Come noto l’impareggiabile Daniel Day-Lewis è un attore molto cauto e ponderato nello scegliere i ruoli ai quali, poi, si dedica anima e corpo conseguendo risultati di altissimo livello. Così è anche per la sua ultima ottima interpretazione, valsagli quest’anno l’Oscar e il Golden Globe come miglior attore protagonista, nell’ultima fatica di Steven Spielberg. La pellicola Lincoln, basata sul libro Team of Rivals: The Political Genius of Abraham Lincoln di Doris Kearns Goodwin, ripercorre i drammatici momenti della Guerra di secessione americana sullo sfondo del problema dell’abolizione della schiavitù in tutti gli Stati Uniti d’America. Abramo Lincoln, più che dall’ottica degli eventi di storica importanza che questo strano, alto e introverso presidente americano dovette affrontare, viene presentato sotto il prisma della sua personalità, invididualità a tutto tondo. Non mancano quindi scene molto familiari con il figlio oppure i momenti di informalità con le persone che lo amavano. L’uomo concreto, con la sua forza e le sue debolezze, il suo coraggio e le sue paure, viene così calato all’interno di un contesto storico difficile e importante. Lincoln affronta in modo coraggioso questa sfida essendo pronto ad assumersi pienamente le responsabilità di un eventuale insuccesso. Questo coraggio, alla fine, è ciò che distingue davvero il grande personaggio politico, il grande statista dal mero politicante del potere. Lincoln era sicuramente un grande statista.
Il messaggio di fondo, dunque, del film così come presentato è un messaggio di ottimismo e di speranza nella capacità dell’uomo, tramite il proprio coraggio e la propria intelligenza, di decidere correttamente e affrontare a testa alta il futuro, qualque esso sia. D’altro canto questa idealizzazione, che probabilmente vuole essere il cuore del contenuto di questo bel film storico dai costumi e dalle scenagrofie impeccabili, degne di un classicone sulla fine del XIX secolo, rischia di mettere in ombra la mancanza di un altro aspetto a mio avviso altrettanto importante per fornire allo spettatore una visione davvero completa e non solo parziale degli eventi storici. Se la figura di Lincoln, per ovvi motivi, è già stata ampiamente osannata e celebrata, a maggior ragione oggi forse sarebbe anche il caso di cominciare ad analizzare più profondamente l’intero contesto in cui questi eventi storici ebbero luogo, anche per l’importanza che ancora oggi rivestono.
L’abolizione della schiavitù nel film viene presentata essenzialmente come una lotta titanica tra la parte dei buoni che la considerano un’ingiusta barbaria, e quelli, i sudisti, che invece la difendono strenuamente. Su questo XIII emendamento alla Costituzione del 1787, l’abolizione della schivaitù, poi approvato nel 1865, 4 anni dopo la Russia per la cronaca, e comunque 50 anni più tardi rispetto all’Europa, e questo spiega ancora oggi molte cose, sullo sfondo della guerra civile, si gioca l’azione e la trama del film fino alla conclusione sfociante nell’omicidio del 15 aprile 1865. Ma ammessa l’importanza della dimensione drammatica del singolo e delle scelte che deve affrontare, è sbagliato a mio avviso tralasciare di spiegare anche brevemente che per gli stati del nord abolire la schiavitù era anche e soprattutto un modo per sbarazzarsi della concorrenza sleale, oggi diremmo dumping, degli stati del Sud che sfrutavano per le loro industrie manodopera gratuita.
Se è affascinante calarsi dentro la psiche di un uomo come Lincoln che si è trovato faccia a faccia con la Storia, è anche importante rendersi conto che ogni guerra costa molti soldi, e non è uso comune per chi paga e finanzia una guerra farlo per motivi ideologici ed etici. Come ci insegna il buon vecchio Marx esiste la struttura e la sovrastruttura. La seconda è solo un velo che serve a coprire la prima. Così in questo caso un recensore marxista potrebbe dire che questa dimensione psicologica così ampiamente analizzata nel film è un velo con il quale coprire gli aspetti più materiali ed economici di quella guerra. Vi si potrebbe addirittura ravvisare un riflesso della decennale propaganda ideologica americana realizzata ad opera dei grandi film di Hollywood e dintorni che poi tutto il mondo vede, compra e assorbe. Una grandissima geniale operazione di manipolazione di massa dell’opinione pubblica senza, questa volta, l’uso della violenza. Un marketing culturale di proporzioni immense che mira a foraggiare un’immagine dell’America come faro della difesa della libertà umana, come ci chiedono di credere ancora oggi per giustificare le proprie operazioni militari in Afghanistan, Irak e quant’altro. Pretendere di farci credere che l’America spenda cifre pazzesche in armi e soldati soltanto per rispondere ad un’esigenza etica non è certo un atteggiamento troppo lusinghiero nei confronti dell’intelligenza di noi non americani.
E allora anche in questo caso l’aver omesso di ricordare che per gli stati del Nord l’esigenza di abolire la schiavitù e di finanziare per questo anche una guerra arrivava soprattutto da un’aspettativa di ritorno economico ben precisa. Che poi a questo comunque si accompagnasse anche uno spirito idealistico non sarebbe certo giusto negare, ma neanche pretendere che questo aspetto materiale e, se vogliamo, egoistico, non occupi un ruolo significativo nelle motivazioni dell’agire umano e, dunque, degli stati che degli esseri umani sono l’emanazione.
In conclusione mi sento di raccomandare questo film perché l’interpretazione di Day-Lewis è davvero di massimo livello, così come la regia e la scenografia premiata con l’Oscar, ma consiglio di vederlo tenendo presente di questa mancanza e, quindi, oltre che dalla bellezza di un film comunque fatto bene e con cura, tornare arricchiti anche da un ragionamento sulla motivazione della mancanza dell’aspetto economico di cui sopra. In questo modo il film diventa uno strumento utile anche per capire gli eventi attuali, ma è necessario prendere coscienza del contesto più ampio, altrimenti si rimane sempre vittime passive di questa operazione che oso descrivere come propagantistica.