Site icon Café Boheme

“Opporsi alle innovazioni vuol dire combattere una guerra già persa”. Intervista al guru ceco dell’economia Tomáš Sedláček

CB: Quando ti abbiamo intervistato 4 anni fa ci hai detto che “i mercati non sono divini”, oggi acquistano consenso le forze politiche che proclamano emozioni e valori immateriali essere di maggior peso rispetto al discorso economico. In che modo questo cambiamento si riflette nell’economia?

 

TS: Da tempo si parla del fatto che la classica suddivisione destra-sinistra non ha più senso. Oggi lo vediamo bene dal fatto che le elezioni non riguardano più le imposte, la riforma pensionistica oppure la sanità, quanto piuttosto l’apertura e la chiusura. Viviamo in un mondo dove un businessman di destra come Donald Trump è più contrario alla globalizzazione di Bernie Sanders, e dove la Cina sta diventando il maggiore sostenitore del libero scambio.

 

CB: Ci puoi parlare della tua attività di insegnamento del “pensiero creativo”? È davvero possibile insegnare la creatività?

 

TS: Piuttosto che della creatività, si tratta del pensiero. Cerco di mostrare alle persone come guardare alle cose in modo originale perché chi è sveglio, intelligente e ricettivo guardando una pellicola vede in realtà venti film, mentre una persona, diciamo più semplice, in quella pellicola vede solo un film e magari neanche lo capisce. La funzione del pensiero creativo non è primariamente quella di aumentare gli utili, ma di rendere la nostra vita più piena e profonda. Non necessariamente più felice, ma più profonda.

 

CB: In questi corsi incontri persone interessanti, manager e leader di vari settori. Qual è il loro modo di pensare? Sono pronti ai grandi cambiamenti e in che direzione stanno guidando l’economia ceca?

 

TS: In generale possiamo affermare che l’economia ceca è assolutamente priva di coraggio politico. A dire il vero non abbiamo introdotto nessuna novità qui; a volte si riesce a riprodurre qualcosa che è stato già realizzato in altri paesi. Penso che in questo Paese abbiamo una sfera imprenditoriale di gran lunga migliore rispetto a quella politica e questo è un paradosso perché all’inizio degli anni Novanta chi era in politica era rispettato mentre agli imprenditori o alle imprenditrici si guardava con sospetto. Oggi è il contrario: la classe imprenditoriale è riuscita a migliorare la propria reputazione al punto che, ad esempio, uno dei suoi membri, Andrej Babiš, è entrato in politica. Viceversa i politici hanno danneggiato il loro nome e, almeno finora, non sono riusciti a recuperare il prestigio.

 

CB: Però una sfera non può funzionare senza l’altra.

 

TS: Certo, però le cose potrebbero essere anche tali per cui la politica abbia il primato  sull’economia, come accade in alcuni paesi, ma penso che la nostra sia la variante migliore. Naturalmente la situazione ideale in assoluto è quando la politica riesce a intavolare un dialogo ragionevole con il business e le due sfere si vengono incontro, quando possibile, senza gettarsi a vicenda i bastoni tra le ruote. Purtroppo temo che questo sia ciò che da noi non funziona. Ancora adesso la politica non viene considerata come un servizio, ma come una posizione onoraria.

 

CB: I prezzi stanno crescendo rapidamente. Pensi che questo sia il sintomo dell’approssimarsi dello scoppio di una bolla speculativa nel mercato immobiliare oppure dobbiamo semplicemente abituarci all’allineamento ai prezzi più alti tipici per le grandi città europee? Insomma, dobbiamo preoccuparci?

 

TS: Dobbiamo sempre essere prudenti perché, in generale, quando i prezzi continuano a salire da troppo tempo è più probabile che poi crollino. Ma questi cicli sono molto difficili da prevedere. Paradossalmente il mercato immobiliare dovrebbe essere invece assai prevedibile dato che sappiamo quante sono le persone che arrivano, sappiamo più o meno quando muoiono, sappiamo quanti edifici già ci sono, ma nonostante questo il mercato dei mutui ipotecari è un settore altamente volatile da cui può partire una crisi economica.

