E ci lascia le stringhe liberate, le note in sequenza elettrica.
E c’è una geometria, un moto fantastico, in ognuna delle sue parole. E i suoni non sprecano nessuna possibilità di dare forma e tono al suo sentimento.
Max Gazzè è un folletto che salta tra i banchi della scena musicale: con la sua alta fanfara ci sveglia; e sembra abiti in lui la fonte eterna dell’allegrezza, il suo desiderio matto di avere tante e tante stanze di sorpresa.
E governa con i fulmini la nostra inquietudine. Con un innaffiatoio, sotto braccio, rianima le mille rose che abbiamo nel cuore.
Sembra voglia dirci che la felicità non vive nell’attesa, ma nel sogno soffiante.
E allora sceglie vetri colorati come un vero veterano dell’invenzione. E allora è fonte di scampo quando mordiamo la polpa della tristezza. E allora diventa il nostro furioso presente, quello che ci fa saltare sulla sedia e fuori dall’ombra.
E ci fa sorridere, quando labbra e mente si affrontano su quanto il nostro petto tiene in culla.
Con ogni sua canzone accende i neon della nostra esistenza a disegno di raggiera, con più proiezioni in una volta, con ogni ritratto pensabile: con la migliore innocenza possibile.
E si abbatte sulle nostre vigilanze alla memoria, sull’acqua scura del tempo che tiene il filo della malinconia.
Max Gazzè è un inviato chiaro e continuo della vitalità, e appare puntuale quando sotto ai nostri cieli non accade nulla. Quando di notte non esce nessuno, e spesso neanche le stelle. Quando la distanza dall’amore è un diaframma doloroso. Quando un pur minimo argine sa resistere alla grandezza del mare, e un appello d’aiuto non sa salvare. Quando i ginocchi hanno lo stampo delle pietre: mentre per la gioia degli occhi servono manciate di coriandoli.
È allora che i ricci di Gazzè si alzano nel cilindro della meraviglia e mettono le sferze ai piedi. E in un attimo il peso è leggero, e la trasformazione diviene vera e diventiamo tutti insieme buffi ballerini, luce di noi stessi.
Michele Caccamo