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La buona morte del moscerino

Stacco per un attimo gli occhi dal libro per ripetere mentalmente e meditare sulle frasi profonde appena lette: “Non ci sono contrapposizioni, dualismi, neppure antinomie. Ogni cosa è spaccata in due, però dall’interno. La vita è spaccata in due fin dall’inizio”. Faccio congetture su queste parole, ma a un tratto mi accorgo che sul tavolo, a pochi centimetri da me, c’è una piccola cosa nera che si sta muovendo. È un moscerino; uno di quelli che bazzicano i cesti della frutta e vivono praticamente a tutte le latitudini del mondo. Il piccolo insetto, in realtà appena più grande di quanto normalmente lo siano quel tipo di ditteri, si agita per qualche ragione ignota con movenze convulse e irregolari. Mi avvicino con la testa per guardare meglio. Quel cosino nero è capovolto, con le alette aderenti al tavolo, le zampette all’aria che si dibattono in modo scoordinato (tranne due che, invece, sono completamente immobili) e con il minuscolo corpicino che si contorce in spasimi aritmici. Con la pagina del libro provo a rimetterlo in posizione normale, stando attento a usare la massima delicatezza possibile. L’operazione riesce subito, ma in un attimo l’animaletto ricade con un balzo all’indietro e ricomincia a muoversi a scatti, contorcendo di continuo la sua piccola massa corporea. Ripeto l’operazione più volte, ma il moscerino non riesce a reggersi sulle zampe esili e immediatamente ricade in quella posizione innaturale, in preda alle convulsioni. Attendo un po’, ma la piccola creatura continua ad agitarsi capovolta e la cosa non sembra destinata a migliorare. Sta soffrendo? Non sono un entomologo, ma credo sia proprio dolore quello che sta provando in questo momento quell’esserino sul tavolo. Poverino!

Ma io non posso farci proprio nulla – penso. Torno a cercare con lo sguardo il punto esatto della pagina dove poco fa ho interrotto la lettura, lasciando quello sfortunato insetto al suo destino triste… – Dopotutto ci ho provato ad aiutarlo… E poi è solo un moscerino, – mi dico – un moscerino e basta!

Continuo nella mia lettura, ma, non saprei dire perché, non posso fare a meno, dopo un po’, di rivolgere di nuovo l’attenzione a quella parte di tavolo alla mia sinistra. L’insetto è ancora lì a dimenarsi, al centro di una microscopica, tragica, battaglia tra la vita e la morte, il cui esito è ormai certo, ma che indugia nel giungere a fine. Caspita! Provo pena… sì, sento una specie di compassione per quello strano e insignificante insetto che in questa situazione non mi sembra insignificante per niente. Forse l’assurdità e l’incomprensibilità del dolore, finanche quando questo lo percepiamo fuori da noi stessi, in un altro essere, e addirittura in una piccola mosca, può cambiarci completamente la scala dei valori e la prospettiva delle cose, fosse anche solo per un attimo?

Non posso nulla per aiutarlo, ma l’idea di ritornare alla mia scala di grandezza e continuare indifferente a fare ciò che stavo facendo, ignorando quella minuscola vita che si sta spegnendo nella sofferenza, non mi fa sentire bene. Sì, è assurdo: lo so! Ma la cosa mi fa sentire disumano. Quello, ai miei occhi, in questo momento, in questo angolo periferico di una città periferica di un mondo periferico in un sistema solare periferico di questo incomprensibile universo, non è più soltanto un moscerino, ma una creatura che ha in sé una scintilla divina, con la dignità che è propria a tutto ciò che esiste, a tutto ciò che ha più o meno coscienza di sé sotto le più diverse forme e gradi di questa, anche solo per il fatto di esistere.

Mi ricordo allora di quei monaci giainisti dell’India, convinti che tutti gli esseri viventi posseggano un’anima. E allora portano in mano delle scope, attaccate alle maniche, di cui si servono per spazzare la terra o il pavimento dove camminano, per non uccidere involontariamente nemmeno le anime dei piccoli insetti.

Io però quell’insetto, purtroppo, l’ho visto.

In un attimo un dubbio mi assale:

Cosa devo fare?

Lasciarlo al suo destino inevitabile, ignorarlo e dimenticare tutto? Magari tra un minuto la smette di fare quel casino silenzioso e finalmente crepa e mi lascia in pace e sarà come se la cosa non fosse mai accaduta. Oppure posso forse fare qualcosa per mettere fine a quella condizione di dolore palese, con un tremendo, freddo ed estremo atto di pietà?

