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Intervista a Helga Weiss, sopravvissuta all’Olocausto e autrice del successo internazionale “Il Diario di Helga”

L’edizione italiana del “Diario di Helga. La vita di una ragazza nei campi di Terezín e Auschwitz”, tradotto per Einaudi da Letizia Kostner, è nell’ordine la tredicesima traduzione di questa testimonianza di una ragazza sopravvissuta all’olocausto. Il 27.1.2014, in occasione del Giorno della Memoria delle vittime dell’Olocausto, presso l’Istituto Italiano di Cultura di Praga si è tenuto un incontro al quale ha partecipato, oltre alla signora Weiss e alla traduttrice, anche lo scrittore e drammaturgo Ivan Klíma, un altro testimone del folle sterminio degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale. Abbiamo avuto la possibilità di intervistare la signora Weiss su quei tragici eventi la cui memoria andrebbe sempre rispettata per evitare in futuro simili catastrofi.

Il suo diario è stato tradotto in 13 lingue, oltre al ceco. Come si spiega tutto questo interesse dopo quasi 70 anni da quegli eventi?

 Un po’ mi ha sorpreso perché ci sono molti diari di questo tipo, davvero non mi aspettavo che avrebbe suscitato tanto interesse. Forse ciò è dovuto al fatto che gli altri diari descrivono soprattutto le cose orribili che succedevano, al contrario io esprimo soprattutto i miei sentimenti. Non descrivo gli orrori, per questo il diario è più emotivo e forse questo aiuta le persone ad immedesimarsi meglio nella situazione.

Ha trascorso 3 anni nel ghetto di Terezin, prima di essere deportata ad Auschwitz, poi a Freiberg e quindi a Mathausen. Di certo Terezín era qualcosa di diverso rispetto agli altri campi di concentramento. Nelle pagine del suo diario Terezín è descritta anche nella sua normalità, se così si può dire: i festeggiamenti, le serate, il teatro, le amicizie, gli amori. Come era possibile tutto questo?

Questo perché Terezin era un ghetto, di fatto era comunque un campo di concentramento, ma era anche un ghetto modello che serviva per la propaganda nazista. È per questo motivo che rispetto agli altri campi di concentramento la vita lì era più semplice. Organizzavamo queste cose soprattutto perché volevamo rimanere delle persone, quello che succedeva non era normale ma noi volevamo rimanere normali. Naturalmente tutti gli ordini arrivavano dai tedeschi, ma noi non entravamo in contatto con le SS, loro potevano arrivare in qualsiasi momento per controllare qualsiasi cosa, ma la gestione spettava al consiglio degli anziani della comunità ebraica e questo ci garantiva un po’ di libertà.

A Terezín i suoi disegni hanno smesso di essere i disegni di una bambina per diventare testimonianza, documentazione. Ci racconta come è accaduto?

Mi piaceva disegnare sin da quando ero piccola, per questo mi portai dietro dei colori. Quando arrivai nel dicembre 1941 avevo circa 12 anni. Ci divisero subito, uomini e donne a parte, e così ci spedivamo tra le caserme maschili e quelle femminili delle lettere, fu allora che feci il primo disegno, dei bambini che fanno un pupazzo di neve, quando mio padre lo vide mi disse di disegnare quello che vedevo. Per me questo disegno è molto importante, ritengo che sia una pietra miliare tra l’infanzia e l’età adulta, perché di fatto era il mio primo disegno a Terezin, ma in realtà era l’ultimo disegno realmente infantile. Da quel momento, su consiglio di mio padre, iniziai a descrivere la vita di tutti i giorni.

Come si vive da reduci dell’Olocausto? C’è qualcosa di speciale che lega voi sopravvissuti, di cosa parlate quando vi vedete? Come vivete insieme questo passato?

È un legame profondo. Le amicizie nate allora sono eterne. Anche se dopo la guerra ci siamo sparpagliati per il mondo, questi legami sono rimasti e quando ci incontriamo li sentiamo in modo molto forte. Quando ci incontriamo parliamo delle cose di tutti i giorni, siamo vecchi, parliamo quindi delle famiglie, dei nipoti, guardiamo le fotografie dei nipoti, dei pronipoti, ma alla fine ogni discussione finisce in quel lager. Siamo sempre là, ci ritorniamo continuamente. Ma non ci raccontiamo gli orrori, li conosciamo tutti, ma, appunto, ricordiamo magari anche quei bei momenti che vi abbiamo vissuto. Ad esempio i primi amori e così via. Il dolore è ancora vivo, e anche se ognuno di noi oggi vive la propria vita normale, questa esperienza ci tiene ancora insieme e ci riporta sempre lì.

