Corrado Calabrò, poeta e presidente emerito dell’Agcom ha inaugurato l’edizione 2012 della “Settimana della lingua italiana nel mondo” presso la Cappella barocca dell’Istituto Italiano di Cultura di Praga. All’evento, presentato dal Direttore Paolo Sabbatini, hanno partcipato anche il politico Jan Fischer, candidato in corsa per la presidenza della Repubblica Ceca, e altre personalità di spicco della scena politica e culturale ceca. Nel corso della serata è stata presentata la versione trilingue in italiano, ceco e cinese dell’ultima raccolta di Calabrò, “Una lama nel miele – Cepel v medu” (Balt-East, Praga, 2012, pp. 93), patrocinata dall’Istituto Italiano di Cultura di Praga.
Sono nato sulla riva del mare; certi autunni le mareggiate giungevano fino alla soglia della nostra casa ai bordi della spiaggia. Per me è difficile capire come qualcuno possa non nuotare, così come non ci passa per la mente che uno non sappia camminare. L’estate era il mio ámbito di libertà. Seguivo con lo sguardo le navi che, lasciato lo Stretto, rimpicciolivano sempre più fino a venire inglobate nella distesa liquida. Pure, mi sembrava di continuare a vederne una parvenza, come il sorriso del gatto sparito di Lewis Carrol. Avrei voluto seguirle a nuoto o in barca a vela spingendomi fino alla soglia che segna il limitare a un nuovo giorno.
Viviamo in un tempo in cui si parla tanto: al telefono, via sms ed e-mail, in televisione.
Tutto sembra essere stato detto in questo profluvio di parole che ci sommerge. Tutto, tranne quello che attendevamo: l’insoddisfazione viene saturata aumentandone la dose.
Bene; in questo contesto c’è ancora spazio, c’è ancora un senso per la poesia oggi?
Vedete, in tanta sovrabbondanza, il bisogno della poesia, della scrittura poetica, nasce, paradossalmente, dall’insufficienza del linguaggio.
Quando sentiamo il bisogno di dire qualcosa di nostro, di nuovo, di non detto, ci accorgiamo che ci mancano le parole.
Chi, più di papa Wojtyla, ha avuto accesso ai mass media? In qualsiasi momento poteva apparire sui televisori nelle case di tutti, poteva affacciarsi alla finestra di piazza San Pietro come a una finestra sul mondo. Eppure anche il papa, quando ha voluto esprimere qualcosa di unico, di tutto suo, di non detto, di indicibile, non è ricorso alla predica, all’enciclica, all’allocuzione, è ricorso alla poesia.
Ma, attenzione: di fronte all’indicibile siamo tutti allineati sulla soglia dell’inadeguatezza: giornalaio e medico, tassista e ingegnere, pulitore di vetri e papa, casalinga (come Emily Dickinson) e professore, abbiamo tutti le stesse chances.
Sì. La poesia è un po’ la scommessa sull’impossibile: dire qualcosa di nuovo, di non detto, forse d’indicibile, usando le parole, vale a dire il mezzo più usato, più abusato, più sciupato dall’uso quotidiano.
Ma, così stando le cose, cosa ci spinge allora alla scommessa così spesso perdente, al tentativo assoluto e fallimentare della poesia?
Cosa ci spinge ad innamorarci? Se la nostra individualità ci bastasse non ci innamoreremmo.
Se la vita ci bastasse non si farebbe poesia (possiamo dire, arieggiando Pessoa). La vita vissuta è conformazione. La poesia è presentimento, intuizione, evocazione; è risonanza[1].
Il poeta parla di sé a se stesso ma perché questo è l’unico modo di pescare nel profondo, per afferrare l’inafferrabile facendo emergere qualcosa ch’egli stesso non sapeva di dover portare alla luce.
