta è quella dell’argomentazione: vince chi sa argomentare meglio. Però, ecco, la letteratura sembra spesso diventare un consumo tra gli altri, magari un consumo chic, che un pochino ci nobilita, un consumo mondano, uno status symbol. Ad esempio, in alcune pubblicità italiane in cui magari si reclamizza una poltrona, ho notato che nelle librerie si scorgono i libri dell’Adelphi, perché l’Adelphi fa tanto chic, è diventata status symbol. Quindi no, io non credo a questa cosa. Detto questo però può accadere che qualche lettore riesca a usare un libro per modificare la sua esistenza, per prendere coscienza di sé; la tendenza generale non è questa, perché si va verso un depotenziamento della letteratura, della cultura umanistica, però è vero anche che ogni lettore può risvegliare la bella addormentata, può risvegliare il nucleo di verità di un’opera, il nucleo critico, utopico di un’opera letteraria, se riesce ad avvicinarsi a quell’opera con la necessaria devozione e attenzione e purezza di sguardo. Questo io non lo posso escludere. Spesso ho scritto contro i festival letterari in Italia, perché mi sembra che siano delle occasioni di spettacolarizzazione della letteratura in cui conta più toccare il proprio scrittore con la mano quasi in modo feticistico che leggerlo per davvero. Però qualcuno può anche usare bene anche un festival letterario, questo non mi sento di escluderlo perché io credo nel lettore come individuo. Ci può sempre essere un individuo, un lettore libero che riesce a usare bene un’opera letteraria per interrogare se stesso, questa è una speranza che io lascio aperta. Detto questo però certo, la tendenza generale va dall’altra parte.

C.B.– Lei ha citato Pasolini, e la mia terza domanda riguarda proprio lui. Lei diceva, durante l’intervento che ha tenuto all’Università Karlova, che mentre Calvino è stato soprattutto un maestro, Pasolini è stato più che altro uno scandalo vivente. Cosa invece è ancora vivo, attuale, e anche, se vogliamo, “riciclabile” di Pasolini oggi, al di là del livello della società, ma genuinamente a livello letterario?

filippo 4La Porta – A livello letterario non so, avrei qualche dubbio, perché Pasolini è stato un grande intellettuale, un intellettuale critico, un intellettuale scandaloso, ha detto la verità sul nostro paese quando nessuno riusciva a dirla. Non ci riuscivano i politici, i sociologi, nessun altro. Invece lui l’ha detta, nei primi anni ’70. È stato un autore con cui almeno idealmente io ho dialogato, proprio perché è un autore che mette in discussione tutte le nostre certezze ideologiche ed è un autore grande proprio in quanto autore disturbante, ha detto delle verità puntute, scomode: in pieno ’68 ha scritto un articolo bellissimo, in cui diceva che la cosa più rivoluzionaria era la rassegnazione. Non ogni forma di rassegnazione, ma la rassegnazione di chi è rassegnato perché è completamente estraneo al potere, e non vuole neanche rientrare nel potere per sostituirsi al potere. Quindi una rassegnazione che esprime il massimo dell’alterità, che interrompe persino qualsiasi dialettica con il potere. Dal punto di vista strettamente letterario probabilmente le cose migliori di Pasolini sono le sue cose di critica letteraria, quel libro meraviglioso che è Descrizioni di descrizioni, un libro stupendo, il più bel libro di critica militante della seconda metà del ‘900. Di Pasolini rimangono gli Scritti corsari e le Lettere luterane che sono, come ha detto Berardinelli, dei poemetti ideologici in prosa. Lui ha ripreso e riattivato la forma del poema in prosa di Baudelaire, di Rimbaud. Quindi sono poemetti autobiografici in prosa, poemetti ideologici in prosa, grande invenzione anche stilistica di Pasolini. Per il resto, secondo me le cose scritte in Petrolio le ha dette meglio con gli Scritti corsari. Detto questo, in Petrolio ci sono delle pagine straordinarie, però Pasolini, come ho detto oggi all’Università, non si annulla mai nei suoi personaggi e quindi non è un vero romanziere. Ha sempre un controllo molto forte sulla pagina, che è un po’ curioso, perché la morale del libro è un’altra, nel libro il protagonista cambia sesso perché secondo Pasolini – è un po’ contorto questo suo ragionamento – l’uomo, in quanto penetra, ha soltanto un rapporto parziale, un rapporto di dominio con la realtà, mentre la donna penetrata ha un rapporto con la totalità… Quindi Pasolini sarebbe contro un atteggiamento di controllo conoscitivo sulle cose, di controllo stilistico intellettuale. E lui invece ce l’ha sempre, questo controllo sull’esperienza. Quindi io dico che il miglior Pasolini rimane il critico, il saggista degli Scritti corsari e Lettere luterane, e il Pasolini dei primi film, Accattone, Il Vangelo secondo Matteo, la prima parte di Mamma Roma, La ricotta e probabilmente anche Cosa sono le nuvole. Ultima cosa su Pasolini è che la sua rimane soprattutto una grande lezione perché è stato forse l’unico intellettuale italiano che ha sempre presentato una totale trasparenza emotiva. Tutto quello che scrive Pasolini lascia filtrare continuamente le emozioni che lo hanno prodotto. In Pasolini c’è sempre un legame tra biografia e pensiero, tra l’esistenza e le idee. Diceva Brecht che bisogna sempre evidenziare il rapporto tra il desiderio e il pensiero. Ecco, questa trasparenza esistenziale, questa trasparenza emotiva di Pasolini, è un unicum nella cultura italiana, non mi viene in mente nessun altro intellettuale che abbia questa sua caratteristica.