Come è stato ricominciare a vivere dopo questa tremenda esperienza?

È stato molto difficile. È proprio quello che ci lega a dividerci dagli altri. All’inizio provavamo a parlarne, ma nessuno riusciva a capirci. Siamo semplicemente diversi e siamo segnati da quello che abbiamo vissuto. Quando sono tornata al ginnasio avevo 15 anni, all’improvviso le preoccupazioni di quei ragazzi mi sembravano ridicole, mi pareva di essere più vecchia anche degli insegnanti che avevamo. Era difficile. Io ebbi la fortuna di tornare con la mamma, addirittura potemmo tornare nel nostro appartamento, anche se naturalmente tutto quello che c’era era stato portato via, ma forse non è un bene che siamo tornati, c’erano troppi ricordi.

Le è capitato di scontrarsi con l’incomprensione verso quello che ha vissuto? Oppure con il rifiuto?

In poche parole le persone non riuscivano a capire, per questo più tardi abbiamo smesso di parlarne con le persone che non avevano vissuto questa tragedia, perché loro paragonavano la propria situazione alla nostra e questo naturalmente non aveva senso.

So che è una domanda molto personale, ma lei crede in Dio?

Mi fanno spesso questa domanda. Non sono molto credente, né particolarmente religiosa, ma non direi di non credere in niente. Mi ricordo, e lo descrivo anche nel diario, quando eravamo di fronte ai soldati delle SS che ci dividevano a destra e a sinistra, in quel momento cominciai a pregare e a chiedere aiuto al Signore. C’erano poi molte persone credenti che persero la propria fede in Dio, è comprensibile perché si dicevano che se Dio esistesse non potrebbe tollerare tutto ciò. Ma so anche di persone che non credevano affatto, forse sono una di queste, ma nei momenti peggiori si sono rivolte al Signore, quindi anche se non sono molto incline alla religione, credo però in qualcosa.

Un’altra domanda non semplice: pensa che sia possibile perdonare?

Mi fanno spesso anche questa domanda. Io non so perché si dovrebbe perdonare. Prima di tutto sono loro a doversi pentire, ma non lo fanno, e nemmeno si scusano, e allora perché dovrei perdonare qualcuno che non si vergogna di quello che ha fatto. Non è quindi possibile dimenticare, non c’è motivo di perdonare.

Le fa un effetto particolare essere tradotta anche in tedesco?

È una domanda interessante. Spesso capita a noi sopravvissuti dell’Olocausto di parlare con gli studenti e di essere invitati in vari paesi, naturalmente ogni paese è diverso, ma parlare con i figli di quelle persone è qualcosa di particolare. Per loro è una situazione difficile, a volte mi capitano anche situazioni commoventi. Per molto tempo non volevo andare in Germania, perché ci vivevano ancora le persone che hanno preso attivamente parte a questa tragedia, non volevo incontrarli. Mi ci sono voluti più di 40 anni per superare la frontiera della Germania, non sapevo nemmeno il tedesco, soltanto negli ultimi anni l’ho imparato. Oggi in Germania vive già la terza generazione ed è interessante notare che questa generazione ha iniziato a interessarsene, una volta mi è capitato addirittura che un giovane ragazzo venne da me e mi disse: “Ho saputo che mio nonno era nelle SS, me ne vergogno e le chiedo scusa per questo”. Sono momenti molto intensi. Io rispondo loro con le parole di Wiesel, “voi non siete responsabili di quello che è successo, ma dovete conoscere il passato perché siete responsabili del vostro futuro”. Quindi è questo il mio rapporto con la Germania odierna. Non sono così ingenua da pensare che queste cose non esistano più, esistono ancora, ma forse c’è la speranza che in un futuro spariranno.

Pensa dunque che le nuove generazioni abbiano un approccio diverso a questo tema? Dimostrano maggiore interesse e maggiore comprensione rispetto a quelli che erano più vicini a quegli eventi?

Sicuramente se ne interessano di più, perché in passato non se ne parlava per niente, ad esempio durante il comunismo in Cecoslovacchia non se ne parlava volutamente, e così le persone non ne sapevano niente, soltanto la seconda e ora la terza generazione hanno iniziato ad interessarsene.

L’intervista è stata realizzata in collaborazione con Letizia Kostner.

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