Sandro Veronesi è uno degli autori italiani contemporanei più noti e tradotti all’estero. Giornalista, ma soprattutto scrittore dallo stile raffinato, nella sua carriera già più che trentennale ha vinto praticamente tutti i principali premi letterari italiani tra cui, unico autore insieme a Paolo Volponi, per ben due volte l’ambito Premio Strega. Del prestigioso premio, nel 2021 è stato anche presidente di giuria. Veronesi ha all’attivo saggi, opere giornalistiche, poesie e numerosi romanzi tra cui i best seller Caos calmo e Il colibrì. Dalle sue opere sono stati tratti anche film di grande successo. Ospite a Praga dell’Istituto Italiano di Cultura, diretto da Alberta Lai, per partecipare all’edizione 2021 del più importante evento editoriale della Repubblica Ceca, la “Fiera internazionale del libro”, svoltasi dal 23 al 26 settembre, Veronesi ha presentato la traduzione in lingua ceca del suo ultimo romanzo Il colibrì (La nave di Teseo, 2019).
MR Da Per dove parte questo treno allegro, (Theoria, 1988) a Il colibrì (La Nave di Teseo, 2019), passando per La forza del passato (2000, premio Viareggio e Campiello) e Caos calmo, i premi e tutto quello che è accaduto in un arco di tempo di oltre tre decenni in cui si è affermato come uno tra i più noti scrittori italiani, come è cambiato e come si è evoluto il modo di scrivere di Sandro Veronesi?
SV Da allora ad oggi per me è diventato più difficile scrivere. È il contrario degli scacchi: mentre a scacchi più partite giochi e più, in teoria, queste dovrebbero aiutarti ad affrontare quelle successive, per la scrittura accade esattamente il contrario; cioè tutto quel che ho scritto e che ho letto nel frattempo per arrivare a produrre qualcosa di nuovo, mi ostacola. Primo perché non posso ripetere quello che ho già detto, e secondo perché quello che ho già scritto mi fa sembrare impossibile cimentarmi in un altro romanzo, perché mi sembra di aver già dato tutto in quello precedente. Mi sembra dunque sempre difficile poter trovare la forza, l’energia e la lingua per poter scrivere un altro romanzo. A me piace cambiare. Non ho mai battuto un ferro finché era caldo. L’ho sempre lasciato freddare prima di batterlo. Anche a scuola finivo la brutta copia e poi non copiavo in bella, ma scrivevo un’altra cosa. Quello che ho capito, e che per me è un miracolo, è che la scrittura avviene mentre scrivo, mentre batto sui tasti, è in quel momento che riemergono certi ricordi, quando digiti certe parole “attive” che te li fanno recuperare, perché in quel momento sono nel pieno dell’atto creativo di scrivere. È in quel momento che per me avviene il miracolo, se avviene. Prima e dopo, no. Questo miracolo, però, tutte le volte è sempre più difficile che si realizzi. Ecco in che senso scrivere mi è sempre più difficile. Poi, dal punto di vista stilistico, non analizzo quello che faccio, non stiamo parlando di Calvino o Sciascia e dunque per uno scrittore come me l’aspetto stilistico non è poi così importante. Per me il miracolo vero è che io abbia scritto nove romanzi.
MR Cosa vuol dire per uno scrittore vincere per ben due volte uno dei premi letterari più importanti d’ Italia, e come un evento del genere cambia la vita e l’approccio al “mestiere di scrivere”?
