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Intervista a Folco Terzani, a Praga per la traduzione in ceco del libro di Tiziano Terzani “Un altro giro di giostra”.

7L’Istituto Italiano di Cultura di Praga ha ospitato il 12 maggio scorso un evento dedicato alla figura dello scrittore e giornalista Tiziano Terzani. L’incontro si è tenuto in occasione della traduzione in ceco del libro “Un altro giro di giostra – Ještě jedna jízda na kolotoči” (Malvern edizioni) ed è stato preceduto dalla proiezione del film “Anam il senzanome“ (2004), l’ultima intervista rilasciata dall’Autore al regista Mario Zanot e trasmessa dalla RAI. Al successivo dibattito hanno preso parte i traduttori dell’opera, Jakub e Michal Hankiewicz, e Folco Terzani, figlio del celebre scrittore, il quale ha sottolineato come la grande attenzione del pubblico dell’Est Europa verso le opere paterne rientrano in quel filone di rinascita della spiritualità sviluppatosi col post-comunismo nei Paesi dell’ex blocco sovietico. Nella narrazione dei numerosi insegnamenti ricevuti dal padre, Folco si è soffermato sull’importanza della maturazione interiore di ciascun individuo, un percorso che deve progredire libero da imposizioni e da condizionamenti esterni. “Fai una vita in cui ti riconosci, devi essere padrone di stesso, anche nella malattia”, sono le parole con cui un Tiziano Terzani sorridente ha salutato il figlio poco prima di spegnersi il 28 luglio del 2004 nel suo rifugio di Orsigna, sull’Appennino tosco-emiliano.

Noi di Cafeboheme.cz  abbiamo incontrato Folco Terzani per fargli qualche domanda.

 

C.B.: Caro Folco, prima di tutto, ti faccio una domanda che sicuramente ti hanno fatto in tanti e che spesso si fa ai figli dei “nomi famosi”: Un cognome così importante e l’eredità di tuo padre possono essere un’arma a doppio taglio, come hai vissuto personalmente il confronto con una personalità come quella di tuo padre Tiziano?

F.T.: Prima non era per nulla importante  quel cognome, intanto Terzani vuol dire che siamo sempre terzi, per cui non è che andiamo da nessuna parte… e poi, mio padre non era tanto famoso in vita, cioè lo era un pochino, tra gli intellettuali, tra chi leggeva i giornali, poi verso la fine era più conosciuto, però lui era sull’Himalaya, per cui era talmente lontano da quella cosa, che noi non l’abbiamo mai vissuta, perché anche noi eravamo sempre in giro per il mondo, per cui non mi ha mai dato fastidio devo dire. Ciò è buffo, perché alla fine è sempre il tuo babbo; però poi dopo, dopo la morte, mentre di solito vengono i vermi e ti mangiano, lui invece dopo la morte è cresciuto, è cresciuto, le mani, i piedi, tutto è cresciuto dopo la morte, per cui ora ha più effetto di prima no? Ma a volte è anche piacevole, per esempio, se io entro in un ospedale in Italia, allora il cognome lo riconoscono subito, perché i medici sono interessati, appunto per “Un altro giro di giostra” e cose del genere, mentre prima era più una cosa giornalistica. Negli ospedali dunque, ma a volte è buffo, succede anche quando devi cambiare una linea telefonica, e trovi l’operatore che ha letto uno dei libri, insomma le persone più impensabili hanno letto i suoi libri e ti riconoscono per via del nome.

C.B.: Da “Lettere contro la guerra”, quello che poi diventò un po’ il manifesto del movimento pacifista, sono passati più di dieci anni, eppure oggi il mondo sembra ancora più vicino ad un conflitto mondiale, forse ancora più di prima, l’essere umano è davvero incorreggibile o abbiamo ancora motivo di nutrire speranza? Lo so che è una domanda strana, ma secondo te, cosa scriverebbe oggi tuo padre a proposito?