Sì, il paradosso è questo: il poeta scrive perché non può tacere quello che non sa di dover dire[2]. Per dirla con un sociologo weberiano[3], la poesia è una di quelle azioni che, per raggiungere il loro scopo, devono ignorarlo. Parafrasando Italo Calvino potremmo dire che scrivere “vuol dire spogliarsi di ogni intenzione e d’ogni partito preso, per essere pronti a cogliere una voce che si fa sentire quando meno te lo aspetti, una voce che viene non si sa da dove, da qualche parte al di là del libro, al di là dell’autore, al di là delle convenzioni della scrittura: dal non detto, da quello che il mondo non ha ancora detto di sé e non ha ancora le parole per dire.” [4]
L’opposto dei mezzi di comunicazione di massa, “dove chi ascolta finisce con l’ascoltare le identiche cose ch’egli stesso potrebbe tranquillamente dire, e chi parla dice le stesse cose che potrebbe ascoltare da chiunque”[5].
L’intelligenza aiuta gli uomini a capire molte cose, ma ad essi nasconde i propri limiti. La poesia tende, tenta di superare quel limite. “I concetti creano gli idoli, solo lo stupore conosce” // “dallo stupore e non dal dubbio procede la conoscenza” osservava la Arendt[6], riprendendo l’affermazione di Giambattista Vico secondo cui senza la capacità di meravigliarsi nel profondo non c’è processo di conoscenza.
Ma come viene a visitarci la poesia?
“Ognuno di noi” – notava Max Jacob – “ha in mente un grande testo, tranne nel momento in cui decide di scriverlo” [7].
La suggestione poetica viene a visitarci come il primo imprinting dell’amore.
Accade, appunto, come in amore.
Quanti ragazzi hanno guardato quella ragazza senza vedere in lei nulla in più delle altre? Poi un ragazzo s’innamora e vede in lei una bellezza che nessun altro ha visto.
La poesia, l’arte fanno lo stesso. Ci rivelano una bellezza che era sotto la pelle e che avevamo guardato senza vedere.
E’ come il fiammifero di Prévert. Conoscete quella poesia di Prévert, Tre fiammiferi accesi nella notte? Un innamorato al buio su un ponte sulla Senna, accende tre fiammiferi: uno per vedere gli occhi, uno per vedere la bocca, un terzo per vedere il volto tutto intero della sua ragazza.
E’ poeta chi non solo vede –non vede solo lui- la bellezza di quel volto che il fiammifero illumina, ma riesce a farla vedere agli altri.
E’ il mistero dell’altro-da-sé col quale vogliamo immedesimarci. E’ l’impossibilità di oltrepassare il limite e tuttavia l’incapacità di rinunciare a varcare quella soglia.
E’ dal non detto che scaturisce l’evocazione: solo che – è questa la peculiarità – si tratta del non detto indotto da quella particolare espressione, da quello specifico detto.
“Eran las cinco en punto de la tarde” Erano le cinque in punto della sera. Erano le cinque a tutti gli orologi. Venticinque volte Garcia Lorca ripete “A las cinco de la tarde”, alle cinque della sera, nel suo Llanto por Ignacio Sánchez: e non lo fa certo per dirci l’ora.
Ma se avesse detto: Nel pomeriggio di oggi, alla plaza de Toros di Siviglia, il giovane e valente torero Ignacio Sánchez …. ecc. avrebbe fatto solo una piatta cronaca giornalistica. Lui invece dice “A las cinco de la tarde”; e niente, come queste parole, ci dà il senso della precarietà della vita, della giovinezza, della valentía di un uomo.
Ma torniamo al nostro interrogativo: come viene a visitarci la poesia?
All’inizio c’è un grande balzo in avanti dell’immaginazione. “Il primo verso è sempre un dono degli dèi” ha detto Paul Valéry, ch’era sì un poeta ma aveva un temperamento non romantico; era un freddo, un raziocinante.
Solo dopo ci sono i filtri e i reagenti dell’intelligenza, che sono come (una volta) il bromuro d’argento per la lastra fotografica: servono a fissare l’immagine, a trasporla dal negativo della lastra impressionata al positivo della pellicola.
La comunicazione pura, da pensiero a pensiero, non esiste. Così come, per converso, non esiste una comunicazione esclusivamente attraverso il linguaggio[8]. Ma esiste, esiste forse ancora, una forma di trasmissione ch’è fatta di accordi e di silenzi, come la musica, e che nasce dalle parole ma le trascende.
A volte, in un momento assistito dal favore fuggevole del dio, un’immagine, una percezione, un’intuizione si stacca dal film travolgente del quotidiano e s’impone all’attenzione con una suggestione imprecisabile, condensando in sé un significato che ci conquista come una rivelazione.
