Intervista a Laura Luchetti, regista di “Fiore Gemello”
La Redazione
Si è da poco conclusa la VI edizione del MittelCinemaFest 2018 di Praga, festival centro europeo del cinema italiano organizzato dall’Ambasciata d’Italia a Praga, l’Istituto Italiano di Cultura, la Camera di commercio Italo-Ceca, l’Istituto Luce Cinecittà e il cinema Lucerna di Praga. Come ogni anno, il festival propone le principali novità cinematografiche italiane e anche quest’anno sono giunti ospiti nella capitale ceca per presentare i loro lavori ed incontrare il pubblico. Tra questi è arrivata a Praga Laura Luchetti, la giovane regista di Fiore Gemello (2018), l’unico film italiano premiato alla 43° edizione del International Film Festival di Toronto. Fiore Gemello, secondo lungometraggio della regista, racconta la storia d‘amore tra due adolescenti: un immigrato africano, Basim, e la figlia di un trafficante di migranti, Anna, entrambi in fuga da un passato che vogliono dimenticare. Anna e Basim intraprenderenno un lungo viaggio attraverso i paesaggi della Sardegna alla riconquista dell’innocenza perduta e del loro futuro.
La redazione di Cafè Boheme, in collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura di Praga, ha incontrato Laura Luchetti per farle qualche domanda.
Sappiamo che vieni da una famiglia di cantanti d’opera e che sei cresciuta nei teatri, ma il cinema non è stata la tua prima scelta, dal momento che hai deciso di laurearti in scienze politiche ed internazionali; cos’è stato a farti decidere di cambiare totalmente carriera, indirizzandoti verso il cinema?
R: Durante gli studi ho sempre lavorato a teatro, ho fatto l’assistente di palcoscenico, l’assistente di qualsiasi cosa. Ho anche lavorato per tanto tempo come comparsa al teatro dell’opera a Caracalla. Era una cosa che in qualche maniera seguivo sempre. Ho sempre avuto la passione per il cinema. Quando mi sono laureata in Scienze Politiche indirizzo relazioni internazionali con preparazione a quello che poteva essere una carriera diplomatica sono andata in Inghilterra, dove ho fatto il primo cortometraggio, che andò abbastanza bene. Da lì ho iniziato a comporre la mia carriera cinematografica che non avevo. L’ho fatta facendo la gavetta in vari reparti, produzione, suono, montaggio e poi ho girato altri cortometraggi, video ed è nata da lì.
Il tuo percorso universitario, tuttavia, si fa strada nel tuo lungometraggio “Fiore Gemello”, un film che tratta di immigrazione e accoglienza, seppure in un modo molto intimo e specifico. Pensi che sia possibile intravedere la tua opinione a proposito dell’attuale situazione in Italia, in questa tua opera?
R: Io direi che Fiore Gemello non è un film sull’immigrazione, ma è un film il cui protagonista è un immigrato. Sicuramente il mio auspicio è nel film perché la mia speranza è quella di vedere che determinate cose cambino o si sviluppino. È fondamentalmente una storia di amicizia che poi diventa amore ed è la storia di un amore impossibile, che diventa a sua volta necessario per entrambi. L’inserimento di un cattivo, simbolicamente, potrebbe essere un inseguimento di un mondo occidentale nei confronti di coloro che arrivano senza nulla. I protagonisti sono due anime che si incontrano in un cammino completamente deserto, solitario inseguite da quello che potrebbe essere il mal pensare del razzismo, l’abuso. Hanno perso la propria innocenza e la devono in qualche modo conquistare. Paradossalmente la riconquistano con un atto di estrema violenza: risvegliandosi con il diritto di essere adolescenti, di avere un futuro. In un momento come questo è chiaro che il messaggio si presta a mille interpretazioni politiche, però io credo sia politico ormai qualsiasi gesto che facciamo nella vita. Io volevo raccontare una storia di sentimento che andasse al di là del pensiero politico, che poi in fondo lo è. Mi è stato chiesto varie volte in giro per il mondo della situazione italiana e come potessero reagire i politici in Italia, io ho sempre risposto che non è il mio lavoro pensare come possano reagire e che non mi sento all’altezza di lanciare messaggi. L’unica cosa che posso trasmettere è la mia visione del mondo, che alla fine del film traspare e si capisce molto bene come la penso.
Cambiamo ora argomento e passiamo ad un tema che sappiamo esserti caro, e cioè il cinema “in rosa”: sei stata l’unica regista donna tra gli autori italiani selezionati alla 43/a edizione del Toronto International Film Festival. Cos’è che blocca le donne nella strada verso il successo, nel mondo del cinema?
