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Quarantene creative. “La solitudine contagiosa”. Di Gianluca Montebuglio

1\ Soldi

Ho pensato ai soldi. Stare fermo significa perderne o comunque qualcosa di simile. La vita finora era una quadratura, adesso è diventata un triangolo. Ha qualcosa in meno ma devo comunque chiuderla tra certe assi, ché l’infinito da queste parti non esiste e non m’importa. È domenica, mi sono alzato presto con Ciro che mi leccava la faccia, che tu pensi Quanto mi vuole bene ‘sto cane!, e invece ha solo fame. Lo lascio fare per un po’, un tizio che addestra cani mi ha detto di fare così, di non accontentarlo subito. Insomma, mi sveglio e mi metto a piegare le volontà di un cucciolo alle mie. Ne viene fuori una sorta di prepotenza addomesticata che non è sua. Lui se ne fotte, vuole solo cibo, acqua, fare branco. Da quando è con noi, mi sono messo un nuovo vocabolario in mano. Un vocabolario non basta per imparare una lingua, però da qualche parte si deve iniziare. Ieri sono andato a letto con notizie in quarantena e l’ennesimo lavaggio di mani. Me le sto consumando. Un po’ è il sapone, un po’ è Ciro che me le mordicchia in cerca di una sfida piena di sensi tutti da decifrare. A ogni modo i dorsi delle mie mani sono diventati rugosi d’un colpo, sono rughe grattugiate che niente hanno a che fare con il tempo. Piuttosto hanno a che fare con i tempi. Ciro dopo aver mangiato, bevuto, cagato e pisciato nel suo spazio bianco e assorbente, torna in camera e si piazza sul letto. È una sostituzione, in pratica. Pulisco, lo lascio fare e mi do una sistemata per scendere al bar da solo, in cerca di un silenzio che avrei comunque anche in casa ma giù è diverso.

Uno scroll, un secondo scroll, una sedia al sole, uno sguardo altrove e un approfondimento. Inizio a sentirmi pressurizzato, qualcuno o qualcosa ha costruito intorno come una camera di metallo trasparente, non ci sono auto ma è mattino presto e il mio quartiere non è un quartiere di passaggio, che ci devi venire qui o ci vivi. Entro dentro e alle due bariste dico buon otto marzo. Lo faccio tenendomi alla distanza segnata a terra, da un nastro nero che mi separa da loro. Accettano, oggi si festeggiano le donne a porte chiuse e dall’altra parte del bancone ce ne sono due che non si mettono a sfilare corone di femminismo o fastidi per una benedizione che suona con la semplice parola Auguri. Chiacchieriamo un po’, ascolto loro e loro mi ascoltano. Chiedo un cornetto salato da portare via; a Michela piace e a me piace portargliene uno per addolcire il ritorno dal letargo che affronta ogni mattina, weekend inclusi. Ciro è come lei.

Dopo il caffè mi sposto di nuovo fuori per una sigaretta. Indeciso tra il conservare un po’ di polmone semmai dovessi beccarmi il virus e una risposta da dare alla mia necessità di nicotina. Penso ai soldi più che altro. C’è del pratico da sbrigare. Ci sono persone in giro che me ne devono. Sono stati mesi di andate, ritorni e rivoluzioni. I viaggi e le rivoluzioni hanno sempre un prezzo e l’odore del contante appiccicato addosso. Dovrei essere arrabbiato, ma lo sono stato già e ora non serve. Certo, penso, se avessi quei soldi che quei figli di puttana mi devono potrei affrontare questa gabbia di metallo trasparente in un altro modo, ma in fondo che ne so? Questa idea mi porta con velocità ai mesi che sono stati. Tengo a bada la cosa e ritorno alla quiete delle otto e mezzo. Mi incammino.

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