La poesia cresce dentro come un embrione nel poeta ingravidato, come il lievito fa montare l’impasto del pane, matura come un frutto finché il poeta sente che non può più cambiare un verso, una parola, un’interpunzione, a pena di guastarla, di falsarla, di tradirla[9].
Non per questo il poeta sarà pienamente soddisfatto della sua opera. La poesia, anche nelle opere più riuscite, resta sempre sospesa, in definitiva, tra l’inveramento della promessa e la negazione definitiva.
Nella casa della poesia la stanza più grande è la camera d’attesa.
L’intervallo tra quando un dio ci ha visitati ed è andato via e un altro deve ancora venire può essere lungo, molto lungo. «E’ il tempo degli dèi fuggiti e del dio che viene. E’ il tempo di privazione perché esso si trova in una doppia mancanza e in un doppio non: nel non più degli dèi fuggiti e nel non ancora del dio che viene»[10].
La poesia ci trasporta oltre i limiti dell’intelligenza; è quindi un potente mezzo di conoscenza intuitiva (l’ésprit de finesse che ci rivela qualcosa che l’ésprit de geometrie non può descrivere),[11] ma ha la leggerezza, la felicità del gioco.
Che cosa ci rivela la poesia? Ci rivela la valenza altra di qualcosa che portavamo dentro. Sentiamo che quelle certe parole, combinate in un verso, ci recano un messaggio; proprio il messaggio che inconsapevolmente attendevamo e che ci fa trasalire come un sogno che dica e non dica. Consiste – come accade nei sogni – nel preannuncio di un’imminente rivelazione; anche se, poi, la rivelazione viene continuamente rinviata[12].
Per essere percepite, la poesia, l’arte, devono suscitare empatia, cioè il piacere di condividere come proprio il messaggio dell’autore, di riconoscere in esso il messaggio che inconsapevolmente attendevamo.
La poesia è una missiva invisibile scritta con inchiostro simpatico tra le righe di una lettera pervenutaci: diventa leggibile solo se il destinatario l’espone, da solo a solo, alla fiamma della sua attesa, determinando una reazione per simpatia (sumpάqeia). E’ questo il suo modo di comunicare[13].
Se non sovviene in qualche misura a un’attesa, se non genera un preannuncio, se non induce un presentimento prima e una sovradeterminazione poi, il messaggio resta sigillato, inerte, non entra in risonanza, non provoca quel trasalimento interiore ch’è il segno dell’attraversamento di una soglia di percezione. L’io non si è coniugato con l’altro da sé. L’autore è rimasto con il cerino in mano. Non è un poeta, è un poetante.
Quando invece non c’è più bisogno di parole per percepire quel messaggio nascosto, quando la parola poetica, pur così sobria, risulta inadeguata per eccesso, allora essa ha conseguito la sua rivelazione.
E’ per questo che la poesia è forever: perché ci fornisce le parole che ci mancavano e di cui avevamo – di cui abbiamo – bisogno.
Ho costeggiato per anni a nuoto, da ragazzo, estate dopo estate, le spiagge di Riace, in Calabria, senza sospettare minimamente che sotto pochi metri d’acqua – quell’acqua che portavo a me una bracciata dopo l’altra – ci fosse un’altra presenza, sdraiata su un letto di sabbia. Dopo averli cullati per millenni nel suo liquido oblio, il mare ci ha offerto – ha offerto a noi – i guerrieri di bronzo, alzatisi in piedi ai nostri giorni come se soltanto adesso, soltanto per noi, prendessero forma dall’inconscio dell’artista.
Di chi sono i guerrieri di Riace? Di Fidia, di Lisippo, di un Pitagora reggino, d’ignoto scultore?
Come il mare, così l’arte, la poesia non sono nostre o di un altro. Una poesia, una composizione musicale, una statua, un quadro non appartengono all’autore più di quanto non appartengano al lettore, all’ascoltatore, al contemplatore che, entrando in sintonia (in sumpάqeia, dicevano i greci), li faccia rivivere dentro di sé.