SV A vincere due volte il Premio Strega siamo stati solo in due. Mentre a provarci siamo stati solo in tre. Oltre a me e Paolo Volponi ci aveva provato Carlo Cassola, ma non ci era riuscito. Aveva vinto con La ragazza di Bube, mentre quattordici anni dopo con Paura e tristezza – che secondo me è il suo più bel libro – non vinse. Perché? Perché la giuria del Premio Strega è sempre la stessa. Ora, in quindici anni qualcuno è morto, qualcuno è stato sostituito, si è aggiunto, ma il grosso di quegli “Amici della domenica” è rimasto quello che ti ha già premiato, e quindi è molto probabile che ti dica: “Veronesi, bello il Colibrì, però ti ho già scelto quindici anni fa, e adesso il mio voto lo do a qualcun altro”. Con l’editore abbiamo però deciso di fare comunque lo Strega nel 2020, anche se nessuno, tranne i due scrittori di prima, ci aveva riprovato dopo aver vinto. Lo abbiamo fatto perché Il colibrì, uscito ad ottobre, era stato accolto così bene, era stato così fortunato che sarebbe stato un peccato che a marzo si eclissasse proprio per via dello Strega che proponeva i libri della nuova stagione. Mentre se entri nel premio e vai in finale, fino a luglio il libro rimane in vista e i librai non ti sostituiscono sul bancone. E quindi era stata una scelta strategica per rimanere in libreria. Sia Caos Calmo, sia il Colibrì sono due libri che erano andati già bene, poi con la vittoria allo Strega le copie vendute sono aumentate tanto. Pensa che ci sono lettori, molti, che ogni anno comprano solo il Premio Strega. Il secondo classificato non lo comprano. E poi è l’unico premio in Italia che ti dà una visibilità internazionale improvvisa per cui tutti gli editori stranieri ti pubblicano a scatola chiusa, solo perché hai vinto lo Strega. E una volta che entri nel circuito degli scrittori internazionali, poi ti pubblicano anche gli altri libri. Questa è una cosa che si sente, sia economicamente e sia perché ti dà una dimensione per la quale non sai neanche se sei all’altezza: se sei veramente quello che all’estero credono tu sia. In ogni caso io non sento nessuna pressione. Non l’ho sentita la prima volta che l’ho vinto e neanche la seconda. Pubblico quello che mi va di scrivere. Ciascuno scrive ciò che può. In questo per me non è cambiato nulla.
MR Dello Strega si parla tanto, nel bene e nel male. Anche autori di primo livello lo hanno spesso criticato. Da Presidente della giuria dell’edizione del 2021, pensa che ci siano delle ombre intorno a questo premio, è d’accordo con le critiche che spesso vengono rivolte all’organizzazione e alle logiche del concorso, è vero che vengono premiate sempre le grandi case editrici? Qual è la sua esperienza?
SV La differenza che ho notato tra la prima volta che l’ho vinto e la seconda è che ai tempi del primo, il secondo non lo avrei mai vinto. Voglio dire che se all’epoca avessi pubblicato Caos calmo con una casa editrice nata quattro anni prima, come è accaduto per Il colibrì e la Nave di Teseo, il premio non lo avrei vinto. Fino a sette-otto anni fa, il Premio Strega lo vinceva sempre una grossa casa editrice. Non mi chiedete perché, ma era strutturato in modo tale che la piccola casa editrice non ce la faceva. Poi hanno fatto due o tre cambiamenti nel regolamento, hanno chiamato a votare gli Istituti di Cultura all’estero e di anno in anno le cose sono un po’ cambiate. Non dimentichiamo che quest’anno ha vinto Neri Pozza, una casa editrice ancora più piccola della Nave di Teseo. Anzi, talmente piccola che non hanno messo nessuno in sestina, secondo la regola che vuole che se nei cinque non c’è un piccolo editore, prendono il miglior classificato tra i piccoli e lo aggiungono ai cinque finalisti. L’anno scorso, ad esempio, si era aggiunto Jonathan Bazzi con Fandango. Quest’anno non c’era nessuno perché Neri Pozza è un piccolo editore. E ha vinto. Cosa impensabile quindici anni fa. Quindi, forse quello che si diceva prima era vero perché le regole erano orientate in un certo modo, ma è bastato modificare un po’ queste regole perché le cose potessero cambiare. Comunque devo dire che per quella che è stata la mia esperienza, molte cose che scrivevano in merito alle presunte beghe, erano false e inventate. C’è anche da dire, però, che normalmente è il grosso editore che pubblica autori bravi. È difficile che una grande casa editrice se li lasci scappare. Se non lo becca al primo, sicuramente lo becca al secondo libro. Ripeto: La nave di Teseo ha vinto lo Strega al suo quinto anno di vita e con un peso specifico inferiore a case editrici come la Mondadori e altre. Le cose sono sicuramente cambiate. Poi, che sia un premio che può essere accusato, non tanto di “Romacentrismo”, ma di essere borghese, legato a una letteratura tradizionale, questo è vero, ma è pur vero che l’ha vinto anche Eco con Il nome della rosa. È possibile che scrittori come Antonio Moresco, ad esempio, ne escano penalizzati, ma se fossi Moresco io neanche parteciperei. Non credo sia proprio il suo terreno.