 

CB: Tempo fa è stato scritto che i cechi, pur avendo una produttività di 2/3 rispetto ai tedeschi, guadagnano soltanto 1/3 dei loro vicini, dove si perde quel terzo mancante? Siamo condannati a rimanere fermi a un livello inferiore rispetto ai nostri vicini?

 

TS: Siamo a un livello inferiore perché tutto il livello dei prezzi è più basso. Il fatto che non siamo così produttivi come i tedeschi non dipende tanto dal capitale ma, nel nostro caso, soprattutto dal management: con la stessa dotazione di capitale, le stesse persone capaci e le stesse regole, un’azienda gestita male registrerà risultati peggiori. Qui da noi è prassi comune mettere anche nelle posizioni artistiche persone legate alla politica, quando un teatro ha come direttore un politicante, gli attori possono lavorare sodo da mane a sera e il 90% delle loro energie andrà nei litigi con il proprio direttore. Quindi è sicuramente questa l’origine di questa inefficienza; il fatto che abbiamo un livello di prezzi più basso rispetto ai tedeschi è vero, ma questa differenza non è così rilevante.

 

CB: Pensi quindi che il livello dei salari in Repubblica Ceca corrisponda alla produttività del lavoro? Da quanto pubblicato emerge, al contrario, che i cechi guadagnano meno di quanto dovrebbero vista la loro produttività.

 

TS: Può darsi, ma adesso che la corona si rafforzerà questa differenza verrà colmata rapidamente. Gli interventi della Banca nazionale Ceca hanno tenuto artificialmente basso il potere d’acquisto dei cechi; il potere d’acquisto in Repubblica Ceca è paragonabile al potere d’acquisto in Germania.

 

CB: Da tempo l’industria ceca lamenta la carenza di forza lavoro e preme sul governo affinché sostenga le scuole professionali e la formazione tecnica argomentando che di umanisti ce ne sono pure troppi e che abbiamo bisogno di più fachidioti (fachidiot è una parola tedesca che indica un lavoratore talmente specializzato da non saper fare nient’altro che il suo lavoro, Tomáš Sedláček usò questo termine nell’intervista passata, NdR). D’altra parte ci viene detto che non possiamo attirare i massimi esperti esteri nelle città regionali perché la vita lì non è così variegata e interessante, che fare allora?

 

TS: E allora che aumentino gli stipendi! Attualmente gli utili delle aziende sono più che dignitosi e questo è un bene, ma che non piagnucolino che manca il personale. Evidentemente lo devono pagare meglio se la concorrenza è capace di pagarli di più. Vedi, qui o ci si lamenta che ci sono troppi disoccupati, oppure, al contrario, che mancano le persone. Non è mai successo che tutti fossero soddisfatti. Tra l’altro, mi è piaciuto quello che ha detto il governatore della Banca Nazionale Ceca che ha sostenuto, in merito, che dovremmo accogliere i profughi perché mancano le persone. E ancora: hai visto una fabbrica di automobili negli ultimi 5 anni? Quante persone ci sono? Non ci vedi più gli operai che avvitano, ma operatori che gestiscono le macchine; oggi non si scavano più le strade a mano, ma lo si fa con la scavatrice. Dunque vale che più una persona è istruita e più facile sarà per lui entrare in un qualche processo lavorativo concreto. All’università, nell’Istituto di studi economici dell’Università Carolina, il professore Mejstřík ci diceva sempre: “Qui vi insegneremo l’astrazione e la teoria, perché sono sicuro che se capirete l’astrazione e la teoria, capirete anche come funziona il sistema e, successivamente, un qualunque sistema contabile lo capirete nel giro di qualche giorno. Il processo inverso, invece, non è possibile! E che senso ha oggi insegnare a guidare un taxi quando sappiamo tutti che tra più o meno 10 anni gli autisti saranno sostituiti dalle automobili autonome? Piuttosto penso che ci dovremmo specializzare nel design, ovvero in quei settori con produttività maggiore. Sta finendo l’epoca in cui la Repubblica Ceca era una fabbrica dove si assemblavano solo i pezzi prodotti da altri, e questo è un bene. In Danimarca hanno salari elevati perché c’è interesse per la loro forza lavoro, e questo perché è qualificata.

 

CB: Allora gli studi umanistici non sono il vero problema visto che insegnano agli studenti a pensare in modo flessibile. A volte ho l’impressione che i giovani tendano verso le materie umanistiche perché hanno la sensazione che, dopo, saranno più flessibili per affrontare un futuro instabile.