Quando questo avviene, allora si realizza un piccolo miracolo: poeta e lettore, musicista e ascoltatore, pittore e contemplatore sono un tutt’uno per il tratto di tempo in cui entrano in risonanza. Lo scultore che, millenni or sono, scolpiva i suoi guerrieri di Riace e noi che per un dono del mare li sfioriamo oggi con gli occhi e con le dita, siamo contemporanei.
Beethoven che, quasi due secoli fa, scriveva l’ultima nota su uno spartito e noi che siamo oggi pervasi dalla sua musica, siamo contemporanei.
Ecco, è tutto qui. E’ questo, questo nonnulla che fa l’arte, che fa la poesia.
Ho parlato della poesia, non di quella che è – se lo è – la mia poesia.
Un po’ perché della propria poesia (come dei figli) si ha coscienza, non conoscenza.
Un po’ perché la poesia (come le barzellette) non vuole spiegazioni. E’ come un tiro in porta: o è dentro o è fuori. Il calciatore che ha scoccato il tiro potrà raccontare come s’è sviluppata l’azione, se ha colpito la palla di piatto, col collo o con l’esterno del piede. Ma non potrà più far entrare in rete il pallone né impedire il goal, quali che fossero, a chiacchiere, le sue intenzioni.
Ascoltatene – piuttosto – qualcuna. E’ una scommessa nella scommessa: far si che un’emozione solitaria, qual è la poesia, diventi un’emozione collettiva.
Ve le porgerò con la modestia con cui l’ottico ci propone le lenti: “Ecco, guardate se questa va bene; se migliora la vostra visione di qualcosa che intravedevate oscuramente o se invece la sfoca maggiormente”.
Provate, con me, ad ascoltare tra le parole, provate a fare in voi il silenzio, provate a scrivere una vostra poesia attraverso i versi di una mia, come una volta i pittori dipingevano i propri quadri sopra un altro dipinto …
Corrado Calabrò
Poesie
Sotto le palpebre
Il mio oroscopo passa
– poiché alzerai le palpebre –
per il tuo primo sguardo del mattino:
così attraversa l’aurora il nuovo giorno.
Anagramma
Volgi il tuo volto adolescente
Aliena
di tutti gli altri volti
e del mio sono stanco
Due palmi sopra l’orizzonte
è Venere
La fisso a lungo da un altro pianeta
Anagrammo, supino, i tuoi silenzi
poi guardo l’orologio e prendo un Tavor.
Verrà l’amore ed avrà le tue labbra
Sì, sì, ci credo, ma come Tommaso.
Credo alla luna solo se la vedo.
Proprio così:
la luna esiste solo se la guardi.
Non ci credi?
Togliti le lenti d’ogni giorno
sciogli i capelli
e metti gli occhiali da luna.
Vedrai venire – lo vedrai tu sola –
venire a te lungo un binario ignoto
l’amore entrato in fase con la luna
e senza che lui dica una parola
tu gli offrirai tremante le tue labbra.
Alba di notte
Striscia l’alba
tra le griglie della persiana.
Stanotte finalmente dormi accanto:
me lo dicono i materassi
che si stringono
lo sostiene la levitazione
del letto.
Dio mio, l’alba!
Se aprendo gli occhi, adesso,
mancasse la tua mano
a trattenere il lembo della notte…
No, non è giorno,
è la luce dei lampioni
che trapela:
me lo dice il tepore del tuo corpo
me lo dice la voglia di sonno
ancora intatta.
Senti come ci palpa
come ci rende bisessuati il buio?
No, non è l’ora del primo treno.
Questa persiana a griglie in legno douglas
è il nostro finestrino schermato:
fuori ognuno riprende
ad inseguire a testa bassa il tempo
– in moto, macchina, autobus, furgoni –
ma la tua giovinezza
si stringe a me insieme al materasso.
E non è stato un sogno;
o lo è ancora.
Altrimenti
al tuo levarti mi sarei svegliato.
Jessica, che levandoti…
Jessica, che alzandoti
sulle lunghissime gambe
meravigli il mattino…
E’ come sospeso nell’acqua
il tuo incedere
e il passo d’altra donna
senza sapere oblitera e oltrepassa.
Jessica
che levandoti senza innocenza
sulle altissime gambe
fermi a metà il risveglio
e tieni il sogno in ostaggio.
