Pietro Sermonti (Roma, 25/10/1971) è un attore di teatro, cinema e televisione. Ha studiato regia e recitazione in Italia e negli Stati Uniti. È noto al grande pubblico soprattutto per il ruolo di Guido Zanin nella serie televisiva Un medico in famiglia e per quello di Stanis La Rochelle in Boris. In occasione del MittelCinemaFest, rassegna internazionale di cinema italiano organizzata dall’Ambasciata d’Italia a Praga, l’Istituto Italiano di Cultura e l’Istituto Luce Cinecittà che si è svolta a Praga dal 10 al 14 dicembre 2014, Sermonti ha raggiunto la capitale ceca per presentare il film Smetto quando voglio della regista Sydney Sibilia, nel quale recita la parte dell’antropologo Andrea De Sanctis. Cafeboheme.cz lo ha incontrato per fargli qualche domanda.
CB. Cominciamo da quest’ultima informazione: probabilmente ti sarà capitato più volte che, passeggiando, qualcuno ti riconoscesse e ti additasse con un “Ehi, guarda: quello è Stanis!” Ebbene, in quei momenti senti il “peso della maschera” o senti di aver raggiunto l’obiettivo?
PS. Certo, quella è una cosa che capita spesso… mi è successa perfino qui a Praga! Credo però che un attore sia fortunato se gli capita, nella vita professionale, un personaggio come Stanis, perché è un veicolo straordinario per una satira verso stereotipi che, purtroppo, esistono davvero. Inoltre, Stanis ha rappresentato per me l’occasione di poter prendere in giro qualcosa in cui io stesso ho lavorato, ovvero la grande sit-com : Un medico in famiglia. Per me Boris non ha rappresentato solo un riscatto dal marchio “dottore buono a vita”, ma anche l’occasione di lavorare con degli amici straordinaria, con molti dei quali sono proprio cresciuto insieme.
CB. Ti abbiamo visto nei panni del medico buono, del consulente finanziario senza scrupoli, del divo demente: è evidente che sai interpretare diversi caratteri, ma come li prepari? Oppure li “sei”? Sei uno, nessuno e centomila?
PS. Partendo dalla costatazione che il corpo è quello che è e non lo si può cambiare, il privilegio di essere attore è proprio quello di poter modellare l’anima che c’è dentro questo corpo. Ciò che si può fare è lavorare proprio sui caratteri… e per farlo ricorro al mio vissuto: all’esperienza emotiva, ma anche a una certa “campionatura” delle persone che incontro, che è una cosa che faccio per poi riusarle e rielaborarle nei personaggi. Per esempio, Stanis La Rochelle, nasce proprio dall’osservazione di alcune persone che ho conosciuto. Certo, è un personaggio che non evolve, che non ha profondità… e purtroppo dopo di lui ho avuto solo richieste per recitare in commedie. Quindi ho sentito montare spontanea la necessità di esprimere altro, per esempio dandomi di nuovo al teatro e, in particolare, a Cechov. Uno dei problemi del recitare in Italia, infatti, è che si viene marchiati: a un certo punto ho chiesto di far morire il mio personaggio della serie Un medico in famiglia proprio per non rischiare che poi, ogniqualvolta mi volessi proporre per un altro tipo di carattere, mi dicessero: “No, grazie, tu sei il medico e devi restare il medico”.
Se devo pensare al mio ”essere”, invece… beh, io sono romano! E finalmente potrò parlare romano in “Zio Gaetano è morto”, film che uscirà a marzo, dove interpreterò un elettricista.
CB. Anche George Clooney, però, ha iniziato facendo il medico in una sit-com! Tra l’altro è stato nominato due volte “uomo vivente più sexy”!
PS. Verissimo, verissimo! Io, però, mi accontenterei del terzo posto in classifica come uomo più sexy del palazzo dove abito!
CB. Come giudichi il ruolo della televisione nella cultura e nella società italiana?
PS. Rispetto all’evidente propulsione di alfabetizzazione che la televisione ha avuto in Italia, cito il mio babbo: “La televisione è come una pentola, se la si allarga (e negli ultimi decenni la si è allargata parecchio per farci entrare di tutto), il livello dell’acqua (il contenuto) si abbassa”. D’altro canto è anche vero che la televisione sta ora svolgendo la stessa funzione d’insegnamento della lingua che compiva negli anni cinquanta: basta pensare al fenomeno dell’emigrazione e al contributo che essa dà loro per imparare l’italiano. Un medico in famiglia aveva anche questo compito.
Per quanto riguardo l’ambito più commerciale, invece, ho avuto modo di vivere un’esperienza fuori dal coro lavorando per Fox, che ha una filosofia di mercato e un concetto stesso di televisione, del tutto diverso da quello italiano, ovvero del sottostare sempre al dominio del “falso duopolio”. Fox offre un servizio a pagamento e si permette, pertanto, di lasciare libero chi lavora (registi e attori) di fare davvero ciò che sente. Se in RAI il concetto di “personaggio simpatico” è quello di uno che fa tanti giochi di parole (e che personalmente non sono assolutamente capace di sostenere né voglio prestarmi a un tipo di comicità del genere), a Fox esiste davvero il concetto di satira.
CB. Teatro: qui i tuoi primi lavori e gran parte della tua formazione. Ti senti più legato al palcoscenico o allo schermo?