 

TS: Proprio così. Oggi può succedere che una persona laureata si apra una caffetteria oppure un negozio di design. Un mio amico che ha lavorato a lungo nell’agenzia Czechinvest, da cinque anni gestisce una galleria vicino al Ponte Carlo e ha successo, anche se ha studiato legge. Quindi oggi l’epoca degli hipster consente o, addirittura, impone alle persone di avere uno spettro molto più ampio di quello limitato del fachiodiot. Anche il falegname che produce un tavolo ha bisogno di essere creativo e bravo. Abbiamo bisogno di un falegname con istruzione umanistica, ovvero quasi un architetto, e certamente questa è la tendenza per il futuro. Il lavoro sarà sempre più astratto e più saremo preparati e meglio sarà.

 

CB: Quello che dici introduce la prossima domanda. Secondo la PricewaterhouseCoopers in Gran Bretagna, entro 15 anni, il 30% dei lavoratori saranno sostituiti dall’intelligenza artificiale, in alcuni comparti addirittura il 50%. Molti temono una crescita senza precedenti della disoccupazione e della disuguaglianza tra quelli che beneficeranno dell’AI e quelli che, invece, ne saranno danneggiati. I sostenitori dicono però che nasceranno nuovi posti di lavoro che oggi neanche riusciamo a immaginare quale futuro vedi tu? Non siamo prigionieri di una vecchia idea di lavoro? Qualosa del genere in fondo è già accaduto con la rivoluzione industriale e in qualche modo siamo sopravvissuti, anche se oggi le persone sono molte di più.

 

TS: Sì, questo è un problema serio che ci ritroviamo. Ho l’impressione che l’attuale classe politica stia lottando contro le innovazioni usando il nazionalismo, questo è l’approccio tipico di Trump. Nelle relazioni internazionali spesso si dice che si combatte sempre una guerra già passata, e questo è il caso. Dobbiamo affrontare il problema della robotizzazione che potrebbe essere la più grande benedizione mai vista per l’umanità, forse ciò significherà la fine del lavoro, che è da tempo immemore il sogno economico delle persone, e l’inizio di un’era di prosperità per tutti, ma può voler anche dire la sottomissione definitiva dell’uomo e la sua distruzione. Su queste cose riflettono i vari Elon Musk, Brian Green, Sam Harris, ma anche autorità quali Stephen Hawking o, parzialmente, Ray Kurzweil, ma nessuno sa cosa fare. Neanche i filosofi, i futurologhi, i tecnologi o gli etici sanno davvero che cosa dobbiamo fare affinché tutto vada bene. Il tassista intelligente di New York non teme la forza lavoro low cost tipo Uber, che fa paura al tassista stupido. Semmai quello intelligente teme le automobili autonome perché per lui ciò significherà davvero la fine, game over! Quindi dobbiamo inventare le regole su come fare e abbiamo circa 10 anni per farlo. Perché se qualcuno prende il lavoro a centinaia di milioni di autisti in tutto il mondo, allora poi c’è il rischio di una monopolizzazione automatica del settore in pochi mesi, forse un anno. Il modello classico prevede che sia lo Stato a prendersi cura dei disoccupati. Quindi, un imprenditore prosciuga un comparto economico, ovvero quello dei servizi di trasporto con conducente, ma degli autisti che rimangono come “scarto” di questa industria se ne deve occupare lo Stato. Ma perché in futuro non se ne potrebbe prendere cura invece proprio quella azienda che ha preso loro il lavoro? Ovvero, perché la politica fiscale non potrebbe essere a carico del comparto in questione piuttosto che dello Stato che, tanto, ormai non svolge più il proprio ruolo?

 

CB: Stai parlando di un’enorme rivoluzione del modo di pensare.