Hai svoltato l’angolo a sorpresa
Dove ho perduto l’ombrello? E il bottone?
Getto dietro le spalle i miei pensieri
come passeri morti.
Sento odore di pesce e di mare.
O forse è solo il ricordo del porto.
Riconoscevo a occhi chiusi le reti
le voci le stagioni e la presenza
delle donne del nord che mi stordiva…
Da dove spira il vento? E verso dove?
Sfuggirò come un gatto la luna
che imbianca di presagi il marciapiede.
E non mi volterò a guardare indietro.
Anche se non saprei guardare altrove
da quando le tue mani non moltiplicano
il pan di via per la nostra comunione.
Riesco a farmi la barba la mattina
senza scrutarmi il volto.
Quando ho venduto la barca?
E da quanto mi seguita il cane?
Sono passeri implumi
come facce sbarbate, i ricordi.
Della faccia hanno lo stupore
di chi è caduto dal nido nel sonno.
Come ho smarrito la sincronizzazione
su e giù con l’ascensore del tuo umore?
A un amico nell’ultimo black out
gli s’è smemorizzato nel computer
il romanzo di centottanta pagine.
Cosa resta di te
dentro gli specchi appostati per casa
e nelle vetrine compiaciute
in cui lanciavi, passando, uno sguardo?
Forse ho sbagliato strada; son tornato
sulle mie stesse tracce un’altra volta;
ecco perché non trovo bricioline.
Come s’orientano i pesci sott’acqua?
E gli astronauti dentro l’ascensore?
Persino a mille chilometri da terra
non depistiamo quello che crediamo
d’aver lasciato come che sia alle spalle.
Svolterò a ogni angolo a sorpresa
fino a lasciare surplace la mia ombra.
La faccia della luna è coperta.
Ma i miei passi m’inseguono e s’intrecciano
come pipistrelli nella notte.
Dove scompaiono quando si fa giorno?
Dove sei, cosa pensi? E perché mai
il tuo quadro in cantina non invecchia?
Meglio non saperlo.
L’assenza di motivi può spiegare
di per se stessa una separazione.
Giunge nell’aria un sentore di mare.
Il cane annusa l’odore del pesce.
Da dove spira il vento?
E verso dove?
Perché continua a seguitarmi il cane?
Quando ho perso l’ombrello?
E il bottone?
Subway
Proteo senz’occhi, solo con la pelle
sento, dal soffio, che arriva il convoglio.
Perfino sottoterra si sprigiona
da qualche parte e si fa largo il vento.
Libero il vento e libero ragazzo
scorrevano corsari a pelo d’acqua:
con un tocco alla barra ed alla vela
si schiudeva alla prua un’altra rotta.
Ci ritroviamo in tanti su un binario
con pochi scambi e pure quelli fissi.
Non spira il vento; è convogliato avanti,
in condotta forzata, dentro il tunnel.
Retrogusto
Persistente è l’amaro
che il dolce troppo dolce lascia in bocca
Stordisce più del vino fissare
il cielo estivo dall’alba al tramonto
Sto bene attento a non aprire gli occhi
e a non allungare la gamba:
si risente per anni l’assenza-
-presenza dell’arto amputato
Tutta l’acqua del mare non placa
la sete a chi non la può bere
Lungo è il bisogno d’amore
in chi t’ha amata.
T’amo di due amori
T’amo di due amori
eppure è a senso unico la freccia
che oscuramente segna la mia via.
T’amo di due amori:
mi sono accorto che c’era un crocevia
solo dopo averlo oltrepassato.
Vengo a te come l’acqua in pendio
ma ancora mi fai andare in extrasistole
quando più credo di sentirti mia
e poi mi ritrovo in stand by.
T’amo di due amori
e amo dunque due donne, anche se
non ho altra donna all’infuori di te.
T’amo di due amori – è vero –
e se ne sovrappongono le impronte
come due rette possono passare
per uno stesso punto se a tracciarle
è la mano incosciente d’un dio.
Ma c’è nell’amore un doppio senso
per decifrare il quale manca il tempo
finché il dolore non fornisce la chiave.
Password
Abbassa le difese immunitarie
contro l’amore
l’averti consegnato la mia password.
