Jacopo Cullin, attore e regista cinematografico italiano è stato tra gli ospiti presenti alla VI edizione del Mittelcinemafest svoltasi a Praga dal 29 novembre al 5 dicembre, per poi fare tappa successivamente nelle città di Brno e Ostrava. Il Mittelcinemafest è diventato ormai un appuntamento fisso in Repubblica Ceca, organizzato dall’Istituto Italiano di Cultura, Ambasciata d’Italia a Praga, la Camera di Commercio Italo-Ceca, l’Istituto Luce di Cinecittà e in collaborazione con numerosi partner.
Jacopo Cullin è il protagonista del film “L’uomo che comprò la luna” (2018) diretto da Paolo Zucca, uno dei film scelti alla Festa del Cinema di Roma ad ottobre. Si tratta di una commedia “etnica” ambientata in Sardegna con i suoi paesaggi rurali fuori dal tempo e rimandi alla cultura sarda con cui il protagonista dovrà confrontarsi. Un pescatore sardo ha promesso la Luna alla donna che ama e i sardi le promesse le mantengono. Quando la notizia arriva in un’agenzia per la sicurezza atlantica, l’agente Kevin (Jacopo Cullin) si occuperà del caso. Una commedia inedita, tra il grottesco, il comico e il surreale che sta riscontrando notevole successo, in particolare all’estero.
Noi di Cafè Boheme in collaborazione con l’istituto di Cultura abbiamo avuto l’occasione di incontrare Jacopo per fargli qualche domanda.
Parliamo prima di tutto dei tuoi esordi. Sappiamo che hai frequentato degli stage di recitazione in Sardegna già a partire dal 1998, quindi la tua passione per questo mestiere dev’esserti stata ben chiara fin da quando eri ragazzo. Ma da dove nasce di preciso? C’è qualcuno che ti ha spinto ad avvicinarti al mondo del cinema?
R: No, nessuno in realtà, semplicemente avevo la passione di imitare le persone, cercavo di impersonare gli altri per far ridere la mia classe. E poi guardavo moltissimi film tipo Fantozzi; l’ho guardato talmente tante volte che non ridevo più, tant’è che mia madre pensava di avere un figlio scemo, mentre forse stavo solo assorbendo tutto. Credo che la mia sia una passione innata, non è qualcosa che mi è stato trasmesso.
Cosa comporta per un attore italiano recitare in commedie singolari come “L’uomo che comprò la luna”, in un paese che vede sul podio le grandi commedie commerciali?
R: Beh, noi in realtà speriamo di scardinare un po’ questo meccanismo che si è creato non solo in Italia, ma in tutto il mondo, perché le commedie commerciali più grosse vanno a colpo sicuro, funzionano secondo meccanismi che hanno già avuto successo in passato e per questo vengono riproposti, anche se in salse diverse. La nostra è una commedia totalmente originale con un cast internazionale: mi sono ritrovato a lavorare con la Molina, che parla spagnolo, e con Lazar Ristovski, che recitava in serbo mentre io gli rispondevo in italiano, quindi questo film è già internazionale di suo. L’abbiamo portato un po’ in tutto il mondo: Corea, Budapest, Ajaccio, Tolosa… e sta avendo consensi dappertutto, quindi forse c’è anche voglia di una commedia un po’ diversa dalle solite.
Questo è il secondo lungometraggio in cui reciti sotto la direzione di Paolo Zucca, dopo “L’Arbitro”; che rapporto hai col regista? Cosa pensi l’abbia colpito in te da volerti una seconda volta?
R: Perché sono molto bravo, credo [ride]. No, in realtà c’è un rapporto di stima reciproca, Paolo è una delle poche persone realmente oneste che conosco, se gli piace una cosa te lo dice senza invidia, e se non gli piace è molto chiaro e diretto, che è una cosa che a me piace moltissimo perché mi interessa crescere e migliorare, e per farlo bisogna essere onesti con gli altri. Con tatto, ovviamente. Di Paolo mi piace la schiettezza, lui si fida totalmente di me e io mi fido del suo sguardo dietro al monitor. Siamo riusciti a creare qualcosa di buono con “L’Arbitro”, speriamo di aver fatto la stessa cosa con questo film.