Cazzo! Che faccio? Provo sentimenti contrastanti, e quella scena che un attimo prima mi era sembrata di poca importanza, comincia ad acquisire una dimensione seria e inquietante. Entrambe le possibilità le percepisco come sbagliate. Non ho il diritto di porre fine alle sue sofferenze, volute da lui stesso, da Dio, o dal caso, che importa! Né ho il diritto, adesso che ho sentito questo folle e assurdo legame che può essere sentito tra un essere umano e un moscerino, tra esseri viventi accomunati anche solo dal fatto di partecipare entrambi alla vita, sebbene su scale e livelli diversi… Non ho il diritto di abbandonarlo così, o peggio mutarmi in voyeur indifferente della sua afflizione universale di insetto. Vorrei chiedere al moscerino cosa fare… Che follia: Sto delirando! Porre fine alle sue sofferenze con un colpo secco, rapido e indolore? Confortarlo in quel suo tormento soltanto con il mio sentimento di empatia o con qualche parola di consolazione detta con la saggezza, la tranquillità e la partecipazione affettata di chi sta dall’altra parte? Ma il moscerino di certo non sente la mia empatia né capisce le mie parole… Dio mio, sono impazzito! Che faccio? Perché non crepi subito moscerino e mi liberi da questa responsabilità!? – questa cosa la dico addirittura ad alta voce-.

Fossi una zanzara, almeno! – penso, mentre la danza macabra di quel corpicino con le ali continua. Poi, un pensiero improvviso; un impulso elettromagnetico frutto dell’elaborazione di percezioni sensoriali; un semplice prodotto fisiologico scaturito dalla complessità delle connessioni neurologiche del mio cervello, e localizzato in qualche punto imprecisato della mia corteccia cerebrale… O forse… Una voce, ecco, sì, mi è sembrata proprio una voce, quasi non mia, emersa da quella periferia inesplorata al di sotto della soglia di attenzione e della coscienza che qualche psicologo fantasioso o illuminato ha definito “inconscio”. Sì, era una voce interna proveniente dall’inconscio che mi ha detto:

“E tu, al suo posto, cosa vorresti?”

E già… Io al suo posto cosa vorrei? Perché anche io dovrò morire prima o poi, perché si muore! Perché tutti dobbiamo, anche se in quest’epoca assurda la morte è diventata un tabù, non se ne parla nelle scuole, non se ne discute tra gli amici, in famiglia… non è mai veramente al centro dei nostri pensieri. La si esorcizza, guardandola spettacolarizzata in modo impietoso nei telegiornali o nei programmi necrofili di cronaca nera, simulata in modo violento o drammatico-kitsch su schermi Ultra HD, comodamente seduti sul divano di casa o al cinema, sgranocchiando popcorn in formato “big size” da 1.200 calorie, 60 grammi di grassi saturi e 980 milligrammi di sodio. Ebbene sì, dovremo tutti un giorno morire, e fare i conti inattesi con questo “Mysterium tremendum”. Proprio tutti. Anche io. Certo, ma spero che a me tocchi il più tardi possibile, e soprattutto in modo sereno: un arresto cardiaco secco, infarto miocardico acuto ed improvviso, di quelli “una botta e via”, giusto il tempo di farti realizzare serenamente l’ineluttabilità della cosa e volare con la mente chiara e con affetto estremo ai tuoi figli, ai tuoi nipotini, o ricordare il volto di quella donna bellissima che era tua moglie da giovane, o di quella ragazza stupenda con cui 70 anni prima hai fatto l’amore su una spiaggia sotto la luna, e da allora non sei mai più riuscito a dimenticare.

Fissare, insomma, l’ultimo pensiero, l’ultima immagine mentale su qualcosa di bello, prima di dire addio alla vita e penetrare in quel nulla eterno o nuovo inizio che sia (a filosofi e teologi l’ardua sentenza!). O magari, ancora meglio, andarsene nel sonno, come mia nonna. Beata lei, la mia bella nonna: se n’è andata a 95 anni mentre dormiva, senza accorgersene. Il giorno prima era lì, ben vestita e profumata come sempre, che, dopo la messa e quattro chiacchiere con amici e parenti, se ne andava a casa, si preparava da sola la cena, mangiava in silenzio, lavava le stoviglie, poi si avvicinava alla finestra, la apriva e si appoggiava con le braccia al davanzale soffermandosi per qualche minuto a guardare fuori, in lontananza, il sole tramontare all’orizzonte dietro le montagne del Cilento nell’aria profumata di campagna, con quella serenità di chi ha vissuto senza rimorsi e senza rimpianti. Poi si lava, si mette in pigiama, si infila nel letto e recita, come fa da almeno 90 anni, le sue preghiere di Santa Romana Chiesa Cattolica e Apostolica, e si addormenta.

