Giorgio Vasta, classe 1970, è sicuramente una delle giovani voci più interessanti del panorama letterario italiano. Scrittore, editor e consulente editoriale per grandi case editrici italiane, nell’ottobre del 2008 ha pubblicato il suo romanzo d’esordio: Il tempo materiale, edito da Minimum Fax e tradotto in varie lingue, che lo ha reso noto al grande pubblico. Vasta collabora con varie riviste letterarie e nel 2001 ha fondato la società “Zerouno scritture”. Lo abbiamo incontrato a Praga in occasione dell’edizione 2012 della Fiera del Libro, durante la quale Vasta ha presentato la traduzione in lingua ceca del suo libro (Hmatatelný Čas), tradotto dalla nota italianista e traduttrice Alice Flemrova e pubblicato dalla casa editrice Odeon. Vasta ha inoltre incontrato i suoi lettori in un evento organizzato dal Comitato Dante Alighieri di Praga, durante il quale ha gentilmente risposto a qualche nostra domanda.
Nel tuo libro: “Il tempo materiale”; tradotto in molti paesi e adesso anche in lingua ceca, racconti un’Italia in un momento storico molto particolare, quello degli Anni ’70, delle Brigate Rosse e del Sequestro Moro. Come è perchè nasce l’idea di trattare proprio questo tema?
Come spesso accade, non è un tema a dettare una narrazione ma qualcosa di più indefinito e potente, una specie di fissazione. Gli anni ’70 italiani sono per me da tempo un grumo inespugnabile, qualcosa che ovviamente contiene la storia della lotta armata, il conflitto sociale, le metamorfosi culturali, ma anche una tensione che mi riguarda a livello individuale e che non sono capace di dire chiaramente. Forse ad attrarmi è quella specifica qualità di tensione – fisica, emotiva, cognitiva – sperimentabile durante la preadolescenza: la scrittura del romanzo è un tentativo di mettere a fuoco questa tensione.
Proprio in questi giorni in Italia ci sono stati segnali forti di un risveglio di attività definite “terroristiche” che sono state rivendicate dalle cosiddette “nuove BR”, mi riferisco soprattutto all’attentato al dirigente dell’Ansaldo o alle minacce ad Equitalia. E’ possibile secondo te che si ripresenti nel nostro Paese uno scenario simile ai cosiddetti Anni di Piombo?
Penso che se negli anni ’70 era ancora riscontrabile una continuità tra la cultura estremista e il milieu socioculturale nel suo complesso (mi riferisco soprattutto a somiglianze linguistiche, a un bisogno quasi difensivo di perentorietà nella comunicazione), mi sembra che adesso gli scenari siano drasticamente mutati e che se è ancora possibile – i fatti di queste ultime settimane lo dimostrano – un fenomeno di recrudescenza, meno probabile è l’attecchimento del fenomeno nel tessuto sociale. A risultare interessante è l’eventuale filiazione tra i ’70 e il presente. Centrale credo sia nuovamente la parola “tensione”. È come se la mitizzazione di alcuni connotati dei cosiddetti anni di piombo determinasse il passaggio da quella che venne chiamata “strategia della tensione” a qualcosa che forse azzardando potremmo chiamare “nostalgia della tensione”. Come se la recrudescenza alla quale facevo riferimento fosse anche un tentativo di recuperare una traumaticità – individuale e storica – che più o meno consapevolmente si sente di avere perduto (o, più esattamente, di non avere mai incontrato).
La critica letteraria ha giudicato il romanzo: “Il tempo materiale” come uno dei libri italiani meglio scritti dell’ultimo decennio, come definiresti il tuo stile di scrittura e qual è il tuo “metodo di creazione letteraria?”
Non sono in grado di definire il mio stile. Penso che ogni scrittura sia il compromesso tra quanto si è capaci di fare e quanto non si sa fare o si teme di fare. Io so di temere, nella pagina, il vuoto (per me il vuoto è anche lo spazio naturale e necessario tra le singole parole), dunque tendo reattivamente a colmare, a riempire lo spazio. Se riesco a dare a questo impulso un equilibrio, una misura che mantenga un contatto con l’ossessione di cui si nutre senza però precipitare nell’autoreferenzialità, allora forse metto insieme una pagina buona; se non ci riesco cerco di avere sufficiente amor proprio da decidere di riscrivere e continuare a riscrivere.
Tu insegni scrittura narrativa presso diversi istituti tra i quali la famosa Scuola Holden. Secondo te, a narrare, a scrivere un romanzo, si impara oppure è una capacità che si possiede indipendentemente da tutto?
Ho insegnato fino a qualche anno fa presso la Scuola Holden, oggi non più. Penso che la didattica della scrittura narrativa continui a essere tanto poco conosciuta quanto, forse proprio per questo, sistematicamente fraintesa. I detrattori suppongono, ma nell’esprimere quanto suppongono in realtà pretendono, che si tratti di una pratica da cialtroni che vogliono sfornare – il termine prediletto dai detrattori è “sfornare” – scrittori in batteria; poi si aggiunge, ed è un refrain infinito, che “il talento non si insegna”. C’è poi qualcuno che semplifica sull’altro versante immaginando che la didattica della scrittura narrativa sia un passepartout, la chiave magica che ti consentirà un ingresso in un mondo altrettanto fatato. In pochissimi, provando a ragionare al netto delle demonizzazioni e delle idealizzazioni, si rendono conto che questa didattica è uno tra gli strumenti possibili, una forma di focalizzazione su un’esperienza; non un prontuario, tantomeno un ricettario, quanto un’occasione – non unica e non imprescindibile – per ragionare in concreto sulla lingua e sulla drammaturgia.