F.T.: È interessante come le “Lettere contro la guerra” siano ancora attuali, perché il conflitto non si è ancora risolto, ma ci stanno i terroristi appunto e ne crescono altri. Credo che quella strada che un po’ lui indicava, e cioè che prima di tutto dobbiamo cambiare noi stessi, sia la cosa da fare, perché davvero se si affrontano dei problemi troppo grossi, tendiamo ad opprimerci e dire che l’essere umano fa schifo, è inutile fare niente, mentre bisogna prima dire “anche io faccio schifo per cui intanto cerco di fare un pochino meno schifo, prima cerco di cambiare me stesso” e quello almeno è un progetto fattibile, insomma bisogna ridurre i progetti a cose che si possono fare, sicché lavorare su se stessi era anche la conclusione a cui era arrivato mio padre e che proponeva, mentre appunto da giovane era per le rivoluzioni e le cose grandi, ma quelle funzionano fino ad un certo punto, quindi meglio poi ritirarsi, trovare il silenzio, prendere del tempo per cambiarsi e penso che adesso insisterebbe su quello. Anche io sarei stato interessato a cosa avrebbe fatto se avesse continuato su quel filone pacifista perché c’era bisogno di una voce così. Le “Lettere contro la guerra” mi hanno veramente sorpreso quando sono uscite, non riconoscevo la persona che scriveva, era diventato un’altra persona, attraverso quelle esperienze in Himalaya e quelle ultime in India, poi con la morte, lo hanno aiutato a fare molto rapidamente quel percorso che è stato così importante per lui.

C.B.: Al di là delle testimonianze lasciate nei libri di Tiziano Terzani, credo che uno dei lasciti più importanti di tuo padre sia stato il modo in cui e la serenità con cui egli ha poi affrontato la malattia, diciamo la morte in generale, e soprattutto la scelta di aver rifiutato quello che poteva essere un accanimento terapeutico nei confronti della malattia. Come ha influito sulla vostra famiglia la scelta di tuo padre di rifiutare le cure?

F.T.: Noi eravamo molto contenti, perché noi abbiamo vissuto sempre così, cioè alla fine bisogna rendersi conto, anche se siamo sposati, mariti e mogli, figli e genitori, che alla fine ognuno ha il proprio percorso della propria anima e quello è il solo, e poi alla fine se ci si vuole bene, uno deve aiutare l’altro a sviluppare al massimo la propria vita. E allora quando si vedeva che lui aveva bisogno di andare da solo, si capiva benissimo cosa voleva dire, cioè la sua morte se la deve affrontare da solo e se vuole farlo così, andando su in cima all’Himalaya ben venga…Io ero interessatissimo alla direzione che stava prendendo, perché è emozionante vedere un genitore che si inventa una nuova vita così, invece di fare il giornalista, andare a vivere in quel posto in capo al mondo, dove non si riusciva neanche più a sentirlo, perché non c’aveva il telefono né nulla, sicché se io dovevo parlare con babbo, dovevo andare fin lassù in cima, e l’ho fatto due volte, andare in India, l’aereo, poi il treno, poi andare a piedi attraverso la foresta per andare a trovarlo. Però vedevo che stava veramente cercando di trasformarsi e stava proprio cambiando, per cui l’abbiamo vissuto bene e anzi lo incoraggiavamo in questa cosa, mi piaceva. A volte l’altra gente era un po’ scettica: “l’indo l’è il tuo babbo, l’é sempre sulla “mayala!”, sai era l’Himalaya, ma insomma c’era un po’ questo doppio senso, e il dubbio, ma come mai la famiglia è qui e lui è là? Ma se a uno gli vuoi bene, gli lasci fare quello che vuole fare, però veniva visto anche a volte un po’ strano, cioè si chiedevano “come mai è solo?”. E poi però appunto è tornato per morire in famiglia. Questo anche è stato bellissimo e cioè che quell’antica usanza è ancora possibile, mentre oggi siamo talmente distratti dalle sirene che non riusciamo più a prendere in mano il nostro corpo e dal casino dell’ospedale che è un posto completamente nuovo che ci sconvolge, lui è riuscito a tornare a casa e stare sul suo letto e aspettare che tutta la famiglia fosse presente, fino al nipote che viveva a New York, e il giorno dopo che è arrivato il nipote  è morto; è bello vedere che questo è possibile, che basta prendere coscienza e siamo capaci a quel livello di controllare il nostro corpo e la nostra coscienza.

C.B.: Cosa ti ha insegnato soprattutto tuo padre?

F.T.: Beh prima mi ha insegnato a vivere e poi mi ha insegnato a morire; ma il mezzo, la cosa molto bella che mi è piaciuta, è quando mi diceva “fai la vita che vuoi te, fai una vita in cui ti riconosci”. Era molto bello e capivo cosa voleva dire, cioè alla fine arriverà il momento che stai lì e stai per andare e ti guarderai indietro e ti dirai “l’ho fatta o non l’ho fatta? Era la mia vita o ho fatto la vita che volevano gli altri?” e allora “fai una vita in cui ti riconosci!”. Poi mi ha lasciato molto questo senso, che non avevo quando lui era in vita ovviamente perché era talmente forte che si prendeva tutta la responsabilità, però quello per cui sei padrone di te stesso e non ci sono altri padroni, non ci sono governi, regole, mondi, è la tua vita, è la tua malattia ed è la tua morte, e prenditi la responsabilità di non essere mai vittima. Lui proprio non era mai vittima, anche quando era malato, diceva “sì posso prenderlo come una vittima e piangere e dire oddio come sto male!” e invece diceva forse me la sono creata io questa malattia, perché me la sono creata e allora cosa faccio? È mia! Questo “non voglio assistenzialismo” come modo di fare, molto antico fiorentino nel senso di est unusquisque faber fortunae suae, però è un atteggiamento che lui c’aveva da tanto.