 

TS: Esattamente. Renditi conto che la maggior parte delle istituzioni, se non tutte, sono collegate allo Stato: i referendum, l’allargamento dell’Europa, le pensioni, la previdenza sociale, tutto è a carico dello Stato. Ma lo Stato sta evaporando e le sue funzioni o passano alle regioni oppure al livello globale, ad esempio la regolazione di Internet, il settore bancario, la risposta all’aggressione russa contro l’Ucraina, la crisi migratoria. Queste sono le problematiche tipiche che non trovano una risposta a livello dello Stato. Un altro esempio è l’ecologia che può essere affrontata solo globalmente. E noi viviamo in un’epoca in cui le istituzioni statali locali si trasformano in istituzioni globali. Un passaggio intermedio, per esempio, è l’Unione Europea. Il nemico globale va affrontato nell’arena globale perché se ci scontriamo con lui, ad esempio con le macchine col pilota automatico, a livello nazionale, allora la sconfitta è assicurata.

 

CB: Quindi è ravvisabile una nuova tendenza verso il protezionismo? Ad esempio recentemente a Brno hanno vietato Uber.

 

TS: E allora perché i venditori dei negozi fisici non dovrebbero scioperare contro i negozi online che sono più economici? Qualsiasi divieto è una stupidaggine da lobotomizzati, alla fine lo capiranno sia a Brno sia in tutte le altre città perché le cose non vanno vietate, bensì regolate. Ogni tassista può essere anche un autista di Uber e quelli più ragionevoli possono fare entrambe le cose. Se i tassisti cechi fossero stati onesti sin dall’inizio, non derubassero i clienti, non facessero stupidi discorsi razzisti, non avessero macchine puzzolenti e non fossero arroganti, allora sarei disposto ad ascoltare le loro rimostranze. Con Uber non mi è mai capitato di dovermi vergognare della guida dell’autista, e già solo per questo motivo penso che sia arrivato per loro il momento di appendere la loro licenza al chiodo.

 

CB: Recentemente ho tradotto per lavoro un emendamento dell’eurodeputata del partito KDU-ČSL Michaela Šojdrová dove, ad ogni menzione del reddito incondizionato, ovvero reddito di cittadinanza, sottolineava che ciò è possibile solo qualora si dimostri che la persona in questione non è responsabile della propria disoccupazione e che si è sforzata a sufficienza (evidentemente pensa di essere in grado di sapere meglio di tutti chi si è sforzato e chi no). Qua l’idea che qualcuno possa ricevere anche solo una corona senza lavorare è in grado di scatenare reazioni anche emotivamente forti, ma nel frattempo la tecnologia ruba il lavoro alle persone ed esistono paesi, che di certo di sinistra non sono, come la Finlandia e la Svizzera, dove hanno iniziato a sperimentare il reddito di cittadinanza. Qual è la tua opinione? A mio avviso questo tipo di reddito potrebbe diventare una specie di motore sempre acceso per l’economia, mi spiego: se ho la certezza di entrate stabili sarò anche molto più incline alla spesa.  

 

TS: Conosco personalmente quei ragazzi che stanno lavorando sul reddito globale. Anzitutto è necessario dire che, a mio avviso, è un pensiero che non è attuale e che avrà senso soltanto con una maggiore digitalizzazione e robotizzazione, ovvero quando i robot davvero sostituiranno le persone in massa. Per me è ragionevole dato che oggi non siamo più razzisti, ma siamo nazionalisti. Quando un bambino nasce in Repubblica Ceca non importa quale sia il colore della sua pelle, deve avere gli stessi diritti alla sanità e all’istruzione, ma se questo bambino nasce in India questi diritti non li ha. Quindi sì, in futuro prendiamoci cura di tutti gli esseri umani su questo pianeta e non solo di quelli che nascono in Repubblica Ceca o in Italia. In questo senso il reddito globale mi sembra sensato, ma cominciamo anche a pensare alla sostituzione del lavoro umano con il lavoro dei robot. Penso che adesso sia il momento giusto per provare, lo stanno facendo in Svezia, Finlandia, ma credo sia davvero ancora in fase di prova. Potrebbe diventare una cosa realistica tra 50 anni, ma magari anche già tra 10 o 15 anni.

 

CB: Tu stesso hai detto che forse, un giorno, grazie alla tecnologia realizzeremo il sogno di non dover più lavorare e di poterci dedicare così a quello che ci piace. Di tutto il resto si occuperanno le macchine, ma non potremo fare a meno di una qualche forma di redistribuzione della ricchezza?