Quando l’hanno trovata nel letto il giorno dopo, con gli occhi chiusi e distesa su un fianco, sembrava stesse sorridendo.

Cazzo, voglio morire così, come nonna! Che Dio o il caso lo vogliano! Amen.

“Ma se non dovesse andare proprio così?

–Mi dice ancora quella voce- Cosa chiederesti a chi ti è vicino, ammesso che tu possa ancora parlare, esprimerti, fare un cenno intelligibile… Se disteso in un letto d’ospedale, cosciente che ormai non si può più tornare indietro, stessi compiendo l’ultimo viaggio e vedessi quella meta predestinata avvicinarsi inesorabile, ma lentamente, e quegli ultimi metri da percorrere fossero i più faticosi, maledettamente faticosi, se i piedi e tutto il resto facessero male, di un male insopportabile, talmente insopportabile da farti desiderare adesso quello che hai sempre temuto più di ogni altra cosa al mondo? Cosa chiederesti se, in quel momento, il tuo solo desiderio, la tua volontà unica fosse raggiungere il prima possibile quel malaugurato, fottuto traguardo finale? Cosa imploreresti se a separarti dall’ arrivo e a rallentare con dolore quel cammino tremendo di liberazione e oblio, di speranza e paura, di annullamento e trasformazione, fosse solo una complicata e costosa macchina, un ritrovato tecnologico, dono divino o invenzione del diavolo, che ti impedisse di essere spettatore dell’avverarsi di quella profezia contenuta nell’ultima frase di “Genesi: 3,19” che ti hanno insegnato ai tempi del seminario?”.

“Allora, cosa chiederesti?”

Ritorno di colpo alla realtà, mi scopro a fissare quasi in stato di ipnosi la luce della lampada sul tavolo che mi tortura gli occhi, sento il battito del cuore leggermente accelerato, i muscoli addominali indolenziti per la posizione da seduto a lungo scorretta. Nel silenzio della stanza sussulto al suono di un messaggio in arrivo proveniente dal mio telefono.

Giro di scatto la testa verso il moscerino che è sempre lì, si agita meno, ma si agita ancora. Una nullità! Ma poi mi ricordo che mi hanno insegnato a pensare sempre in scala, e che un batterio che è una nullità ancora più nullità di un moscerino, in realtà può essere letale per organismi milioni di volte più grandi e complessi. Nullità, poi, per chi? Guardo il libro voluminoso che giace sul tavolo davanti a me, è pesante. La copertina morbida della brossura è una pagina bianca riempita con testo di colore rosso. Rileggo involontariamente le parole della prima riga impresse sul cartoncino: “Sono nato il 30 ottobre 1947”, c’è scritto in stampatello. Prendo il volume con entrambe le mani, lo sollevo, lo tengo fermo a mezz’aria davanti alla testa per qualche secondo. Sento l’odore acrilico della colla per la rilegatura, lo giro tra i palmi fissandolo per un istante. Sulla quarta di copertina c’è una fotografia in bianco e nero. Si vede un ambiente chiuso, avvolto nella penombra, con i soffitti smisuratamente alti, è l’interno di una grande stazione inizi XX secolo. Nello spazio vasto, figure umane parlano, attendono, stanno in piedi in questo luogo-non luogo, mentre da enormi finestroni ad arco ellittico si riversano larghe e abbacinanti cascate di luce intensa che frangono abbaglianti sul pavimento. Qualcosa che non avevo mai notato prima attira la mia attenzione. In uno degli ampi fasci di luce che arrivano a terra, quasi invisibile, c’è una figura umana dai contorni molto sfumati dall’intenso chiarore circostante. È immobile e sembra guardare in alto, verso la sorgente di quella luce immensa. Che strano! Chiudo gli occhi, il librone tra le mani, un impulso elettrico dall’encefalo coordina il movimento rapido e sincronico degli avambracci e del bacino, che si spostano di una manciata di gradi verso sinistra sbattendo l’accatasto di carta, con un suono sordo, sul tavolo a pochi centimetri da me.

Riposa in pace, fottuto moscerino!

 

Mauro Ruggiero

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