MR Un’altra domanda sul Premio Strega. Chi, secondo lei, di quelli che quest’anno non sono entrati nella cinquina avrebbe meritato di più?
SV Io presentavo al premio Teresa Ciabatti, pubblicata da Mondadori, che non è entrata nella cinquina, e che secondo me poteva anche vincere. Per quanto sono felice che abbia vinto Emanuele Trevi che, tra l’altro, è anche un amico, e che lo Strega lo meritava a prescindere. Comunque, Sembrava bellezza di Teresa Ciabatti era un romanzo di qualità, anche abbastanza caustico, acido, neanche tanto accomodante… ma è arrivato settimo, per cui c’è poco da discutere. Era la stessa giuria che aveva premiato me un anno prima, non posso mica parlarne male, non credi?
MR Tornando a Caos calmo, un libro che ha avuto un enorme successo, che è stato tradotto in 20 lingue e da cui è stato tratto l’omonimo film diretto nel 2008 da Antonello Grimaldi e interpretato da Nanni Moretti. Come mai la storia di Pietro Paladini, secondo lei, ha appassionato così tanto i lettori?
SV Penso che nel caso di Caos calmo uno dei fattori del successo sia stato il titolo, e di questo me ne sono accorto dopo. Se avessi preso un euro per tutte le volte che è stata usata l’espressione “Caos calmo” in altri contesti, dal calcio alla politica, sarei milionario. Ancora oggi ho attiva la funzione di Google Alert e ogni giorno questa espressione viene usata almeno due o tre volte. Prima questo modo di dire in italiano non esisteva. Esisteva in inglese, ma non nella nostra lingua. Quindi vuol dire che quel titolo ha funzionato.
MR Da dove è venuto fuori questo titolo?
SV Il titolo è mio, soltanto che non è mio… Ricordo che una sera mi trovavo assieme a un amico filosofo, a casa di un amico a Milano, la cui fidanzata canadese, mentre si parlava e si beveva, a un certo punto ha detto che quello in cui ci trovavamo in quel momento era un “caos calmo”. Per quanto annebbiato, sono rimasto colpito da questa espressione. E poi questa ragazza mi ha spiegato che in inglese “quiet chaos” è un modo di dire, che si usa per definire una situazione un po’ stagnante, un po’ insana. Ricordo che andai a vedere sul web e c’erano molte occorrenze di questo modo di dire in inglese, e addirittura c’era un gruppo heavy metal con questo nome ossimorico. Però in italiano non esisteva. Poi nel titolo c’è anche un’allitterazione e così l’ho adottato per il libro. E lì anche l’editore – e normalmente gli editori fanno sempre storie sui titoli – lo ha subito accettato. Ecco, il titolo ha contato molto. Anche perché l’aggettivo “calmo” è tranquillizzante, attraente… Poi in sé il romanzo è molto complesso e mi è addirittura toccato scriverne un altro per spiegarlo, perché il protagonista di Caos calmo, nel frattempo, era stato interpretato in un certo modo, come una specie di santino, che a me, invece, non tornava. Pietro Paladini è un paraculo, non un santino. Allora ho dovuto scrivere il secondo romanzo. Alla fine non lo so perché il libro ha avuto quel successo, se lo sapessi cercherei di replicarlo. Il titolo ha contato molto, sicuramente.