PS. Palcoscenico, senz’ombra di dubbio. Quando da giovane ho lavorato in teatro come aiuto regista, guardavo agli attori come a dei super eroi. In teatro si è molto più onesti che nella vita (è una cosa che ho sperimentato provando un pezzo de “Il gabbiano” di Cechov): si è molto più a fuoco ed è una sensazione intossicante. È la consapevolezza di dire qualcosa che è sempre valido, che va oltre te stesso.
Tra l’altro mi piace considerarmi anche un “autore dormiente”: da un lato mi piacerebbe uscire, prima o poi, con “un’opera prima”, dall’altro adotto come scusa il fatto che lavoro come attore proprio per mettere le mani avanti e dire che non ho tempo di scrivere. Forse alla fine resterò l’unico italiano a non aver scritto la sua opera prima… ma del resto c’è tempo: in Italia si è giovani promettenti fino ai 72 anni!
Sono passato dal teatro alla televisione dopo un momento preciso: studiavo recitazione teatrale a New York, sono tornato in Italia per uno spettacolo e, quando sarei dovuto tornare, c’è stato l’attentato alle Torri Gemelle. Da allora non me la sono più sentita di tornare. E nel frattempo, appunto, ho avuto l’audizione per Un medico in famiglia.
CB. Qual è la tua idea di “recitazione”? Puoi dare una definizione di “attore”?
PS. Mi colpisce che in italiano “recitare”, “giocare” e “suonare” siano tre verbi diversi, mentre in molte altre lingue non è così (in inglese “to play”, in francese “jouer”). Ebbene, l’attore è un contenitore che comprende queste tre azioni e inoltre è un bambino eterno, è una persona alla quale è stata data la possibilità di restare ragazzino per sempre (In questo senso, l’America non faceva per me: troppa disciplina e poco gioco; o forse, dal punto di vista più tecnico, perché non mi piace il naturalismo a teatro).
L’attore è un tubo in cui si infilano emozioni per poi farle risuonare nelle persone che lo guardano. E un bravo attore di teatro può passare al cinema; ma un attore di cinema difficilmente può sopravvivere in teatro, perché in teatro il tempo dell’attore coincide col tempo di chi lo guarda, mentre il tempo del cinema è spezzettato, sono coriandoli che non seguono una linearità e non vanno mai dall’inizio alla fine.
CB. L’importanza di chiamarsi Sermonti. Guardando la tua biografia da un lato si vede chiaramente come già ventenne tu abbia scelto la tua strada (la recitazione) seguendola con determinazione, dall’altro non si possono non notare cognomi di una certa altisonanza (Sermonti, Agnelli, Rattazzi): come hai vissuto questa dicotomia?
PS. Il fatto di essere un “meticcio”, di appartenere a una famiglia di “signori del vapore” e di essere figlio di un grande intellettuale, credo sia la mia fortuna. Tolti tutti gli attriti tipici dell’adolescenza, con le sue asprezze e spigolosità, ovvero una volta fatta pace col mio sangue, ho davvero cominciato ad apprezzare il patrimonio culturale che avevo a disposizione. Naturalmente ci sono pro e contro: dei contro è difficile parlare e li tengo per me, ma i pro derivano appunto dalla riappacificazione con se stessi e la propria storia. Ho passato estati in cui per la prima metà mi vedevo costretto nei salotti della Regina d’Olanda (alla quale tra l’altro facevo saltare la dentiera canticchiandole “bandiera rossa”) e nella seconda metà a giocare a pallone in strada a Santa Marinella. Certe volte mi impressiono anche quando penso al numero spropositato di parenti che ho: a conti fatti penso di avere 1.400 cugini nel mondo!
Dal punto di vista della meritocrazia, invece, non mi sono mai dovuto trovare a dire “no, guardate: sono qui perché sono capace e non perché sono raccomandato”. Anzi: ho sempre dovuto dimostrare davvero il mio valore, proprio perché se mi buttavo su un ramo qualcuno diceva “ah, ma perché tua madre…”, se mi buttavo su un altro “ah, ma perché tuo padre…”; stando a questa logica avrei dovuto fare il pusher! Certo, ho pagato la mia provenienza (hanno cercato di rapirmi da piccolo, ho dovuto interrompere la mia carriera da calciatore…), ma alla fine ho capito che il vero problema stava negli altri, non in me.
CB.Quali sono state le letture o i modelli più importanti per a tua formazione?
PS. Senza ombra di dubbio i romanzi russi dell’ottocento. E naturalmente anche quelli francesi! E malgrado qualcuno possa pensarlo, a sentire il nome “Dante” non mi vengono eritemi, anzi, lo considero un prozio! Quando mio padre leggeva e spiegava Dante, chiedeva moltissimo, in termini di concentrazione, a chi veniva a sentirlo: grazie a lui ne ho imparato la grandezza e la generosità.
CB. Per concludere, vorrei ringraziarti per questa chiacchierata. È stata un’esperienza davvero “opima”. “Opimo”: ti piace questa parola?
PS.Come fai a saperla questo aneddoto: ma allora sei un vero fan! È una parola tipica di mio padre e l’ho riusata in un’improvvisazione. Mi piace improvvisare.
CB. Però non diremo di che video si parla: i tuoi fan sapranno scovarlo!
PS. I miei fan?! Sono sempre felicissimo quando ne incontro uno, ma quando vedo che davvero è preparato sulle battute comincio a recitare di nuovo con lui e… alla fine sono loro a chiedermi di smettere. Sto perdendo fan!
Si ringrazia Elisa Proh per la collaborazione alla realizzazione dell’intervista