A Praga, che ha trovato di “una bellezza sconvolgente”, ospite della 3a edizione del MittelCinemaFest per presentare il suo ultimo lavoro Non essere cattivo per la regia del grande Claudio Caligari, Alessandro Borghi, “romano atipico”, come si definisce, racconta delle difficoltà di seguire i propri sogni in Italia, ma anche dell’importanza della forza di volontà per farcela a cambiare vita. Questo il messaggio della drammatica amicizia tra i sui personaggi: Vittorio e Cesare, vera protagonista del film, nel disperato tentativo di scappare dal mondo della droga e della violenza sullo sfondo di una realtà difficile, disperata ma non senza speranza.
Il film è ambientato nell’Italia degli anni ’90 e racconta, tra le altre cose, il passaggio dall’eroina alla cocaina e le droghe sintetiche. Quanta Italia e, soprattutto, quanta Roma c’è ancora in questo film?
Purtroppo ce n’è tantissima. Ieri durante il Q&A ho risposto ad una persona che mi ha chiesto se non mi sembra di dare dell’Italia un’immagine sbagliata rispetto a quello che invece succede realmente? Dovendo essere politicamente corretto non ho indagato, mi fa piacere che la vita di questa persona sia così bellissima, linda e pinta e senza imprevisti per cui non ha mai avuto a che fare con queste realtà. Io questa realtà l’ho conosciuta, forse non esattamente la stessa del film che è una realtà prettamente degli anni ’90 che, come hai detto, era un periodo di transizione, ma con la droga la nostra società ha ancora tanto a che fare. È cambiato il modo, ma ci sono ancora i poveri che si drogano, ci sono molti più ricchi che si drogano, soprattutto in realtà complicate come erano quelle di Ostia negli anni ’90.
Dopo i film: Roma criminale, Suburra e Non essere cattivo tendiamo un po’ ad associarti a questo sottobosco violento. Si tratta di un tuo impegno sociale ben preciso, quasi neorealista o è stato un susseguirsi degli eventi? Vorresti provare a uscire da questa etichetta?
È stata una casualità artistica, così la chiamo io. I primi giorni quando ho capito di aver fatto due film importanti ho pensato quello che pensa la maggior parte degli attori: “Oddio, ora devo fare subito una commedia altrimenti mi etichettano”. Poi però è successa un’altra cosa ancora più bella secondo me. Ho deciso di non permettere a questo sistema sbagliato che c’è in Italia di schiacciarmi. Continuo a sperare di fare questo mestiere così bene. Se mi daranno la possibilità di fare altri film di genere farò film di genere. Quando impareremo a scrivere le commedie, farò volentieri anche quelle. Per ora non è un problema che mi pongo, ma questo deriva soltanto dalla mia consapevolezza di saper fare anche altro.
Molti produttori hanno rifiutato questo film. Eppure, nonostante anche tra i blockbuster si trovino film difficili e pesanti, contro questo c’era quasi un muro. Perché tutta questa sfiducia? Dà ancora fastidio parlare di droga, o magari è solo la stanchezza di guardare i propri lati oscuri e sopportare la frustrazione di non vedere un cambiamento?
Sì, hai ragione. Che dia fastidio parlare della droga è il paradosso più assurdo: non vogliamo produrre Non essere cattivo e poi siamo tutti davanti a Netfix a guardare Narcos. Forse è colpa della nostra esterofilia per cui se le cose le fanno gli altri sono belle, se le facciamo noi no. In alcuni casi può essere anche un rifiuto di alcune realtà. Una delle cose che mi vengono dette più spesso è “io quando vado al cinema voglio ridere perché la vita è già di per sé complicata”. Io sinceramente quando vado al cinema voglio godere di questo evento e non ho bisogno di ridere per forza, ho la mia vita per farlo, ma mi rendo conto che questa possa essere una posizione personale. In realtà dietro tutto questo c’è anche un discorso molto più ampio e generale. Se un film è bello, è scritto e recitato bene, allora può parlare di qualsiasi cosa. Il nostro problema è che pensiamo ancora di vivere in un’era dove un film per il cinema ci possa influenzare quando ogni settimana vediamo in televisione le decapitazioni dell’ISIS, questo mi lascia sinceramente un po’ perplesso.
Quante storie simili hai vissuto a Roma? Penso anche allo scandalo di Mafia Capitale, è davvero questa l’immagine del cuore del nostro paese?
A Roma ci sono tantissime altre cose meravigliose, ma purtroppo c’è anche questo. Mafia Capitale è stata la presa di coscienza da parte di tutti che esistono delle giostre che sembrano impossibili per quanto assurde, mentre in realtà la loro assurdità deriva spesso proprio dalla loro semplicità. Possibile che un clan possa andare al Vaticano? Sì, ci può andare a quanto pare. Io sono un romano un po’ atipico, non mi dispero per Roma mia, non me ne frega assolutamente niente, preferisco prenderne coscienza. Il problema è che questo meccanismo c’è in tante parti del mondo e c’è anche a Roma.