Un altro titolo che invece si è rivelato profetico e che oggi si usa molto è quello di Terre rare, però ha un’occorrenza cento volte inferiore rispetto a “Caos calmo”. Ho il Google Alert anche per “terre rare”.
MR Il colibrì è stato definito “uno dei romanzi più belli degli ultimi dieci anni” e, come per certi aspetti anche Caos calmo, ruota intorno alla profonda ambiguità dell’esistenza. Qual è la genesi di questo tema comune a diversi suoi romanzi?
SV In realtà è una risultate. In tutti i miei libri, non solo in questi due che sono stati i più fortunati, ci sono delle immagini primarie che io mi porto dietro da anni. E siccome permangono, e non si cancellano, vuol dire che contengono abbastanza energia da consentirmi di lavorarci attorno per anni. Perché io ci lavoro per anni a un romanzo. Quando poi inizio a ricamare qualcosa che mi convince attorno a queste immagini, viene fuori il tema. Nel caso del Colibrì, il tema c’era già più o meno dai tempi di Caos calmo, quando lessi un libro di Umberto Eco, A passo di gambero, nel quale Eco, con la sua chiarezza, metteva in evidenza ciò che avevamo sperimentato tutti, e cioè che è vero che le cose stavano cambiando, ma in peggio. Si andava indietro. E cioè che questo movimento in avanti dell’evoluzione, in moltissimi casi, anziché un progresso, segnava un regresso. Un andare a passo di gambero, appunto. E io questo discorso l’ho connesso al mito della mia giovinezza, al cambiamento. Sono cresciuto negli anni ’70. In quel tempo il cambiamento non solo era una cosa bella, ma era lì, tangibile, era il motore per quasi tutti i giovani, perché era un cambiamento politico, ma anche culturale. Poi invece quel cambiamento non c’è mai stato, o quando è avvenuto, ad esempio, con l’arrivo di internet, l’informazione… il risultato è stato che certe cose che prima non entravano in circolo nella società perché erano presenti certi “anticorpi”, adesso ci sono, ad esempio le fake news e tutta una serie di regressioni in peggio. Allora mi è piaciuto mettere al mondo nel Colibrì un personaggio che al cambiamento non ci aveva mai creduto, un personaggio anzi, statico, conservatore, che prima di mollare una cosa per una nuova vuole la dimostrazione che quella nuova sia migliore. Mi piaceva guardare la stessa esperienza che avevo avuto io, dalla parte di uno che invece vive il cambiamento con indifferenza, e che poi si ritrova ad aver avuto ragione negli ultimi dieci – vent’anni. Mentre io avevo torto. Mettendo insieme immagini primarie e questo discorso sul cambiamento che mi aveva colpito in quel momento e che era rimasto dentro di me per un po’ di tempo mentre scrivevo altro, ho concepito Il colibrì.
MR Come è il suo rapporto con gli editor prima della pubblicazione di un nuovo romanzo?
SV Agli editor piace molto tagliare. La maggior parte degli editor che conosco amano tagliare e propongono sempre tagli. Eppure l’atto creativo è un atto puro. Quando scrivi non stai a guardare sempre se serve tutto. Quando Dio ha creato il mondo ha creato anche le zanzare e i moscerini. Te lo immagini l’editor che arriva e dice a Dio: “Taglia, taglia, non servono le zanzare e i moscerini, sono inutili, rompono solo i…!”
Ma non saranno mica le zanzare il problema dell’universo!
