L’anno scorso è venuto a Praga per esporre le sue opere nell’esposizione “Miluces “ospitata dalla Galleria Vernon. Luis Lleó è un artista catalano molto apprezzato con idee ben precise non solo sull’arte ma sulla cultura e la situazione mondiale in generale. Abbiamo avuto il piacere di intervistarlo per Cafè Boheme.
Luis, che cosa ti ha trasmesso Praga?
C’è qualcosa di profondo in questa città, penso che rappresenti ancora quell’identità che l’Europa moderna oggi sta perdendo. Trovo questa città più poetica che il resto d’Europa occidentale. Non saprei spiegarlo, è un feeling che sento a pelle. Penso che l’Europa dell’Euro sia diventata volgare, come il mondo più in generale, tutto si basa sui soldi, l’istruzione peggiora quando, invece, essa dovrebbe essere alla base della società. Secondo me questo è il grande problema del XXI secolo e credo che purtroppo crescerà perché la società non ha più punti di riferimento.
Pensi che l’arte in qualche modo possa aiutare il cambiamento?
No, penso di no. Vedo l’arte come un fiore che nasce in un cimitero, la vera arte è un mistero, è una cosa che succede in tante forme diverse ma che non è legata a niente. Non so come descriverla ma io la sento come una casualità, come quando piove o nevica o c’è il sole. L’arte è così: incontrollabile, irriproducibile, irripetibile e arriva quando arriva. Non credo che gli artisti siano responsabili dello stato in cui versa la società. L’arte esiste di per sé, non credo che siano gli artisti a creare l’arte, essi a volte hanno il naso, gli occhi e le orecchie per trovarla, ma noi artisti non siamo diversi dagli altri, siamo solo come dei cani che a volte riescono a trovare dei tartufi preziosi.
Qual è allora il rapporto tra arte e società oggi?
Purtroppo credo che sia un rapporto debole. Molte persone sconosciute hanno un bellissimo rapporto con l’arte, il vero pubblico è quello anonimo, capace di apprezzare davvero e fare commenti sinceri. Quando le persone diventano ufficialmente “pubblico” allora perdono il rapporto con l’arte. L’arte in fondo è come una donna che, unica su milla, ti colpisce. E perché lei e non le altre? Non si sa, è un mistero. Oggi con Internet rischiamo di perdere il fascino del mistero. Io avevo una pagina web ma poi l’ho chiusa. Chi vuole sapere chi sono mi deve cercare. Troppe informazioni uccidono l’eroticità di una cosa che è poi il suo mistero, la voglia di scoprire, la curiosità. Quello che abbiamo oggi non è realmente informazione. L’informazione non è parlare, parlare e parlare ancora, quello che ci sta invadendo è una cosa superficiale. Internet è diventato l’intrattenimento del XXI secolo come lo è stata la televisione nel secolo scorso. Stiamo diventando dipendenti da tutti questi apparecchi, ma la vita è un’altra cosa.
Un mondo in profonda crisi, quindi?
La crisi economica secondo me è il risultato di una grande crisi intellettuale, stiamo vivendo il finale di una storia, possiamo solo sperare che finisca senza troppo rumore. In altre epoche periodi simili hanno portato alla fine di grandi civilizzazioni. Purtroppo non sono sicuro che se ne possa uscire senza la violenza. Si sta diffondendo un primitivismo allucinante, molte persone regrediscono quasi allo stato di animali. Non mi stupirei se tornassimi ai fascismi e ai massacri.
Qual è il rischio che corriamo?
Secondo me il nostro cervello ha una capacità allucinante che la macchina non ha e non potrà mai avere, ma è un potenziale che va usato. Il problema è che stiamo perdendo l’abitudine di usare il cervello in modo autonomo. Lo vedo ad esempio nei bambini che vedo a New York. Il migliore amico di mio figlio è yemenita, è arrivato a New York un anno fa, e sua madre e le tre sorelle girano con il viso coperto dal burqa. La più bella conversazione che si può avere è con la madre di questo bambino perché non sai con chi stai parlando. Un bambino che in vita sua non ha mai visto un telefono o un televisore ha una sensibilità e un’immaginazione che nessuno degli altri bambini ha e questo perché usa la testa e il cuore. E così torniamo all’istruzione. Ma il futuro del mondo sono questi bambini cresciuti nella mancanza e nella privazione, i bambini iraniani o messicani per esempio, perché hanno ancora denti per mordere e le capacità per sopravvivere.
Dall’89 tu vivi a New York. Perché questa scelta? Che cosa ti mancava in Europa?
Mio bisnonno Joan era pittore, mio padre è stato professore di storia dell’arte a Barcellona, per anni mi diceva di andarmene se volevo realizzare qualcosa. La Spagna è un paese che probabilmente ha dato 10 dei 20 artisti più importanti della storia, ma ormai è tutto finito. Ancora oggi la Spagna produce tanti ottimi artisti ma è diventato tutto troppo difficile, alla gente non interessa nulla dell’arte, come in Italia. Dopo la morte di Franco abbiamo avuto un’età d’oro di grande crescita economica, tutti si interessavano solo al denaro e ai valori materiali. Però la Spagna, come l’Italia o la Repubblica Ceca, sono posti che ispirano tantissimo, hanno qualcosa di speciale. A volte nascono i Velzquez, Goya, Miro, Picasso, Dalì, ma è una casualità, in generale non c’è interesse per l’arte.