R: Vorrei scavalcare questa domanda rispondendoti così. Io credo moltissimo nel lavoro, nella serietà e anche nella cocciutaggine. A forza di insistere, se lo si fa seriamente ed onestamente, la strada si trova. È quello che stiamo facendo, portando anche delle storie che si autocensurano molto meno. Per una donna è già tanto difficile farlo e già che ci siamo scegliamo storie che non sono proprio semplicissime da raccontare. Non posso parlare a nome delle mie colleghe, ma vedendo anche i film e le scelte che fanno le cose stanno cambiando. È chiaro che ci sarebbe bisogno di un aiutino per partire tutti dallo stesso punto ed è chiaro che questo aiuterebbe a sviluppare carriere simili. Le cose stanno cambiando, l’importante è che continuiamo a lavorare con la caparbia e l’intelligenza che contraddistingue molte donne. Il lavoro del regista anche fisicamente è abbastanza “forte” perché le ore fuori sono tante, e il freddo, il caldo, e se uno ha dei figli diventa complicato. Ridendo Paul Newman diceva che il cinema è per persone che hanno un fisico speciale, in un certo senso è vero, ma anche quella la parte molto bella. Io non ho dubbi che la situazione sta cambiando e come ho già detto parecchie volte, all’interno delle scuole di cinema italiane ci sono molte più iscritte donne ai corsi. Con il tempo le cose cambieranno, bisogna essere ottimisti. Io sono molto ottimista, a volte cerco di non vedere le difficoltà perché è il mio modo di superarle.
Parliamo ora di un aspetto molto interessante dei tuoi film. I protagonisti di “Fiore Gemello” sono ragazzi “presi dalla strada”, scelti per avere un vissuto che potesse somigliare a quello dei loro personaggi. Anche nel tuo primo lungometraggio, “Febbre da Fieno”, il protagonista Andrea Bosca ha confermato che molto del suo personaggio è stato tratto dal suo personale. Com’è stato lavorare con due attori che non sono dei professionisti? Qual è stata la tua esperienza?
R: Mi fa molto piacere che tu abbia parlato di Andrea perché è una delle persone a cui io tengo di più, è diventano per me quasi una specie di fratello. Io mi definisco un sarto, una volta deciso e trovato il tessuto sul quale lavorare mi piace tanto cercare di cucire il vestito addosso alla persona che ho davanti. L’ho fatto con Andrea nel primo lungometraggio e anche con Anna e Basim in Fiore Gemello. È stato un debutto anche per me lavorare con non-attori ed è stato abbastanza complicato sia dal loro punto di vista che dal mio, in quanto non l’avevo mai fatto. Ho dovuto trovare un modo per tirare fuori quella parte viva che hanno entrambi data dal loro vissuto. Anche Anna è un’immigrata, arrivò in Italia all’età di quattro anni. Quella difficoltà del viaggio, di essere arrivata in Italia ce l’ha addosso. Possiamo definirli animaletti fatti d’istinto, sanno perfettamente come giostrarsi un ambiente nuovo ed era quello che io stavo cercando perché sono due che scappano e devono capire immediatamente se c’è pericolo o no. Non sono due ragazzi “normali” che il sabato pomeriggio vanno al centro commerciale a vedere un film, ma sono due survivor e piano piano da un canovaccio di storia, abbiamo costruito attorno a quelle che erano le loro fisicità, capacità espressive o reattive, i due personaggi. In realtà inizialmente per il personaggio di Anna io cercavo tutt’altra fisicità, ma quando lei è arrivata, non poteva che essere lei. Sono molto bravi a recitare, Kalill (Basim) era scappato dalla Costa d’Avorio da una situazione molto difficile perché voleva fare l’attore. Aveva questo grande sogno e quando io l’ho incontrato era arrivato da tre/quattro mesi in Italia. Leggendo la storia mi ha detto “questa è praticamente la mia storia, come fai a saperla?”. Ho intervistato migliaia di questi ragazzi. Io non volevo che parlasse l’italiano, ma esattamente come parlava lui quando era arrivato in Italia.
Che cosa stanno facendo adesso questi ragazzi?
R: Lei ha fatto un altro cortometraggio, so che qualcuno l’ha richiesta anche per un lungometraggio. Inoltre è entrata a far parte di una compagnia teatrale, sta facendo spettacoli e si è diplomata. Anche lui sta lavorando nel teatro e sta studiando ed in più gioca a calcio e sta aspettando i documenti per iniziare finalmente una nuova vita in Italia.
Alla luce di questo aspetto di cogliere la personalità degli attori che poi interpretano i tuoi personaggi, tu dai una definizione del tuo cinema, ad esempio lo definiresti un cinema simile “al documentario” oppure un cinema simile al “filone realista”?