Quanto sei arrivato vicino a questo mondo?
Io sono nato e cresciuto a Roma Sud. Le dinamiche che abbiamo raccontato in Suburra e in Non essere cattivo, se pur diverse ma simili nella loro stessa estrazione, io le ho viste intorno a me in maniera permanente durante la mia adolescenza e ancora oggi. Suburra è un romanzo di fantasia che parte da fatti reali che io conoscevo tutti perfettamente, e attraverso amicizie indirette conoscevo tutte le persone coinvolte in questa cosa. Quindi, quando mi hanno detto che era scoppiato il caso Mafia Capitale, la mia reazione è stata “meno male, ce l’hanno fatta!”.
Tornando al film puoi dirci che ruolo ha la donna nella storia? Abbiamo donne forti, come Linda, la madre di Cesare e in parte anche Viviana, pronte a portare un po’ di luce in questo tunnel. Gli uomini sono prede più facili di questo degrado?
Guarda, le donne hanno sicuramente un ruolo importante perché raccontano un desiderio di provare a cambiare qualcosa. In realtà se queste donne nel film non sono così presenti è perché secondo me, ma anche secondo Claudio (Claudio Caligari, regista di Non essere cattivo, NdR), la vera storia d’amore è quella tra Cesare e Vittorio. Con Linda Vittorio sceglie di cambiare, però Linda è un espediente, è l’occasione della sua vita per provarci. Ma questo non è un film sulla dipendenza dalla droga ma sulle scelte della vita e sulla dipendenza dall’amicizia. Le scelte fatte durante il film non sono legate alla tossicodipendenza ma alla dipendenza da una persona che non vogliamo abbandonare. Alla fine è Vittorio che sceglie per la sua vita, non Linda. Insieme sono forti e fanno il loro percorso, ma il film racconta soprattutto che siamo noi a scegliere per la nostra vita, se ne abbiamo la forza.
In una battuta che mi ha colpito Cesare dice che “la vita è dura e se non sei duro come la vita non vai avanti”. Eppure, alla fine, Cesare questa battaglia con la vita la perde, mentre Vittorio, che si apre all’amore, la vince. Qual è la strategia?
Io credo che nel film ci sia un messaggio abbastanza chiaro: è meglio morire secondo i propri istinti, magari anche commettendo degli errori, oppure sopravvivere uniformandosi ad una società che non ci piace come cerca di fare Vittorio? Il film finisce con il primo piano del bambino di Cesare dove ognuno di noi vede una cosa diversa: qualcuno ci vede speranza, qualcuno invece che non ce la si può fare. Io ci vedo un messaggio abbastanza chiaro di speranza, forse perché quella scena mi fa sempre piangere, e un po’ perché credo che, se riusciamo a goderci il film, possiamo assaporare veramente il valore che viene dato all’amicizia per poi elaborarlo a livello universale. Alla fine a Cesare succede quello che succede e a Vittorio no, però Vittorio è felice? Non lo so. Forse alla fine questa felicità gli arriva indirettamente quando vede il figlio di Cesare. Questa è la difficoltà principale di provare a cambiare quando si nasce in un contesto come quello di Ostia negli anni ’90. Non basta scegliere, bisogna fare i salti mortali e avere il doppio della forza di chi nasce a Corso Francia.
Sia Non essere cattivo che Amore tossico sono ambientati ad Ostia. C’è una battuta del film dove si dice “Nun lo guarda’ er mare che te vengono li pensieri”. Che ruolo recita il mare nel film? È la ricerca della libertà che i protagonisti non hanno nella loro vita?
Legandomi alla battuta credo che il mare sia fondamentale per tutto l’aspetto malinconico del film. Ricordo sempre la scena quando Cesare si punge con la siringa. Claudio ci aveva detto di prendere un pallone e di giocare, non ci aveva dato battute o scene da fare, voleva solo che stessimo in spiaggia come avremmo fatto naturalmente. Dietro i ragazzi che giocano a pallone c’è il contrasto di questa realtà della tossicodipendenza. Naturalmente la scena è anche un richiamo ad Amore tossico che Claudio ha voluto portare con sé nella sua ultima opera. Io credo che, paradossalmente, il significato del mare sia meno profondo di quello che pensiamo, rappresenta semmai solo quello che ci viene da pensare.
In Noi e la Giulia, il film proiettato prima di Non essere cattivo, un gruppo di outsiders cerca di reinventarsi una nuova vita ma si scontra con la camorra. In qualche modo anche loro, così come i protagonisti di Non essere cattivo, sono intrappolati in questa situazione economica da cui è difficile scappare. Come tanti altri italiani che vivono qui anch’io ho trovato a Praga una nuova chance ma forse questa non è la soluzione per tutti. Come la salviamo questa Italia? Che dovemo fa’?