E poi anche zanzare e moscerini hanno un loro senso, sono una cosa complessa…
Ecco, quando ci sono questi editor che tagliano o suggeriscono solo tagli io non sono d’accordo. Ti faccio un esempio, ed è quello che gli editor hanno fatto a Raymond Carver. Carver aveva un tumore e stava per morire, allora Gordon Lish – che era il campione di questi editor cedui – è intervenuto sul testo e, di fatto, ha creato in laboratorio quello che è lo stile di Carver. Ma Carver, in realtà, non è così sospensivo come invece può sembrare dai suoi racconti. Se leggi le sue poesie te ne rendi conto. Eppure i racconti di Carver sono stati un successo, un successo “fighetto” – e Carver era tutt’altro che un fighetto – che non assomiglia molto al vero stile dell’autore, anche se poi i racconti sono comunque belli.
Dunque, questo no. Non cerco editor che mi taglino quaranta pagine. Tagliare è facile. Puoi tagliare quaranta pagine anche in Moby Dick o ne La leggenda del santo bevitore se vuoi. Secondo me, quella di dire a uno scrittore di tagliare è l’ultima cosa da fare. Se il testo non è chiaro, allora lo si riscrive meglio. Tagliare è una soluzione a un problema, ma non sempre. Io taglio tanto quando scrivo, prima di arrivare a un testo finale. Considero invece prezioso il lavoro dell’editor quando mi fa rendere conto delle ripetizioni, di parti del testo poco chiare, di errori… Gli editor me li pago io per farmi fare questo lavoro prezioso, perché non sempre l’editore, poi, lo fa come si deve.
MR Molti dei suoi romanzi sono diventati dei film. Che sensazione le dà vedere i suoi libri sullo schermo? Li riconosce? C’è qualcosa che la sorprende in positivo o in negativo?
SV Per privilegio di anagrafe, come diceva Pasolini, ho fatto in tempo a conoscere molti scrittori del Novecento. Poi sono morti quasi subito, ma io li ho conosciuti, e uno di questi era Alberto Moravia, che è stato anche mio direttore quando ero garzone… diciamo, segretario di redazione a Nuovi Argomenti. Quindi lo sentivo spesso parlando di cose della rivista, e ogni tanto ci si vedeva anche fuori insieme ad altri. Però lui era curioso dei giovani, di quello che scrivevano e ho avuto il privilegio di sentirmi dire da Moravia, personalmente, che non avrei mai dovuto partecipare alla sceneggiatura dei film tratti dai miei romanzi, perché quello del cinema è un altro linguaggio, e “una cosa che non c’entra niente”. E che sarei solo dovuto andare al cinema a guardare il film. Io all’epoca avevo pubblicato un libro, ma nessuno voleva farne un film. Così immagazzinai l’informazione anche se lì per lì non è che mi servisse. Poi però quando dieci anni dopo è capitato la prima volta con La forza del passato, mi hanno subito chiesto di partecipare alla sceneggiatura. Sai, partecipare alla sceneggiatura di un film significa anche “soldini”… Però che fai? Se te lo dice Moravia… Allora ho detto no. E questo è il mio rapporto con la trasposizione cinematografica dei miei libri. Anche se non esattamente, perché neanche lui era del tutto distaccato. Anche io, come succedeva a Moravia, conosco gli autori, i registi, i produttori, ho visto le anteprime, mi hanno invitato… quindi comunque in qualche modo sono coinvolto. Però parto dal presupposto che quell’opera lì non è mia, ma è sua, del regista. E se il regista si nasconde troppo dietro di me, ha sbagliato. Il regista deve raccontare la sua versione. Certo, è facilitato dall’avere un romanzo in cui i dialoghi sono molto più solidi rispetto a una sceneggiatura cinematografica, però deve fare la sua opera. Poi ci sono anche quelli che hanno fatto i registi dei propri romanzi, e va bene, se uno pensa di avere quel talento è bene che lo faccia. Ma non è il mio caso. Non ho il talento dello sceneggiatore e men che mai del regista. Dunque non mi pongo mai il problema se il film mi rappresenta o non mi rappresenta, perché sono curioso di vedere cosa l’autore, e cioè il regista, rappresenta di quell’opera. Poi però entra in gioco anche la fase emotiva: a me, per esempio, ha emozionato tantissimo vedere Bruno Ganz che pronunciava le battute che io avevo scritto quattro o cinque anni prima. La prima volta, soprattutto, fu un colpo d’emozione importante. Poi con Nanni Moretti e gli altri… In questo credo che neanche Moravia potesse contenere l’emozione. Anche adesso, con Il colibrì so che mi emozionerà vedere Favino, Laura Morante e tutti questi grandi attori che poi, grosso modo, si dibattono in una gabbia che ho costruito io. Ma mi auguro comunque che sia un’opera di Francesca Archibugi e non mia.
