Le informazioni c.d. ‘riservate’ o ‘confidenziali’ sono spesso al centro di dispute giudiziarie fra dipendenti e aziende.
Il più delle volte, si tratta di casi che riguardano ex-dipendenti o collaboratori che fanno uso di informazioni tutelate per arrecare un vantaggio concorrenziale. Per esempio, il frequente caso del dipendente che si licenzia, portando via con sé la lista dei clienti e il listino prezzi praticati dall’azienda in cui lavorava; dopo un po’, mette su un’azienda sua e offre a quei clienti prezzi migliori, sbaragliando il suo ex-datore di lavoro. Il giudice inglese Roxburgh sintetizzò così il principio giuridico: “ad una persona che riceve informazioni in confidenza non è consentito di usarle come ‘trampolino’ a detrimento” di chi le ha date.
Informazione ‘confidenziale’ non vuol dire necessariamente un segreto basato su dati inaccessibili ai più. Anni prima di Roxburgh, un altro giudice inglese aveva detto che “è perfettamente possibile che il documento confidenziale sia una formula, un progetto, uno schizzo o qualcosa del genere, frutto di lavoro basato su materiale che è disponibile a tutti; ma ciò che lo rende confidenziale è il fatto che il creatore del documento ha usato il suo cervello e prodotto così un risultato a cui può arrivare solo chi abbia svolto lo stesso procedimento”.
In questi casi, la legge qui si attiva tutelare la fiducia riposta e poi tradita dal collaboratore che sfrutta l’informazione a mo’ di ‘trampolino’ per lanciarsi più in alto del suo concorrente.
A volte i casi sono più complessi.
Nel 2001, alcuni dipendenti di un impianto di depurazione – sito in Europa – scrissero una lettera alle autorità pubbliche, denunciando lo ‘stato catastrofico’ della realtà in cui lavoravano. Lo fecero senza dirlo ai dirigenti. In sostanza, dissero alle autorità che il depuratore era gestito in aperta violazione delle leggi che tutelano l’ambiente. Indicarono anche i nomi dei soggetti da cui provenivano le acque reflue, i costi sostenuti, e altri dati economici relativi all’impianto – in particolare, il lucro che ne veniva al soggetto gestore, a scapito del proprietario che gliel’aveva concesso in affitto. Gettarono una pessima luce sul loro datore di lavoro – non si sa se corrotto, o corruttore. Oltre alle autorità, la lettera fu trasmessa ad una serie di indirizzi, fra cui anche quello del proprietario.
La lettera sortì due effetti – il primo, sperato dagli autori del documento: le autorità controllarono e multarono l’impianto. Il secondo, no: i dirigenti licenziarono gli autori della lettera. Questi si rivolsero al giudice, chiedendo di annullare il licenziamento ed essere reintegrati sul posto di lavoro.
Il caso era difficile da decidere. Da un lato, i dipendenti avevano giustamente denunciato le irregolarità, evitando così un danno all’ambiente. (Anni dopo, persone del genere sarebbero detti ‘whistleblowers’.) Però, nel farlo, avevano rivelato informazioni riservate che la legge impone di non divulgare – i c.d. ‘segreti aziendali’.
Nella legge del Paese in questione, i dipendenti del settore privato hanno il dovere di comportarsi lealmente verso il proprio datore di lavoro; tuttavia, non esiste un vero e proprio dovere di riservatezza – come, invece, esiste per i dipendenti del settore pubblico. Possono perciò divulgare informazioni, a meno che la divulgazione danneggi il datore di lavoro. (Oppure a meno che, nel contratto di assunzione, non sia previsto l’obbligo di riservatezza.)
Inoltre, la legge di quel Paese non dice precisamente in che situazioni il licenziamento è legittimo e in quali no. La regola è che se un dipendente compie una violazione ‘particolarmente grave’ dei propri doveri, il datore di lavoro ha diritto di licenziarlo. Se il datore di lavoro – di solito, dopo aver chiesto parere ai suoi avvocati – ritiene di avere ragione, procede al licenziamento. A quel punto, la scelta tocca al dipendente: se ritiene di aver subito un torto, può rivolgersi al giudice e domandare l’annullamento del licenziamento. Volendo semplificare, si può dire che i giudici hanno il delicato compito di accertare se, nelle circostanze del caso in questione, il comportamento del dipendente fu ‘particolarmente grave’, o non lo fu. Se lo fu, devono dar ragione al datore di lavoro. Sennò, vince il dipendente e il datore di lavoro deve continuare ad impiegarlo. Se, invece, vince il datore di lavoro, il dipendente rimane a casa e di regola deve anche pagare i costi del processo.
Secondo le statistiche del Paese in questione, quasi due terzi delle volte a vincere, in queste cause, è sempre il dipendente. Infatti, il primo verdetto fu a favore dei dipendenti. Il datore di lavoro si appellò. Il tribunale di appello gli diede ragione, rovesciando del tutto la sentenza e convalidando il licenziamento. I dipendenti si rivolsero allora alla Corte Suprema del Paese, la quale confermò la seconda decisione, pur concedendo che i dipendenti dell’impianto erano probabilmente stati mossi anche dall’intento di evitare danni all’ambiente. Principalmente, però, avevano assunto un comportamento incompatibile con la prosecuzione del rapporto di lavoro. I dipendenti, non si arresero e chiesero che sulla questione si pronunciasse la Corte Costituzionale del Paese. La Corte gli diede ragione. Criticò i giudici per aver valutato esclusivamente gli interessi privati in gioco, a scapito dell’interesse pubblico. Tutto il processo fu perciò rifatto.
Il verdetto finale fu a favore dell’azienda. Il licenziamento fu convalidato dal tribunale e nessuno degli appelli che seguirono riuscì a ribaltare la decisione. Il verdetto, probabilmente, sarebbe stato differente se i due dipendenti avessero denunciato l’impianto senza diffondere i dati aziendali in questione.
Il fatto avvenne in Repubblica Ceca, nel 2001.
Avv. Massimiliano Pastore
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