R: Io mi definisco un regista “naturalista” perché mi piace immergermi sia nella natura tout court che nella natura umana. Mi piacciono le cose minuscole che fanno la differenza. Ad esempio in questo film abbiamo passato molto tempo a cercare le libellule, le formiche che sono gli esseri più piccoli, come lo sono i miei protagonisti che fanno la differenza. Ho passato tanto tempo a cercare il rumore delle zampe delle formiche (il mio fonico mi ha odiata) perché era importante per me. Sono affascinata dalla natura, dalla campagna. Era importante che due esseri piccoli alla fine riuscissero a fare una differenza, come Anna e Basim hanno fatto nel film. Ho voluto metterli nella natura, nelle saline perché è proprio nella natura che siamo tutti uguali. È solo nella città, in un contesto urbano che fa la differenza in quale quartiere si vive, cosa e chi si frequenta, ma in un bosco siamo tutti uguali. Per questo motivo mi piace ambientare le storie in un ambiente naturale, io ne sono affascinata. Forse mi capiterà girare in un contesto Iper urbanizzato, però d’istinto mi piacciono le storie campestri.
L’intera storia si svolge sullo sfondo di una Sardegna arida e desolata, che offre nascondiglio agli emarginati ma impedisce anche ogni via di fuga; sicuramente diversa da qualunque cliché. Perché la scelta di ritrarre questa terra a tinte così cupe?
R: La Sardegna è una bellissima madre severa ed ha una bellezza dolce, ma può essere anche aspra. È terribilmente affascinante e con una necessità di essere conquistata prima di regalare poi il meglio di sé. Sono molto grata alla Sardegna e ai sardi che mi hanno fatto fare un film diverso, che altrimenti non avrei potuto fare. Era necessario trovare questo ambiente che li proteggesse, che avesse una bellezza specifica, ma che non era ovvia. In Sardegna c’è una convivenza con l’immigrazione da esempio perché gli immigrati arrivano in questa piccola isola che si chiama sant’antioco dove noi abbiamo girato. Sant’antioco era un martire dei romani, un cristiano, medico di colore. Quindi il santo protettore di metà Sardegna era questo medico di colore che veniva dal Nord-Africa. La storia parte proprio da lì, dove ogni giorno avvengono sbarchi ed è un posto non ovvio.
Che legame hai adesso con la Sardegna?
R: Adesso fortissimo, sono quasi considerata Sarda, spero che mi vogliano ancora e mi auguro di fare altre cose perché ho trovato un posto che non conoscevo e una lealtà lavorativa e amichevole incredibile. I sardi sono di una bellezza unica e io sarò sempre grata a questa terra, che è la quarta protagonista del film. Questo non lo dico solo io, ma se ne sono accorti tutti. La Sardegna diventa quello che io ho chiamato la geografia dell’anima perché è sì Sardegna, ma potrebbe anche essere Gibilterra, Cipro, insomma tutti i posti dove avvengono queste cose.
Il cinema nella società odierna è sicuramente uno dei mezzi di comunicazione più d’impatto; tu credi che i film debbano avere anche una funzione educatrice, o debbano limitarsi ad essere pura espressione artistica della visione del regista?
R: Ci sono secondo me varie funzioni del cinema, sono un po’ come i ristoranti. Non si va sempre al ristorante per essere nutrito, ma anche per essere allettato, per conoscere dei gusti diversi, per essere scioccato. In ogni posto che decidi di andare hai una fruizione diversa. Il cinema è intrattenimento, da cui si esce estremamente leggeri, il cinema è emozioni forti, ad esempio dopo un horror esci terribilmente spaventato, oppure emozionato dopo un film d’amore. Io credo fondamentalmente che il film rispecchi le quattro/cinque funzioni primitive per l’essere umano: io vado per divertirmi, per commuovermi, per avere paura o per ridere a crepapelle o per imparare qualcosa. Sono dell’idea che la bellezza nel cinema sta proprio nel fatto che ogni film ha una sua funzione che in quel momento è necessaria alla persona che sceglie di fruirne. La bellezza è proprio questa; puoi passare da un film documentaristico sull’amazzonia a un film di grandissimo intrattenimento. Il film secondo me deve essere onesto con le aspettative che crea.
A prescindere dalla definizione che vogliamo dargli, si può dire che i tuoi film abbiano uno stampo visibilmente realista: quali registi di questo filone ti hanno ispirata maggiormente per i tuoi lavori?
R: Io guardo tutto, sono onnivora. Sono una grande amante di Elio Petri, poi Fellini, Bolognini, i nostri capisaldi. Amo alla follia Kubrick, mi piace Ramsay, la Rochrwacher. Io guardo un po’ tutto, anche l’animazione ad esempio. La bellezza è quella di riuscire ad innamorarsi ogni volta di qualcosa in ogni film.
Stai già lavorando ad un nuovo progetto?
R: Ce ne avevo due o tre in mente, ma non riuscivo a decidermi. Circa dieci giorni fa sono stata illuminata. Si tratta di una storia che voglio raccontare da vent’anni e proprio la settimana scorsa credo di aver capito in che direzione devo andare. Inizia con una corriera in mezzo alla campagna infinita, un lago, un bosco ed è una storia di fede.