Ma più che mai…
Dall’inizio mi manchi,
come l’acqua alla sete del deserto.
Mi manchi quando ti cammino a fianco:
non vanno nella stessa direzione,
se non per breve tratto,
due treni su binari paralleli.
Mi manchi quando sono con un altra,
come manca la freccia alla ferita
che per la sua estrazione si dissangua.
Ogni giorno mi manchi; e in ogni dove
perché all’assenza di te
non c’è un altrove.
A luna spenta
|
Ah, Michelle, come strappa la randa!
Certo che non siamo senza freni,
Michelle, siamo in volo frenato!
Pettineremo come in aliscafo
le onde in fuga sotto i nostri pattini
finché ci porta, come adesso, il vento.
Hanno la velatura – è questo il bello! –
sovradimensionata, i trimarani.
L’arte per l’arte, il mare per il mare…
Pattineremo oltre le onde in fuga
come su un fiume presso la cascata…
ah, reggiti, Michelle, reggiti forte!
Certo, possiamo ammainare lo spinnaker;
ma non vuoi più volare?
Le onde scorrenti come un tapis roulant
in mare aperto… andare per andare…
ah, Michelle, se oggi fosse domani!
Le onde scorrenti come un tapis roulant
proni sul bordo l’acqua che ci sfiora
il cuore che batte contro il legno…
a luna spenta amare per amare
ah, reggiti, Michelle, reggiti ancora
la luna è spenta
presto sarà domani.
Chiamata non risposta
Chiamata non risposta OK?
Per altre informazioni premi cinque.
Dieci cifre. E’ lei. Nessun messaggio.
Chiamata non risposta Vuoi chiamare?
Certo che voglio chi amare… anche se
chi ha amato altre volte fuori tempo
è come un daltonico al semaforo:
non sa mai qual è il segnale giusto,
deve guardare cosa fanno gli altri.
Per chiamare premi il tasto OK.
Beh, non è semplice quando si è anta
parlare all’impronta di se stessi
come fanno i ragazzi, al telefono.
Ci vorrebbe un codice segreto.
Richiamo fallito Richiamare?
Sì, no; non c’è una terza opzione.
Non risponde; eppure sarà apparso
il mio numero – credo – sul display.
Richiamo automatico OK?
OK OK, solo sette trilli.
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei:
no, non c’è stato il settimo squillo.
Né io né lei abbiamo detto: pronto.
I lumi del secolo
OK! Secondo te sono svitato
come una lampadina.
Ma tu lo sai cos’è una lampadina?
Una lampadina è un terminale
è la prova lampante
della presenza di Dio nell’universo.
Ogni tanto Dio accende un’altra stella
così, senza un motivo apparente.
La sera poi accende tante lampadine;
e questo lo fa a ragion veduta.
«Tante quante?»
Tante quante le stelle, esattamente.
Per ogni stella in cielo qua s’accende
la corrispondente lampadina.
Nemmeno Dio però la potrà accendere
se non la troverà bene avvitata
nella sua appropriata impanatura.
Dio infatti fornisce la corrente.
Non fa mica, per noi, l’elettricista.
Mi manca il mare | Toda mujer es del primero que sabe soñarla.
Charles Chincholle
|
Se non sognassi non avrei un passato
Non appartiene al navigante il mare
che ha solcato
Non trattiene chi nuota
altro che il sogno
del mare che ha abbracciato.
Duale
Alla notte
anche questo giorno si consegna.
Come la notte al giorno
come il giorno alla notte mi manchi.
[1] Lo è davvero? Lo è ancora?
La poesia contemporanea è come la nouvelle cuisine: è giustificata dalla sovrabbondanza, dalla sazietà, evita l’indigestione. Dà sfogo a una creatività insapore, prevalentemente ornamentale. De gustibus… Ma non è la presentazione (nemmeno se insaporita con gli intingoli: multimedialità, sinestesia) che può donarci la rivelazione che attendevamo.
La poesia rischia di morire per asfissia, soffocata dal cerebralismo.
S’attaglia, corrispondentemente, ben più alla poesia l’affermazione nicciana: «Dio è morto soffocato dalla teologia»( F. Nietzsche, Frammenti postumi, Adelphi).