C.B.– Proprio attraverso Pasolini arriviamo al suo ultimo libro. Roma è una bugia: Pasolini descrive Roma, è affascinato da Roma, descrive una Roma cruda, una Roma vera, la Roma delle borgate. Questa città, del resto, è stata spesso al centro dell’attenzione di grandissimi autori, di grandissimi scrittori. Recentemente se n’è parlato molto a proposto del film La grande bellezza. Qual è invece l’approccio del suo libro?

La Porta – Allora, La grande bellezza è un film ovviamente discutibile, è un film prolisso, io avrei tolto almenofilippo 5 mezz’ora, ma tutto sommato è un film secondo me dignitoso, perché Sorrentino ha un’immaginazione visiva che io trovo veramente straordinaria. Lui ci ha dato una percezione di Roma: Roma nel suo film è una città bellissima e funerea, una città quasi marmorea, ritratta all’alba, in cui il protagonista passeggia e vede delle persone di una certa età che fanno jogging e che si esprimono in romanesco, sembrano quasi le anime morte di Gogol, è una città spettrale. Probabilmente il punto di vista di Sorrentino è più pessimistico rispetto al mio, per Sorrentino Roma è postuma, è una città che sopravvive a se stessa. E’ una specie di post-storia in cui la grande bellezza si ritira da tutto, dall’arte, dalla letteratura, dalla vita sociale, dalla vita civile. Per Sorrentino Roma è bella quando è disertata dai suoi abitanti. Io invece penso che Roma continui ad essere bella e brutta. Dico nel mio libro che Roma è una bugia perché Roma probabilmente non mantiene le sue promesse, promette una felicità con i suoi meravigliosi tramonti, che però sono tutti tramonti un po’ di cartapesta, un po’ teatrali, sono i tramonti dei quadri di Scipione e di Mafai… Promette una felicità che probabilmente è illusoria e illusionistica. Roma è una città bellissima, ma anche spesso molto brutta ad altezza d’uomo, ad altezza di marciapiede. È una città santa ma irreligiosa, dice di essere eterna ma nasconde l’effimero nell’eterno, come aveva scritto il poeta barocco Quevedo che si trovava a Roma nel ‘500 – lui vede il Tevere e dice qualcosa come “Roma, nella tua grandezza e nel tuo splendore tutto quello che è stabile vola subito via, evapora, mentre solo il fuggitivo, l’effimero persiste, dura”. Quindi a Roma, io dico nella pagina forse più New Age del mio libro, uno può vivere l’eterno dentro l’effimero, dentro l’attimo, eternità nel senso di una misteriosa sospensione del tempo. E dico anche, partendo dalla lingua romana, romanesca, che Roma oscilla tra i due estremi, il massimo del cinismo e un sorprendente stupore: classico del cinismo è “che te frega”, massimo dello stupore “anvedi!”. Quindi c’è questa dialettica, da una parte l’anima cinica dei romani, un po’ incarognita, con il romano che non si stupisce di nulla, perché ha già visto tutto, ha visto almeno tre saccheggi della sua città, ha visto rovinare degli imperi… Come dice Flaiano, perfino se sbarcasse a Roma un marziano all’inizio sarebbe una grande novità, ma dopo una settimana nessuno ci farebbe più caso e qualcuno gli griderebbe appunto “a marzia’ facce ride!”. Poi invece c’è l’anima stupefatta, la meraviglia, il candore dei romani. Io nel libro racconto di quando, nel maggio del ’68, a 15 anni, sono andato a vedere un concerto di Jimi Hendrix al Teatro Brancaccio che sta in via Merulana. Quel momento mi ha suggerito un’analogia un po’ azzardata tra Jimi Hendrix e Gadda, entrambi artisti tragici, artisti feriti e trasgressivi, artisti sperimentali… ecco, quando ho visto Hendrix ho capito che la vera rivolta del ’68 passava di lì più che per le facoltà occupate, per i cortei… Passava per il linguaggio che aveva inventato Hendrix, lì c’era la nostra emotività, la nostra sensibilità. E, parlando dello stupore dei romani, nel caso di Hendrix, mi ricordo benissimo, il pubblico era assolutamente irretito, era ipnotizzato, e alla fine del concerto uno dalla galleria urlò: “a Giacomo, me pari Dio!”. Questa fu la reazione dei romani a Jimi Hendrix.