C.B.: Tra l’altro mi dicevano che il regista Mario Zanotta ha lanciato una campagna di raccolta fondi per produrre un film tratto dal libro “Un giorno un indovino mi disse”. Il grande schermo è uno strumento di comunicazione efficace perché riesce comunque a raggiungere un pubblico più vasto rispetto ad un libro. Cosa ne pensi, credi nel progetto? Lo supporteresti?

F.T.: Hanno già fatto il film de “La fine è il mio inizio”, ho scritto la sceneggiatura insieme ai tedeschi e si è fatto. È venuto bene, poi lo sai spesso i libri sono meglio dei film, se li leggi, però lo sai com’è per il libro ci metti più tempo, mentre il film passa in due ore e poi più persone lo possono vedere. Secondo me sarebbe bello fare un film dell’Indovino: ora bisogna vedere come si fa, nel senso che c’è stato anche, stranamente, interesse dall’America di fare un film su questo libro. Mario Zanotta ha fatto un bellissimo documentario sul mio babbo; poi è una questione di finanziamenti senz’altro: i budget in Italia sono limitati e l’Indovino è un film che si svolge nel Sud-Est asiatico e in molti Paesi in un’epoca precedente prima che tutto si sviluppasse, quindi ecco, servono molti soldi per farlo bene. Però è sempre bello dai, a me i film piacciono tanto e mi piace essere coinvolto, quindi se va, bene!

C.B.: Grazie a Jakub e Michał Hankiewicz la memoria e l’opera di tuo padre arriva per la prima volta in Repubblica Ceca. Esistono altre esperienze simili nei paesi dell’Est? Ovvero in quei paesi che, come descritto in Buonanotte signor Lenin, hanno vissuto sulla propria pelle il fallimento dell’utopia comunista? Se sì come hanno vissuto questa riflessione tramite le parole di suo padre?

F.T.: Io non sono andato in questi Paesi, però per esempio in Polonia è andato molto bene perché Kapuściński e mio babbo si sono scritti, a Kapuściński è piaciuto molto e poi sai quello è un bel libro e la gente l’ha seguito. In vari Paesi sono usciti i suoi libri e sono piaciuti; poi è strano, ho l’impressione che per esempio se vai in India adesso tutti i viaggiatori sono russi, mentre prima erano inglesi e tedeschi, perché mi pare, da quello che vedo lì, che con l’apertura del post-comunismo c’è stata anche una grande apertura verso la spiritualità e allora sono andati in tanti in giro. Mi dicono che in Repubblica Ceca invece è una cosa più nuova, non c’è questo fenomeno ancora, però sono stato in due ristoranti vegetariani cechi; qui la roba sta dunque arrivando, mentre altrove è già parecchio diffusa, i russi sono proprio alla ricerca di questa roba, tutti goa, guru, poi gli asceti etc.  Per cui, siccome c’è questo movimento, questi libri fanno da ponte, rimangono molto razionali, perché sono scritti da un giornalista che non si è buttato troppo dall’altra parte, non ha fatto il “santone”, non ha lasciato la famiglia, ed è riuscito a stare fra i due mondi, per cui così come comunicano anche in Italia, sembra che funzionino anche fuori. Ora bisogna vedere come va in Cecoslovacchia, poi è difficile fare uscire un libro, esce e muore, di solito, perché ne escono così tanti…è come un fuoco, picchia, poi a volte parte a volte non parte.

C.B.: Hai detto una cosa molto interessante, e cioè che tuo padre nonostante abbia intrapreso un certo percorso, non è mai andato “dall’altra parte” e si collegava all’ultima domanda che volevo farti: per quanto riguarda l’interpretazione dell’oriente, delle filosofie orientali, è forse stato tuo padre uno dei pochi che è riuscito a trovare un giusto mezzo per portare in Occidente e soprattutto in Italia, in quegli anni, un messaggio che non appartiene alla nostra cultura?