Questo è un domandone! Si può fare poco. Credo che abbiate fatto bene ad andare fuori perché è giusto provare là dove ti fanno fare le cose. D’altra parte io ho scelto un mestiere abbastanza particolare e complicato, sono nell’unica città d’Italia dove è possibile farlo. Se vuoi fare l’attore devi stare a Roma. Il problema è che a noi, e parlo dell’ambito cinematografico, piace ancora cercare delle giustificazioni se non ce la facciamo, ad esempio che ci sono i raccomandati e così via. Ma questa cosa è un po’ cambiata. Io non ho un nome d’arte, mio padre non faceva l’attore, i miei genitori sono persone umili e meravigliose. Se faccio questo mestiere e se tu mi stai intervistando è perché mi sono fatto una capoccia enorme per cercare di raggiungere quello che volevo, e se non ci fossi riuscito probabilmente lo sarei andato a cercare fuori. Quello che posso dire, e lo dico anche a me stesso, è di non cercare sempre degli espedienti per giustificare il fatto che non ce l’abbiamo fatta, piuttosto cerchiamo delle giustificazioni per farcela. Questo lo dico perché, parlando con i ragazzi giovani che vogliono fare questo mestiere, ancora prima di fare il primo provino, vedo che sanno già che ci sono i raccomandati, ma chi l’ha detto? Semplicemente qualcuno che prima di loro non ce l’ha fatta. Questo mi mette tristezza perché credo che il successo nella vita dipenda per il 50-60% dalla nostra volontà e per il restante 40% da fattori che, nonostante la capacità e la volontà, non si incastrano costringendoci alla fine ad andare fuori. All’estero ho avuto la percezione che l’Italia sia un paese piccolo e noi italiani ci portiamo dietro questa piccolezza nella nostra mentalità. D’altra parte quando vai in America ti rendi conto che la parola d’ordine è superficialità, ma intanto loro vanno avanti perché hanno questa capacità enorme di fare un’industria di qualsiasi cosa. Noi invece abbiamo un patrimonio come Cinecittà che è diventata la discarica della Tuscolana mentre agli Universal Studios si pagano 100 dollari a persona per entrare. Non siamo capaci di valorizzare il nostro patrimonio, soprattutto quello intellettuale. A Los Angeles ho trovato molti italiani che hanno potuto lavorare. Io mi auguro che un giorno riescano a tornare ma non solo per loro, me lo auguro soprattutto per il nostro paese.
Che atmosfera hai respirato a Praga? In Repubblica ceca c’è molto interesse per l’Italia, purtroppo però a volte non siamo abbastanza visibili. Ci sottovalutiamo troppo?
Innanzitutto non ero mai stato a Praga, l’ho trovata uno dei posti più incredibili che io abbia mai visto. È una città di una bellezza sconvolgente. Purtroppo sono rimasto poco tempo ma ci tornerò anche per capire meglio qual è il rapporto con il nostro cinema. Comunque ieri ho avuto un’ottima sensazione. Riguardo l’estero posso parlare ad esempio degli Stati Uniti dove ho trascorso 10 giorni a Seattle per promuovere il film. Sono d’accordo con te, noi ci sottovalutiamo perché siamo abituati all’idea che gli altri facciano le cose meglio di noi, e questo in particolare rispetto agli americani. D’altra parte, però, penso che gli americani un film come Non essere cattivo non lo potrebbero mai fare se non cadendo nei luoghi comuni che hanno raccontato negli ultimi vent’anni. Arrivando a Los Angeles la prima impressione che ho avuto respirando quell’aria è che, al contrario di quello che dicono, noi questo mestiere lo possiamo fare. In realtà oggi c’è soltanto un problema: la lingua. Se tu sai fare un mestiere e parli una lingua universale, quale oggi l’inglese è, hai tutte le porte aperte. In cinque giorni ho trovato cinque agenti tutti interessati a rappresentarmi e a promuovere il cinema italiano, offrendomi anche aiuto per prendere la carta verde. Tutto questo esiste, bisogna semplicemente avere il potere di lasciare le persone a bocca aperta. Io ho avuto la fortuna di poterlo fare con un film che resterà il più importante della mia vita. Alla fine è tutto legato alla voglia di fare le cose. Fortunatamente grazie alla qualità del cinema che abbiamo e allo sdoganamento della serialità di servizi come Netfix, HBO, Sky questi problemi non ci sono più. Oggi gli americani vengono qua da noi e noi andiamo a lavorare fuori. Tutti i più grandi registi che abbiamo, come Tornatore, Sorrentino o Sollima, girano e gireranno in inglese, abituiamoci allora a fare questo mestiere in una dimensione universale come lo fa tutto il resto del mondo. Nei film americani ci sono attori di tutti i paesi tranne che dell’Italia e non è colpa loro, è colpa nostra che pensiamo di non poterlo fare.
Andreas Pieralli