 

TS: Sì, ma d’altra parte non esiste nessun altro modo per realizzare il reddito di cittadinanza, quindi non dovremmo sottovalutare la cosa, anzi, dovremmo prenderla in considerazione e ragionare seriamente su come distribuire la ricchezza. Per la maggior parte delle persone il reddito deriva dal lavoro e questo nesso, ad un certo punto, dovrà essere tagliato in qualche modo. Già oggi lo vediamo con i “like” sui social: abbiamo i youtuber che sono pagati in base alla quantità di “like” che ricevono, questa sarà la direzione in futuro, non sarà più così importante il tipo di lavoro che faremo. Chi avrebbe detto, anche solo 5 anni fa, che sarebbe esistita la professione di foodblogger o travelblogger? Rendiamoci conto che esistono persone che campano girando video in cui distruggono i cellulari col trapano. Questo sarà il futuro del lavoro, ovvero un lavoro molto astratto, ma anche molto umano. Sarà sempre un lavoro per l’essere umano, ma sparirà quello disumano. D’altra parte, in tutta la storia, l’uomo ha definito la propria identità dal suo lavoro. Se provi a chiedere a una persona per strada chi è, di solito ti risponderà dicendoti che lavoro fa. E nel momento in cui il lavoro non sarà più necessario rimarrà soltanto la missione. Ad esempio la mia missione sarà quella di dipingere, raccontare o filosofeggiare, allora sarà molto più importante seguire la missione piuttosto che avere una professione. Detto in modo un po’ brutale, un’altra funzione del lavoro è quella di tenere la gente lontana dai guai, come ci racconta la favola di Cenerentola. In una versione moderna potremmo dire che Cenerentola voleva andare a una festa, ma la matrigna glielo ha vietato ordinandole di fare un lavoro inutile piuttosto che bere, e magari drogarsi chissà dove, e così è rimasta a casa a separare i fagioli dalle lenticchie. Esiste il timore su cosa faranno le persone nel momento in cui non dovranno più lavorare. Ma questo problema è connesso semmai con le persone che non hanno soldi piuttosto che con quelli che non hanno lavoro, e questo esperimento potrebbe dare una risposta in tal senso.

 

CB: Gli interventi di politica monetaria della Banca Nazionale Ceca sono terminati da poco. Molti ritengono che la svalutazione della corona abbia aiutato l’economia ceca, è davvero andata così? Non è un po’ in contraddizione con quanto ripetutamente dichiarato dai partiti tradizionalmente inclini al business che invocano il laissez-faire ma, d’altra parte, accolgono gli interventi quando sono a loro favore?

 

TS: Io dico sempre una cosa semplice: se avessimo l’euro non avremmo speso gli ultimi 15 anni a discutere se la corona salirà o scenderà, se la Banca nazionale interverrà o non interverrà. Quindi, la prima risposta è adottare l’euro per non dover perdere tempo con queste sciocchezze che l’Europa da tempo ha risolto. In secondo luogo: in realtà si può dire che in qualche modo abbiamo avuto l’euro per 4 anni visto che il tasso di cambio con la corona era fisso, sembrava avessimo la corona ma in realtà avevamo l’euro, un po’ come in Danimarca. E vedi come ne ha beneficiato l’economia ceca?

 

CB: Non si può negare che la buona situazione economica della Repubblica Ceca dipenda molto dalla Germania dove è diretta buona parte dell’export ceco. La Germania, però, viene criticata perché crea riserve enormi nella sua bilancia dei pagamenti, cosa che si traduce in una mancanza di denaro circolante, non è che la Germania predichi bene e razzoli male?

 

TS: I tedeschi hanno fatto le grandi riforme. Sono solito dire che in Europa si starà molto meglio con un’economia tedesca ben funzionante piuttosto che senza, quindi dovremmo essere felici. È vero che noi esportiamo in Germania, ma poi la Germania esporta anche noi in tutto il mondo. Quindi siamo grati che l’economia dei nostri vicini funzioni così bene. D’altra parte oggi non si può neanche più parlare di economia ceca o tedesca: tutto è così collegato che dovremmo piuttosto parlare di zone. E prima inizieremo a gestire queste cose a livello europeo meglio sarà. Negli Stati Uniti mica si preoccupano della differenza tra il PIL di Denver rispetto a quello del Colorado?

 

Di: Andreas Pieralli e Mauro Ruggiero

Editing: Maria Martinelli

Exit mobile version