F.T.: Sì, sì, perché poi la conosceva molto bene! Sai a differenza di quasi tutti gli altri giornalisti che andavano per qualche anno lì e poi ritornavano per la famiglia o per vari bisogni a casa, lui è andato e ci è rimasto trent’anni! Per cui quella parte del mondo la conosceva bene, era a casa e allora è stato capace di tradurla bene. Poi non è stato mai il tipo da buttarsi ai guru e non c’era mai quella devozione per cui uno gira e diventa tutta un’altra persona, per cui uno poi si chiede se ci si è un po’ persi. Invece lui manteneva sempre quel giusto distacco, questa razionalità ed era sempre lui che giudicava una cosa, non si sottometteva alle cose. Però ha appreso tantissime cose molto belle e poi ha avuto alla fine questa fortuna di incontrare il vecchio sull’Himalaya che era una fonte di conoscenza pazzesca e questo gli ha aperto davvero le porte. Perché questo indiano sapeva tutto! Lui non sapeva solo la roba indiana, lui aveva letto Platone e Plotino, cioè sapeva proprio tutto della nostra cultura, sulle nostre cose e riusciva a raccontarti tutto, per cui insieme ci hanno pensato a ‘ste cose. Io “L’ultimo giro di giostra” lo sto rileggendo ora perché dovevo venire qui, capisci non l’ho scritto io quel libro, quindi me lo dovevo rispolverare, e lì vi sono una quantità di aneddoti che raccontano tante cose sotto molti punti di vista e alla fine ritrovi tutto no?

C.B.: Un’ultima domanda, cosa è rimasto secondo te e cosa rimarrà di quello che ha voluto dire tuo padre attraverso i suoi libri? Qual è la cosa più feconda?

F.T.: Ci sono vari aspetti. A noi tutti ci ha sorpreso il fatto che intanto lui continua a crescere, cioè di solito quando si muore arrivano i vermi e ti mangiano e lui da quando è morto ha continuato invece a crescere perché c’è più roba di quello che si vedeva noi prima, per cui dura, non è passato, e ci sono vari aspetti. Quando rileggo le Lettere mi dico “oddio come ci è arrivato a vedere quello”, la lettera all’Oriana, pazzesco! E mi stupisce che quella persona che conoscevo è riuscita a fare ciò. Come la cosa che mi ha stupito di più è che una persona che conoscevo così bene è riuscita a morire così. Difatti la mia domanda era “ma scusa, come hai fatto a capire quello che hai capito? Cioè, ora mi vuoi dire che stai ridendo del fatto che muori? Come?”. Per cui ha fatto un percorso e capire cosa è stato quel percorso è particolare, è difficile, incredibilmente difficile. È una strada che ha fatto perché c’aveva poco tempo, e l’ha fatta rapidamente, da giornalista ai fatti, dalla politica, dalle varie cose ed è entrato dentro per capire tutta la spiritualità, porca miseria! Come e dove? Come ha fatto? Intanto il posto dove era, era meraviglioso. Proprio fisicamente essere in un posto così ti cambia la prospettiva, sei sopra al mondo, a 3000 metri! Vedevi i temporali che avvenivano sotto, il mondo era una cosa lontana da lì, eri sopra e poi quei personaggi…Insomma, una serie di coincidenze hanno portato una persona, che era intelligente, razionale e capace, con quel distacco, a dire le cose come sono invece che raccontar favole e allora mantiene oggi ‘sto valore. Infatti i suoi libri iniziali non mi interessano, la Cina, il Vietnam… tutta la roba politica è bella per chi è interessato in quelle cose. Ma le cose finali, sono sulla vita! Sono su tutto! Per cui mi sono veramente divertito a parlare per questa persona, così come mi piaceva parlare con Madre Teresa o mi è piaciuto parlare con questi asceti indiani che vivono nella giungla, e poi ho avuto questa fortuna di poter parlare con una persona accanto a me che conoscevo, in italiano, fargli le domande e avere tutto il tempo per approfondire e nuotarci dentro, ed era lì. Sicché quello è un percorso da riproporre, perché davvero ci siamo allontanati troppo dal senso profondo delle cose, troppo, siamo troppo distratti dalle distrazioni che ci distraggono no? E questo ritorno al silenzio, come diceva lui “voglio smettere di fare giornalismo, e fare il perennealismo”; e questo va fatto, prima o poi bisogna pensare al grande, uno si occupa di tutte le cose e poi a un certo punto ci si chiede “ma dove sono? Chi sono? Cosa è questo mistero attorno a me?”. E lui ha avuto il tempo per fare questo percorso.

C.B.: Grazie mille.

di: Andreas Pieralli e Mauro Ruggiero

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