C.B.– In ogni città – per chi la vive, per chi cerca di penetrarla con la scrittura, con la letteratura o anche soltanto emozionalmente – c’è spesso un luogo che più degli altri ha un significato particolare. A Roma, per lei, qual è questo luogo?

La Porta – Direi due luoghi: il primo è Piazza del Popolo, non so se è la più grande piazza di Roma ma è una piazza che racchiude vari stili, il barocco, il neoclassicismo, è stata ridisegnata nel ‘700 da Valadier, e quella piazza è poi diventata negli anni ’60 la piazza della dolce vita e della cultura, con la scuola romana di pittura, Elsa Morante, Pasolini, Moravia, scultori, registi, pittori… Quando io ero un ragazzino c’era il mito di Piazza del Popolo. Tra l’altro la piazza è una bugia perché popolo non viene da populus maschile, ma viene da populus femminile e vuol dire pioppi, non vuol dire popolo. E mi pare una specie di meraviglioso catino quasi come spalancato sotto il cielo di Roma, è una piazza bellissima. Però forse oggi il cuore di Roma è il quartiere dove abito, Via Ostiense, Viale Aventino, Piramide. Tre stazioni, tre cimiteri. È il quartiere degli addii. Però si tratta di un addio che non finisce più, che non finisce mai, quindi questa cosa non deve immalinconirci troppo, anzi ci abitua, ci educa a una possibile arte del congedo. Bisogna prepararsi, secondo me, fin da ragazzi a coltivare questa saggia arte. Di questo parlava Platone, ma anche i filosofi stoici, Orazio… Quindi è un’immagine per niente triste perché è un congedo sempre differito; tutto quello che viene a Roma muore – guardate il cristianesimo – tutto quello che viene a Roma ristagna e si impaluda, però non smette mai di morire, questo è il segreto di quella città.

C.B.– Perciò è eterna. Un’ultima cosa: mi incuriosisce molto il suo rapporto con Eco, perché alcuni anni fa abbiamo intervistato il suo traduttore ceco, il critico letterario Zdenek Frybort, pochi mesi mesi prima che morisse. Frybort, in questa conversazione, ha definito Eco non un letterato, non uno scrittore, ma uno scienziato della letteratura che prende i pezzi e sa dove metterli.

La Porta – Io sono d’accordo. Penso che un critico militante deve pure avere una propria idea della letteratura. Umberto Eco ha i suoi lettori, ha un suo pubblico, io non voglio intromettermi tra Eco e i suoi lettori, fanno benissimo a leggerlo. Dico solo che la sua idea di letteratura è agli antipodi della mia. La mia idea di letteratura è quella che io ritrovo in Pasolini, Paolo Volponi, Elsa Morante, ma direi anche in buona parte Calvino, in buona parte Sciascia. È un’idea di letteratura come interrogazione morale, come ricerca della verità, per dirla un po’enfaticamente. Qualcuno, mi pare George Steiner, ha detto che la letteratura è l’equivalente laico della preghiera. Eco invece ha un’altra idea di letteratura, un’idea di letteratura ludica, che fa assomigliare i suoi romanzi a dei videogiochi, a volte ben costruiti, a volte noiosi, alcuni suoi romanzi hanno qualcosa di ferrigno, di metallico. Lui ha avuto tanto successo perché fa sentire i suoi lettori molto colti,  è il classico autore della nuova middle-class della nostra società – anche Magris diceva che il lettore non vuole soltanto intrattenimento, ma siccome ormai viviamo nella società degli intelligenti, vuole un intrattenimento che ci faccia sentire più cool, che ci faccia sentire più alla moda, più colti. Umberto Eco è proprio lo scrittore congeniale a questa middle-class culturale. La mia idea di letteratura sta da un’altra parte, tutto qua. Veramente, nothing personal!

C.B.– Premio Nobel per la letteratura in Italia l’anno prossimo. A chi?

La Porta – Premio Nobel! Posso pensarci un momento? …Io dico La Capria. Ho avuto una lunga conversazione con lui qualche giorno fa, e gli ho detto: “Caro Dudù – come viene chiamato La Capria – cos’è che secondo te è il segno della maturità di una persona?” Dudù la Capria ci ha pensato su e mi ha detto: “una persona diventa veramente matura quando riesce a immedesimarsi negli altri”. Questa è la risposta di Dudù. Io non so se la condivido interamente, ma ve la volevo riferire.

Di Mauro Ruggiero e Luca Cristiano

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