[2] A proposito di Dino Campana Montale ha parlato di poesia in fuga, fuga in direzione dell’inconoscibile, verso la sorgente da cui scaturisce l’ignoto.
[3] J.C. Passeron, La forme des preuves dans les sciences historiques, in particolare, Cynisme, naïveté, conviction menteuse.
[4] Osserva Bergson che “c’è, nel profondo dell’animo della maggior parte degli uomini, qualcosa che, impercettibilmente, fa loro eco”, come un altro-da-sé
[5] U. Galimberti, Psiche e techne:l’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999.
[6] San Gregorio, H. Arendt-H.U. van Balthasar.
[7] La faciloneria, il qualunquismo, lo scoraggiamento, conducono i più a chiedere troppo poco alla parola; come chi calci il pallone a casaccio e poi pretenda ch’entri nel “sette”.
La sofisticazione intellettualistica induce i più esigenti a chiedere troppo; porta alla gravidanza isterica della ricercata parola-verbo. Ma non esistono parole magiche; e se esistono, o sono ineffabili o la seconda volta che vengono pronunciate la loro magia è già smagata. La singola parola (essendo già usata) è, come tale, un pregiudizio (Nietzsche) e se non lievita per intervento di un misterico enzima, se non viene rianimata con la stessa indispensabilità con cui il respiro sostiene il battito cardiaco, si oppone alla nuova significanza che vorremmo attribuirle.
“Nell’Occidente avanzato, a forza di lógoV (= giudizio, ciò che lega A a B) e di intelletto (=interlego), si è perso di vista il primigenio nouV, che dice piuttosto annusare, come il cane di Ulisse, Argo, che a fiuto riconosce il padrone” (O. Pachlosvka). Smarrita la sublime interazione tra lógoV e pulsione dionisiaca della poίhsiV greca, su un versante imperversa la corrività, sull’altro la poesia rattenuta boccheggia nel vuoto spinto del cerebralismo. Assistiamo alla pantomima asfittica del non detto: ginnastica preparatoria di una partita che non sarà mai giocata. La poesia, praticata da milioni e milioni di persone, rischia di risolversi in un vizio solitario.
“La parola si radica nella solitudine, ma è tesa all’altro per sua stessa natura”(Andrea Temporelli, in Anterem).
La poesia, per rarefatta che sia, non può restare confinata in un limbo di incomunicabilità, di reciproca inaccettazione. «Hölderlin dice a proposito del mistero della vicinanza che il poeta tiene in serbo […]Ma non lo conserva facilmente da solo,/e volentieri si accompagna, perché aiutino/a comprendere, agli altri, un poeta». («Noi siamo un colloquio, il che significa al contempo sempre: noi siamo un (solo) colloquio. Ma l’unità di un colloquio consiste nel fatto che di volta in volta nella parola essenziale è manifesto quell’uno e medesimo su cui ci troviamo uniti, sul fondamento del quale siamo uniti e siamo quindi autenticamente noi stessi. Il colloquio, con la sua unità, sorregge il nostro esserci»: (Heidegger, La poesia di Höldering, Adelphi, Milano 1988, cit. pp. 37, 47).
[8] Per l’eco interiore la parola deve fare intorno a sé il deserto. Occorre dunque fare il vuoto attorno al detto per lasciare spazio al non detto in quella terra di nessuno che si estende tra il rappresentato e l’intravisto.
[9] E’ come se ci fosse per la poesia (per l’arte) una legge naturale tutta sua che rifiuta al tempo stesso la casualità degli accostamenti e la predeterminazione della loro ricerca. Come se esistesse una scala cromatica che il poeta deve scoprire a occhi chiusi.
[10] Heidegger, La poesia […], cit., p. 57
[11] La mente dell’uomo è più intuitiva che logica, e comprende più di quanto sia in grado di coordinare (Luc de Clapiers, marchese di Vauvenargues).
[12] La parola poetica è quello che in termini neurobiologici, di funzionamento del cervello, si chiama un precursore (ad esempio, l’elledopa rispetto alla dopamina): non c’impronta di sé ma di quello che suscita.
[13] “Scrivere è sempre nascondere qualcosa in modo che venga poi scoperto” (Italo Calvino).