MR Passando dal cinema al giornalismo, lei ha collaborato a molti giornali tra cui Il manifesto, Epoca, l’Unità, Il Corriere della Sera… Che legame c’è tra il mestiere del giornalista e il mestiere dello scrittore, e quanto è importante per uno scrittore oggi essere presente sulla scena culturale italiana non solo come scrittore di romanzi e fiction?
SV Della parte giornalistica prendiamo la narrativa non fiction, e cioè quando racconti delle esperienze vere e delle cose successe veramente nelle quali ti sei immerso, sei stato testimone, ma che sono esperienze comuni, collettive e non tue. Poi c’è il giornalismo degli elzeviri, delle recensioni, che io ho iniziato a fare quando ero più vecchio, perché la mia formazione era un’altra. Però col tempo mi sono formato anche una coscienza critica. Devo dire che io non parlo mai male dei libri, preferisco scrivere solo di libri che mi piacciono. Non mi piace parlar male dei libri, poi se lo vuole fare un critico militante, ha il diritto e il dovere di farlo. Ma questo tipo di giornalismo ho iniziato a farlo dopo. Invece avevo iniziato subito a scrivere di cronaca, o comunque di forme non fiction, e lì era come scalare la stessa montagna da due versanti diversi: di cui uno a pieno sole, e l’altro al freddo, anche se poi la vetta è la stessa. La differenza enorme sta soprattutto nell’uso della lingua che in un romanzo di finzione può essere manipolatorio, prendi ad esempio Stern, ma nel raccontare cose vere non può e non deve esserlo. Nel giornalismo non fiction tu non puoi usare la lingua in modo manipolatorio, perché devi dare conto di una cosa così come l’hai vista. Dunque, l’armamentario dello scrittore non fiction deve essere molto semplificato mentre buona parte di quello dello scrittore di fiction è manipolatorio. Nel caso dello scrittore di romanzi non c’è niente di male perché la manipolazione fa parte di una convenzione e il lettore stesso vuole essere manipolato. È bello che lo stile ti manipoli. Nel giornalismo la fatica la fai per procurarti il materiale, poi scrivere è abbastanza semplice, proprio perché non ci puoi aggiungere nulla. Nella letteratura, al contrario, non ti muovi da casa tua, il materiale lo peschi dentro di te, però fai molta fatica a scrivere perché, per l’appunto, quella roba non esiste, ed è la lingua che la fa esistere, e deve essere manipolatoria. Prendi ad esempio la lingua di Gadda, non è manipolatoria? Pensa al suo libro L’Adalgisa in cui, ad esempio, fa la descrizione dei parquettisti di Milano.
MR Le chiedono spesso del rapporto tra scrittura e architettura, avendo lei studiato proprio architettura. Ma Veronesi è anche uno scacchista e quindi la domanda è: qual è il rapporto tra scacchi e scrittura dal punto di vista di uno scrittore-scacchista, o di uno scacchista -scrittore?