Oltre che attore, hai già lavorato anche come regista per diversi cortometraggi (“Good Friends, Buio, Grazie a te!”); ti è mai capitato di essere in disaccordo con le idee di Paolo?
R: Diciamo che abbiamo discusso: talvolta lui aveva delle idee molto chiare che però io non riuscivo a rendere, allora avanzavo altre proposte che analizzavamo insieme per trovare la strada giusta. Si migliorava grazie al dialogo.
Spesso gli attori italiani seguono corsi di dizione per poter “cammuffare” il loro vero accento, o anche per imparare accenti diversi dal loro; vista la forza dell’accento sardo, pensi che uno studio del genere potrebbe darti maggiori possibilità lavorative (come attore) o minerebbe l’unicità dei tuoi personaggi?
R: No, al contrario, credo che sia fondamentale. Anche io li ho fatti: ne “L’Uomo che comprò la luna” per il primo quarto di film parlo milanese, poi parlo un dialetto sardo che tra l’altro non è il mio, non lo conosco ed ha un accento totalmente diverso. In Sardegna cambiamo accento ogni 5 km, più o meno, anche se tutti credono che l’accento sardo sia uno solo..! Questo tipo di corsi è fondamentale perché la dizione ti mette a disposizione una tela bianca su cui disegnare nuovi personaggi.
E tu, nella tua vita, hai mai sentito il “bisogno” di mascherare il tuo accento e le tue origini, come succede a Kevin, il tuo personaggio, per adattarti ad un contesto diverso?
R: Sì, inizialmente sì. Quando vivevo a Roma e avevo 25 anni, ancora non avevo capito cosa volevo essere nel mondo e fingevo un po’. Non dico che rinnegassi le mie origini, ma ho fatto un po’ il percorso che ha fatto Kevin nel film: rinnega le origini, che però poi finiscono per emergere con prepotenza perché esistono dei valori importanti per ogni essere umano. Io fingevo di essere qualcun altro. Adesso ho capito che posso essere sardo e posso andarne fiero.
Tra i film presenti al MCF di quest’anno, la Sardegna è una presenza forte, quasi protagonista, per più di un regista (Zucca e Lucchetti), e soprattutto viene presentata in una chiave diversa dal tipico stereotipo di isola favolosa prettamente turistica. Cosa ne pensi di questo nuovo ritratto della tua isola?
R: Mi piace, perché è un lato della Sardegna che la gente non conosce ma che esiste. C’è di tutto, mentre la Sardegna di solito viene intesa o come Porto Rotondo, o come entroterra chiuso, che è poi come la presentiamo noi nel film, dove forse per la prima volta ci prendiamo in giro con autoironia e riusciamo un po’ ad aprirci verso il resto del mondo.
E tu hai una visione più romantica o più disillusa della Sardegna?
R: Romantica, molto romantica. Ci sono tornato a vivere sperando che possa essere la mia base: ho girato, sono stato a Roma, New York, Parigi…, però Cagliari ha una qualità di vita che non ho trovato da nessun’altra parte. Per questo spero possa diventare il set di tanti film, anche senza essere per forza rappresentazione della Sardegna.
Sappiamo che, nella tua carriera, i personaggi che hanno avuto più successo sono ispirati a figure realmente esistite, ma che sono note principalmente al popolo sardo, e anche “L’uomo che comprò la luna” è carico di rimandi alla cultura sarda; come ti spieghi il grande successo che sta avendo in tutto il mondo un film così legato ad una tradizione relativamente limitata e circoscritta?