E invece a New York che atmosfera hai trovato?
New York è una città aperta. Nessuno si preoccupa di quello che fai, c’è molta più libertà. L’energia che si sente è allucinante, ci sono tantissime persone che fanno quello che faccio io: cercare, trovare, provare, vivere, camminare. Allora è più facile lavorare perché sei con gente che la pensano come te, c’è un comune state of mind di disposizione alla scoperta e al rischio.
Quindi c’è anche più attenzione nei confronti dell’arte?
In America molte persone ricche cercano di migliorare e “ripulire” la propria reputazione sostenendo e promuovendo l’arte. In paesi come l’Italia o la Spagna è l’esatto contrario, più ricchi sono e più sono “sporchi” e disinteressati alla cultura. In Europa spariscono i grandi mecenati di una volta, mentre negli Stati Uniti è ancora viva l’idea di dover restituire alla società una parte di quello che la società ti ha dato. Quindi, se hai lavorato sodo e la società ti ha premiato con il successo, ci si aspetta che tu restituisca alla società una parte del tuo successo. Per questo in America ci sono collezioni e musei fantastici.
A Praga si è tenuta un’importante mostra su Picasso…
Per me Picasso è un artista sovravvalutato, non credo sia così importante come molte persone pensano, è il primo artista dell’era del marketing. Dire che Picasso sia meglio di Giacometti, Morandi, Kandinski, Matisse secondo me è sbagliato. Credo che Picasso abbia un 5% di opere fantastiche, il resto è il marchio.
Come ti poni nei confronti dell’arte antica?
L’arte antica mi ispira tantissimo, spesso la trovo molto più moderna dell’arte moderna. Uno dei problemi dell’arte moderna secondo me è l’eccessiva immediatezza, vedo un’opera per un minuto e tutto finisce lì, questo perché spesso le opere sembrano più degli scherzi, dei trucchi, delle provocazioni, hanno una vita cortissima. Per me sono troppo limitate.
Ho letto che ti sei formato osservando gli affreschi medievali.
Esatto, mio padre dipingeva affreschi, e quando ero a New York pensai di dover fare qualcosa che non faceva nessuno. All’epoca abitavo con una ragazza italo-americana originaria di Roma, ebbi così modo di viaggiare molto per l’Italia dove ho potuto vedere tantissimi splendidi affreschi. Io penso che la mia opera alla fine della mia vita sarò ricordata come quella di un artista che ha ritrovato l’affresco puro e l’ha convertito in un linguaggio contemporaneo. Faccio disegni, quadri perché bisogna farli ma la mia testa è sempre all’affresco. La mia sfida è fare delle cose nuove con la tecnica più antica.
Elementi fondamentali dei tuoi lavori sono la geometria insieme al colore, quale senso hanno per te?
Io vivo a New York da 23 anni, mi sento un uomo con un piede in America e uno in Europa, nel Mediterraneo. Sono nato a Barcellona tra il romanico, la pittura dei grandi maestri e Gaudì, un mondo fantastico, e poi sono arrivato in America con le sue forme geometriche semplici che mi hanno colpito tantissimo. Paradossalmente posso dire di aver scoperto la semplicità proprio in America ma non è questo il paese dove sono nato, non possiamo sfuggire alle nostre origini. Credo che il senso dunque stia in questa ambivalenza. Quando vedi la mia pittura la prima volta la percepisci come astratta, geometrica, dopo però cominci a scoprire i dettagli e tutto si trasforma, quello che sembrava astratto in realtà non lo è. La mia pittura non è astratta, vedo tutto quello che dipingo, in una forma o nell’altra.
Quali sono gli artisti che maggiormente hanno influenzato il tuo lavoro?
James Turrell è un artista americano che amo tantissimo. Poi più in generale mi ispirano molto gli artisti che non sono particolarmente visibili, perché troppo spesso quelli famosi diventano puri fenomeni di marketing. Io penso che l’artista dovrebbe fare poche cose ma farle buone. Poi tra gli americani amo tantissimo Jasper Jones, Kelly o Mark Rothko.
E tra gli artisti italiani?
Amo soprattutto i primitivi come Cimabue, Giotto, Paolo Uccello, Beato Angelico. In particolar modo amo Piero Della Francesca, lo trovo un artista grandioso, faceva degli affreschi incredibili, poi Morandi tra i moderni. In generale comunque preferisco parlare di opere d’arte piuttosto che di artisti perché ci sono tantissimi artisti che magari hanno fatto un solo quadro indimenticabile e niente più, ma questo artista può essere tanto importante quanto uno che ne ha fatti trecento.