SV C’è molto, molto in comune. Sembrano cose banali a dirsi, però sono vere: nella scrittura come sulla scacchiera devi liberare i pezzi il prima possibile e metterti al centro della scacchiera appena puoi, altrimenti è come se quei pezzi non li avessi. Ad esempio, l’inizio del Colibrì è fatto proprio come una partita a scacchi. Ho messo subito in campo un interrogatorio in cui un personaggio chiede delle cose all’altro, così dopo dieci pagine sai già tutto del protagonista, sono già entrati in campo la sorella morta, la moglie, la figlia, il padre architetto… In appena dieci pagine io ho già mosso un sacco di pezzi, e questo, per me, viene dagli scacchi. E poi se vai a vedere, molte grandi opere sono fatte così. Oppure no. Ma spesso l’opera si divide davvero in tre parti: apertura, medio gioco e finale, ed aver masticato la teoria, come succede quando qualcuno gioca a scacchi, aiuta molto. A me aiuta molto aver avuto questo imprinting compositivo scacchistico. E questo coincide anche con l’imprinting che mi ha dato l’architettura. La composizione è composizione. Ricordo che una delle prime conferenze che io ho fatto fu quando un ancora sconosciuto e inedito Alessandro Baricco che lavorava al Salone del libro di Torino, mi telefonò per chiedermi se volevo andare a fare una conferenza su quello che era il tema di quell’anno. Io accettai e feci praticamente una conferenza sulla partita a scacchi che c’è dentro il Murphy di Samuel Beckett. È la partita che Murphy, sorvegliante, badante in un manicomio, gioca con il signor Endon. Il signor Endon è un pazzo che però Murphy definisce “molto superiore”. Ma sono in pochi quelli che l’anno giocata veramente quella partita. Io l’ho giocata veramente ed è una partita in cui Murphy si arrende perché il signor Endon fa quasi solo mosse reversibili, e cioè dopo quaranta mosse si ritorna nella stessa posizione in cui si era dopo sei mosse. E lì si capisce che Beckett se ne intendeva eccome di scacchi! E io feci questa conferenza commentando i commenti di Beckett alla partita, e venne fuori una bellissima conferenza, ma perché feci una cosa che non aveva fatto nessuno. Endon gioca e usa la scacchiera per comporre delle figure che poi ritornano su stesse, mentre l’altro gioca banalmente per vincere, e per questo Murphy lo considera “molto superiore”. Gli scacchi sono anche quello, sono anche composizione fantasiosa, perché le regole degli scacchi permettono di ritrovarsi nella stessa posizione anche dopo quaranta mosse.
MR A scacchi si dice: “Gioca l’apertura come un libro, il centro partita come un mago e il finale come un computer”, possiamo dire che per la scrittura vale la stessa cosa?
SV No, nella scrittura di un libro è il finale che devi scrivere come un mago. E questo perché devi trovare una porta per uscire. Uscire da un romanzo non è come uscire da una partita a scacchi. Da una partita a scacchi puoi uscire vittorioso o sconfitto. Oppure con un pareggio, ma così hai sprecato la partita. Da un libro non esci in pari e non puoi uscire sconfitto. Devi uscire vittorioso. Devi trovarla la porta, se possibile risparmiando la vita del protagonista (Nel caso del Colibrì il protagonista muore, ma è la storia della sua vita). Io ho sempre cercato di risparmiarle le vite dei protagonisti, perché uscire con la morte del protagonista è un po’ disonorevole. Sarebbe meglio uscire senza ammazzarli, ‘sti poveretti! Quindi il finale per me è molto importante. Ma c’è una cosa che negli scacchi è fondamentale nella sua trasposizione, fin dall’idea stessa dell’opera. Io metto sempre – ormai è la quarta o quinta volta che lo faccio – lo stesso esergo prima di ogni romanzo, che è Beckett: “Non posso continuare. Continuerò”. Ebbene, lo “Zugzwang” cos’è, se non proprio questo? Questo concetto c’è negli scacchi e c’è nella grande letteratura. Non puoi fare a meno di fare quella mossa. Non posso continuare. Continuerò.