Il drammaturgo che presentiamo è Manlio Santanelli, nato a Napoli, e autore di numerosi testi teatrali pluripremiati come Uscita di emergenza, Regina Madre, Bellavita Carolina, Disturbi di memoria, Un eccesso di zelo. Nel vasto corpus della sua opera rientrano però anche testi narrativi e in particolare tre raccolte di racconti: Racconti mancini (Napoli, Alfredo Guida Editore, 2007); Religiose, militari e piedi difficili (Giammarino Editore, 2015, prefazione di Ugo Gregoretti e infine La serva del principe (Editore Kairòs, 2016, prefazione di Antonia Lezza).
Quella di Manlio Santanelli è, come per il teatro, una scrittura fitta di deliranti paradossi e di metafore iperboliche. Una scrittura solidamente immediata, dai confini aperti, dove è presente, da un lato, una deviazione, uno straniamento verso l’assurdo, dall’altro, un alto coefficiente di teatralità, evidente non tanto nella frequenza dei dialoghi ridotti al minimo, quanto in una fortissima percettività corporea, una corporeità imperfetta, che caratterizza quasi tutti i personaggi protagonisti dei racconti.
In generale, la sua drammaturgia che reinterpreta il teatro dell’assurdo, contaminandolo con la tradizione della drammaturgia napoletana, si distingue per la prevalenza della contaminazione tragicomica, la rilevanza del paradosso e soprattutto per l’esasperazione di uno stato apparente di immobilità e di apatia, rispetto a cui cercare un’ “uscita di emergenza” attraverso l’approdo nella follia o nel fantastico. I paradossi delle situazioni narrate sono però superati e doppiati da un’ironia tutta napoletana.
Il testo che qui recensiamo è Il baciamano, ormai un classico del teatro contemporaneo che ha avuto diversi adattamenti: ricordiamo che fu presentato nel Maggio del 1999 nel cortile d’onore del Palazzo Reale di Napoli, in occasione del bicentenario della Repubblica Napoletana del 1799 e che continua ad avere una grande fortuna anche in Francia, grazie alla traduzione di Valeria Tasca. Come spiega Santanelli, in una intervista, a cura di Barbara Barone, che si può leggere nel sito www.teatro.unisa.it:
“la favola che la Janara racconta al giacobino nel Baciamano è nata dopo aver letto il Pentamerone di Basile. Nella scrittura ho adoperato uno stile che precede quello della commedia: è un napoletano più antico di quello che parla normalmente la Janara, è più arcaico, perché le favole affondano nella memoria più lontana. Noi siamo fatti anche di ricordi e ricordare una parte di noi è un modo per riconoscerci, per riappropriarci della nostra identità. Quando vacilla la propria conoscenza di sé, la cura più immediata è quella di ritornare indietro e capire chi siamo stati e per quale motivo non ci riconosciamo più in ciò che siamo stati”.
Il regista, Giovanni Esposito, noto attore di teatro e cinema, ha debuttato con Il Baciamano al Festival Segreti d’Autore a cura di Ruggero Cappuccio (Valle Cilento, 13 Agosto); è andato in scena al Ridotto del Mercadante a Napoli dal 22 al 27 Novembre, e l’8 Gennaio all’Auditorium “Oscar Niemeyer” di Ravello. Le scene sono di Luigi Ferrigno, i costumi sono di Rossella Aprea, gli effetti video di Davide Scognamiglio, il progetto luci della regista Nadia Baldi, la collaborazione musicale di Elio Manzo.
Recensione dello spettacolo Il Baciamano, regia Giovanni Esposito
Un fondaco buio nel ventre di Napoli, una dimensione ctonia, sulfurea, in cui penetrano dall’esterno le voci dei vicoli, i miasmi e gli afrori neri di una città “porosa” (così come l’ebbe a definire W. Benjamin nel 1925), città brulicante di varia umanità e incomprensibile nel suo mistero. Sullo sfondo è evocato, alluso e anche mitizzato il tragico epilogo della Rivoluzione partenopea del 1799. Al centro della scena due protagonisti che si confrontano, (secondo la formula cara al teatro di Santanelli, a partire da Uscita di emergenza del 1979), una lazzara sanfedista e un gentiluomo giacobino, portato nel fondaco dal marito della “janara”perché venga ucciso e dato in pasto ai figli affamati. Due maschere tragicomiche, due culture, due lingue, due corpi così lontani, così diversi, allegorie di pulsioni contrastanti ma che, alla fine, si legano nel simbolico “segno” del “rito” del baciamano.
In bilico tra eros e thanatos, tra pulsioni di morte e istinti erotici, si consuma il rito dell’incontro, si consuma una cerimonia di amore e morte, in un ribaltamento ironico e tragico, in un gioco di scambi di ruoli in cui il condannato a morte realizza con il baciamano il desiderio di chi sta per sacrificarlo.
La bellezza seduttiva del cerimoniale del baciamano che ha incantato la janara, davanti al Palazzo Reale, è tale che il rito viene raccontato come una “favola”:
«È na cosa…ca l’uommene fanno…a li femmene…[…] Io personalmente,’ncuoll’a mme nun l’aggio maje pruvato…l’aggio surtanto visto ’e fa’. Na vota, annanze Palazzo Riale, nu signore, lustro e alliccato comme a te, arapette ’a porta ’e na carrozza, aiutaje a scennere a na signora bella come Maria Vergine, le facette ’a riverenza, e ll’appujaje nu vaso ’ncopp’ ’a mano. (delusa). ’A mano, a me, nisciuno maje me l’ha vasata! Maje! ».