Nel tuo libro “Spaesamento” racconti invece L’Italia dei nostri giorni come un paese di difficile comprensione a causa delle sue specificità sociali. Qual è la differenza tra l’Italia e altri Paesi europei ai quali spesso si guarda come a modelli di vita civile?
La mia percezione dell’Italia, a maggior ragione la mia percezione di Palermo, non ha nulla di oggettivo. Penso all’Italia, la sento, attraverso quella costellazione di analisi e di pregiudizi, di tentativi di lucidità ed esasperazioni incoercibili, che si genera e si propaga tutte le volte in cui pensiamo alla nostra origine. I paesi europei che riconosciamo come modelli di vita civile sono prima di tutto un altrove critico, vale a dire che dimostrano l’esistenza di un’alternativa concreta a quella che è la nostra esistenza quotidiana (è chiaro che in tutto ciò non c’è soltanto proiezione e distorsione ma anche un riscontro oggettivamente indiscutibile: voglio dire che è chiaro che il tessuto sociale svedese, per esempio, si fonda su una dialettica diritti-doveri molto più raffinata di quello italiana).
Probabilmente la differenza centrale tra l’Italia e alcuni altri paesi europei consiste proprio in questo: da un lato la coscienza del diritto, dall’altro il dovere inteso non come coercizione ma come partecipazione, nel nostro paese non sono esperienze introiettate, non hanno nulla di naturale; vengono ancora intese come eccezioni, sono fantasmi, artefatti che non sappiamo bene come maneggiare. È chiaro che tutto questo non discende da una condanna genetica ma da quello che è accaduto (e che non è accaduto) nella nostra storia.
La città di Palermo, la tua città è sempre la protagonista delle tue opere. Cosa significa per te Palermo e cosa ha Palermo, secondo te, di diverso dalle altre città italiane in quanto a specificità?
Palermo è una città che contiene ed esprime conflitto. Essendo Palermo la mia origine, essendo cioè spazio e tempo fondamentali, questo conflitto, in sé insostenibile, va a nutrire il racconto. In sostanza Palermo è un luogo in continua frizione, un posto perpendicolare in cui tutti si interseca, tutto si incrocia, spesso traumaticamente. A segnare una differenza rispetto ad altre città – ma va ancora una volta ricordato che si tratta di una differenza che riconosco io perché a Palermo sono nato e cresciuto, un autore romano o uno milanese o di qualsiasi altra città potrebbe a ragione far valere lo stesso ragionamento sulla sua città d’origine, dunque sulla sua origine tout court – è, a Palermo, la radicale mancanza di progetto. Ciò che c’è e ciò che accade sembra prescindere sempre da un obiettivo. Il tempo passa, si accumula, si accumula spazio ad altro spazio, eppure la città resta ferma, immemore, ignara. Culturalmente e politicamente parlando, Palermo è un luogo di neutralizzazione del cambiamento.
Tu tempo fa hai detto che non si può parlare di Berlusconi soltanto come una figura politica, ma che “Berlusconi” può essere un nome che si può dare a un tempo, a un’epoca che l’Italia ha vissuto; cosa ha rappresentato Berlusconi per L’Italia? di cosa, cioè, è stato l’espressione nel nostro Paese?
Riprendo questo spunto da uno storico che si chiama Antonio Gibelli, che parla di Berlusconi come dell’unico personaggio italiano che si è intestato un’epoca intera. Fermo restando che va tenuta lontana la semplificazione che vede in Berlusconi la causa unica e ultima di quella che è la cultura (uso il termine in un’accezione molto ampia) dell’Italia presente, mi sembra che la fenomenologia berlusconiana abbia avuto, abbia e, credo, avrà ancora a lungo la capacità di rappresentare in modo drastico l’umano italiano contemporaneo. Nel senso che attraverso Berlusconi abbiamo fatto esperienza di uno scompaginamento di quei sistemi di riferimento ai quali fino a qualche anno fa ci affidavamo fiduciosi. Mi riferisco alla nozione di vero-falso, di legittimo-non legittimo, di privato-pubblico. Molto di ciò che era dicotomico, addirittura antinomico, adesso esiste tramite coesistenza. La coesistenza non contraddittoria degli opposti è l’esperienza della nostra contemporaneità. Si tratta di qualcosa di profondamente affascinante, nel senso che proprio nella misura in cui rompe un paradigma e ci spiazza, questa metamorfosi potrebbe essere fertile, uno spalancamento che ci costringe e ripensare tutto. Il problema è che Berlusconi non è stato un filosofo che ha percepito lo Zeitgeist impegnandosi in una sua descrizione: è stato il punto di non ritorno di un’esperienza politica (o meglio prepolitica) e sociale. Il berlusconismo, dunque il caos dell’indistinzione, ha a che fare con le nostre viscere; se il dispositivo preposto a contenere la visceralità – vale a dire il pensiero politico, l’amministrazione della cosa pubblica – è a sua volta viscerale, andiamo incontro al superamento di ogni soglia e all’abbatimento di ogni argine. A quel punto la fascinazione nei confronti del primigenio non regge più: c’è soltanto il disastro.