R: Non me lo spiego! In realtà, da un lato credo sia per la storia di Davide e Golia, che qui sono Sardegna e Stati Uniti, i quali vogliono attaccare questo pescatore, che ha semplicemente promesso la luna a sua moglie. Credo che il suo successo stia nel fatto che la visione romantica del mondo ce l’abbiamo un po’ tutti, solo che la nascondiamo perché abbiamo paura di essere deboli, allora preferiamo essere più cinici. Credo che questo film faccia riaffiorare un po’ di romanticismo che c’è in ognuno di noi.
Interpretare personaggi così legati alla tua cultura deve riuscirti piuttosto “spontaneo” da un punto di vista di atteggiamenti, modi di fare, conoscenza della tradizione.. Ma quanto, dei tuoi personaggi, è tratto dal tuo stesso carattere, e quanto invece è pura recitazione di uno stereotipo?
R: Beh, in Kevin Pirelli, a parte il percorso simile, non c’è assolutamente niente di me. È un personaggio nato da una preparazione fatta insieme al regista, dove abbiamo cercato di capire fino a che punto potesse essere scemo. Doveva essere prima di tutto divertente, quindi abbiamo creato un look “filoamericano” col suo modo di muoversi e di pensare, per poi poter mostrare la sua trasformazione totale in quella fissità tipica del centro Sardegna: schiena ben dritta, non ci si piega davanti a nessuno. C’è stato uno studio vero e proprio della camminata, dei movimenti e, ovviamente, del dialetto di cui ho già parlato.
Ma i capelli li hai ossigenati davvero?
R: [ride] Noo, è una parrucca! Quando l’ho messa per la prima volta abbiamo riso per un quarto d’ora buono senza respirare, e allora abbiamo capito che era quella giusta.
Al giorno d’oggi, la possibilità di spostarsi con estrema facilità, per piacere o per necessità, ci hanno portato ad essere “cittadini del mondo”, e questo comporta spesso, soprattutto per i giovani, un rifiuto o una vergogna delle proprie origini, in particolare quando si viene da piccoli paesi molto legati a tradizioni storiche. Tu sei un sardo “puro”, ma la tua professione ti ha portato a conoscere molte realtà diverse; come si può trovare un equilibrio tra la necessità di adattarsi a contesti diversi e quella di conservare la propria identità più profonda?
R: Io credo che chiunque senta la necessità di provare qualcosa “fuori”, confrontarsi, aprirsi, anche per capire l’altro e la sua cultura e sapere cos’altro c’è nel mondo al di fuori di Cagliari, per dire.. Mantenere le mie radici per me è stato un problema soprattutto quando ero a New York, molto lontano da casa: quando rinneghi le tue radici cerchi di andare molto veloce, perché ti senti anche più forte, ma al primo treno in faccia ti trovi senza appigli. Ragionandoci, capisci che sono le tue origini e i valori che ti insegna la famiglia. Cercare di mantenerli vivi a prescindere dal luogo in cui vivi ti può aiutare. O almeno, a me ha aiutato.
La passione e l’impegno ti hanno portato a diventare attore, cabarettista e regista, le soddisfazioni sono state tante. Hai qualche altro obiettivo in particolare?
R: Sì, un obiettivo ce l’ho: voglio vincere l’Oscar. Non tanto per soddisfazione personale, ma per poter ringraziare i miei amici, mia madre e tutte le persone che mi hanno aiutato davanti a tutti, in un’occasione molto importante. Un obiettivo più vicino e più piccolo, che in realtà è enorme, è fare il mio film, che ho già scritto e ora sto aspettando che parta.
Ci puoi svelare qualcosa a riguardo?
R: Diciamo che ne abbiamo già parlato: il film tratterà di nuove generazioni e del fatto che non ci sia niente di saldo e sicuro, che è un’analisi che faccio da anni e alla fine l’ho messa in sceneggiatura, concentrandomi soprattutto sui rapporti, di amicizia ma prevalentemente di coppia. Ho analizzato il modo in cui i social network, la tv, i telefonini, ecc. influenzano i rapporti da quelli tra i più giovani a quelli tra anziani. Perché credo che un po’ ci si ritrovino tutti in questo argomento.
Monica Falaschi, Giordana Giacomello.