Con il rito del baciamano che la janara e il gentiluomo mettono in scena (in un teatro nel teatro) è come se il gentiluomo volesse trasferire alla donna, ultima tra gli ultimi, un segno di una “paideia”, di un’idea di educazione che – seppure appare segno di un’epoca ormai superata – diventa, nell’utopia giacobina, gesto che libera dalla degradazione, dal contagio della peste morale e fisica, che assale un’umanità cancerosa fatta da quei “magnifici vinti”, che si spingevano fino al cannibalismo.
Come afferma la studiosa Antonia Lezza, che ha dedicato importanti saggi all’analisi di quest’opera:
«Il testo, insistendo molto anche sul tema dell’ineluttabilità del destino, pone l’uno di fronte all’altro due persone, un uomo e una donna , molto differenti tra loro, che sono espressione di due culture diverse, alta e bassa, colta e popolare. Seppure nell’originalità dell’argomento trattato emergono, in questo magnifico testo, alcune costanti della scrittura di Santanelli come lo spazio chiuso, claustrofobico, in cui si definisce l’azione, lo scontro/incontro di due personaggi, l’elemento evocativo (racconto o fiaba)» (Cfr. A. Lezza, “La letteratura teatrale italiana. Storia e ipotesi di lavoro in A. Lezza, N. Acanfora, C. Lucia (a cura di), Antologia teatrale, Liguori Editore, Napoli, 2015, pp. 21-22).
Merito di questo allestimento è quello di far risaltare il contrasto tra la carnalità e la visceralità della janara, Susy Del Giudice, e la grazia simulata, la pedanteria del gentiluomo illuminista, impersonato da Giulio Cancelli.
Vestita di luridi stracci, spettinata, sgraziata e con i piedi nudi la formidabile Susy Del Giudice riesce, con una grande intensità vocale e mimica, a tradurre il senso fondamentale dell’opera, che è quella “callida iunctura” tra amore morte, tra sublime e popolare, che Santanelli vuole rappresentare attraverso la janara potente e fragile al contempo. Sospesa tra rassegnazione e anelito di vita, tra bestemmia e pulsione erotica, rappresenta nel suo delirio la negazione della maternità, la negazione della femminilità. E l’attrice è bravissima a tradurre con gesto, voce e corpo questa maschera tragica, e insieme grottesca e comica.
Gli oggetti di scena, tegami sporchi di sangue, graticole, lame e pugnali traducono tutto il senso dell’orrido che appartiene a questa favola nera. Così come i due ombrelli che simulando le ruote della carrozza diventano sulla scena “segni di segni”, così poveri e al contempo così ricchi di evocazioni simboliche e metaforiche. La scelta originalissima dei costumi evidenzia il contrasto tra queste due culture, quella illuministica e “civile” del gentiluomo e quella degradata della popolana, sudicia e scalza (da notare il particolare della janara scalza che si contrappone al gentiluomo che calza le scarpe tipiche dei costumi del Settecento). E infine il tema dominante delle mani, presente nel testo sin dall’inizio: l’attrice concentra nelle mani sporche di carbone, nelle mani che maneggiano le lame tutto il suo essere, tragico, drammatico, assoluto. Le mani diventano, metonimicamente, parte per il tutto di un mondo dove la donna, madre violenta, minacciosa, non è “accoglienza”, ma rifiuto, violenza, immersa com’è in un universo di butalità e degradazione. Lo spettacolo, come spiega il regista Giovanni Esposito, si sviluppa in un contesto di guerra «dove la disperazione costruisce armi con la ferale meccanica del “tutto è concesso”, eppure quando questi mondi stringono fra loro un intimo contatto, il loro asse di rotazione si sposta». «Nel testo di Manlio Santanelli – continua Giovanni Esposito– le abituali prospettive mutano e le asserite certezze si rivelano in tutta la loro effimera volatilità, rendendo disperata la ricerca di una via d’uscita. Un gesto ammirato, sognato, un baciamano, diventa l’opportunità per consolidare il cambio di prospettiva. Mutare pelle e diventare quello che si poteva essere. Due anime che arrivano a sfiorarsi l’un l’altra, finché una voce, un suono, basta a farle rifuggire entro gli antichi confini, di nuovo costrette nell’antica e stratificata armatura. Il sommovimento ha però lasciato delle crepe attraverso le quali sembrano germinare i semi di un mutamento forse definitivo».
Annotazioni sugli attori:
Susy De Giudice è un’attrice di grande talento, che riesce ad attivare suggestioni ed echi di grande intensità, con una recitazione tutta corpo e voce. La sua interpretazione è veramente unica, perché aspra, dura, ma anche sinuosa e dotata di grande malìa.
Quella di Susy Del Giudice è una carriera teatrale in ascesa, da quando debutta in teatro sin da bambina per approdare a grandi compagnie come quelle di Mario Scarpetta, Luigi De Filippo, Aldo Giuffrè, Giancarlo Sepe. Così Giulio Cancelli dimostra una grande padronanza della scena, calibrando, con la giusta misura di toni, gli smarrimenti profondi dell’illuminista giacobino. Nonostante la giovane età, Cancelli ha già superato importanti prove attoriali, recitando in vari film e commedie come “SPACCANAPOLI TIMES”, per la regia di Ruggero Cappuccio.
Di: Carmela Lucia