Per gli appassionati del genere l’uscita dello Hobbit, la prima delle tre parti girate dall’ottimo regista neozelandese Peter Jackson sulla base del celebre romanzo omonimo di J.R.R. Tolkien, rappresenta sicuramente l’evento cinematografico più importante e più atteso dell’anno. Dopo l’enorme successo della trilogia del Signore degli Anelli (17 Oscar di cui ben 11 solo per Il Ritorno del Re cui sono da aggiungere 5 Golden Globe e 2 Grammy Awards), come sempre succede in questi casi, c’era grande aspettativa e curiosità tra i fan, notoriamente il pubblico più severo e manicheo: riuscirà Jackson ad eguagliare i suoi precedenti capolavori o rischierà di ripetersi? Sarà un’opera all’altezza del successo del Signore degli Anelli o smaschererà il tentativo meschino di prolungare il più possibile i già lauti guadagni sulla scia della Trilogia? Che ogni appassionato delle saghe della Terra di Mezzo, tra i quali mi aggiungo con orgoglio, valuti da solo. La mia opinione personale è che, anche questa volta, il risultato sia stato assolutamente eccellente. Anzi, a momenti, forse complice l’entusiasmo suscitato dalla novità, lo Hobbit mi è parso addirittura un’opera migliore della Trilogia: meno epica e pesante, più fiabesca e giocosa, in poche parole più godibile.
Una delle caratteristiche più marcate di questo film, così come del romanzo che lo ha ispirato, è quella di dividere in modo invisibile, ma non meno percepibile, i fan più accaniti e il resto del pubblico al quale, come ogni fedele tolkieniano ha avuto sicuramente modo di verificare più volte, questo mondo pieno di elfi, nani e mezz’uomini rimane perlopiù estraneo ed incomprensibile. Insomma, il grande Tolkien è riuscito a creare un universo fantastico così ricco e complesso di fronte al quale di solito si registrano solo due possibili reazioni: amore a prima vista oppure indifferenza senza appello.
De gustibus non est disputandum, naturalmente. Detto ciò può essere interessante fare un ragionamento sulle motivazioni a supporto della prima reazione perché, a mio avviso, se ne possono trarre conclusioni significative sulla nostra società. Per completare l’opera colossale della Trilogia – tra l’altro girata per intero in un solo anno –, Jackson ha potuto fare affidamento su circa mezzo miliardo di dollari cui si devono gli eccellenti effetti speciali e la grafica computerizzata che la fanno da padrona lungo tutto il film. Eppure sarebbe un grave errore cercare solo in questa maestria informatica di così alto livello il motivo di tale successo. Basti pensare agli innumerevoli film più o meno recenti, parimenti ricchi di simili “trucchi” virtuali, che di gran lunga non hanno riscosso nemmeno le briciole degli incassi che, invece, hanno appesantito le casse della New Line Cinema, la casa produttrice della Trilogia e dello Hobbit, con oltre 6 miliardi di dollari
Se, da una parte, Jackson è riuscito nella non facile sfida di portare su schermo l’opera monumentale dello scrittore inglese, d’altra parte a mio avviso la chiave di questa grande passione va ricercata in due ragioni principali. La prima è che Tolkien ci offre tutti gli elementi necessari per una grande storia. L’amore, l’odio, il coraggio, la codardia, l’invidia, il perdono, la vendetta, la collaborazione, la competizione fino al sacrificio, l’avidità, la tenerezza e la ferocia. Insomma, il grande scrittore inglese combinare con penna sopraffina tutti gli elementi indispensabili per creare un mosaico ricco ed avvincente dove una rete di trame ben congegnate e adeguatamente dosate ci tiene con il fiato sospeso fino all’ultimo. Di fatto Tolkien dà vita ad una ricchissima favola moderna degna di concorrere, per la qualità della sua costruzione, con le mitologie più antiche e rispettate. Ogni personaggio, dal più importante al più apparentemente insignificante, ha un suo ruolo ben preciso nella storia e un compito da svolgere, nel bene o nel male, ha lati forti e lati deboli con i quali deve confrontarsi e il suo contributo alla vittoria finale del Bene dipenderà in buona misura dalle scelte che farà. Ma, ciò che è ancora più importante, anche le azioni malvagie alla fine possono rivelarsi utili nell’economia della storia. Quando Frodo si auspica la morte di Gollum, saggiamente Gandalf lo invita a non elargire con troppa facilità sentenze di morte perché nessuno sa chi merita di vivere e chi di morire e perché. Lo stregone dice al giovane hobbit di sentire che Gollum ha ancora un ruolo da svolgere nella storia. Ed infatti è proprio anche grazie all’aiuto di questa strana creatura che Frodo riesce a portare a compimento la propria missione disperata. Gollum è uno dei personaggi più complessi e rappresentativi di tutto il romanzo. In lui convivono dolorosamente il Bene e il Male, tanto che lo conosciamo addirittura con due nomi: Smeagal, quando ancora non aveva trovato l’Anello, e Gollum quando diventa schiavo del suo Tessoro. Ma, anche dopo lunghissimi anni di ingombrante sottomissione al potere dell’Unico, Gollum conserva ancora in sé una doppia personalità tormentata tra il desiderio di aiutare Frodo e la brama di tornare in possesso dell’Anello.
È, in fondo, proprio questa ancestrale dicotomia intestina tra il Bene e il Male il pilastro fondamentale su cui poggia il mondo di Tolkien. Non a caso, infatti, anche personaggi positivi come Faramir o lo stesso Frodo vengono più volte tentati dal potere dell’Anello. Lo stesso Gandalf rifiuta categoricamente di usarlo, se pur a fin di bene, perché sa bene quanto sia suadente per gli uomini la tentazione del potere. Tolkien, dunque, disegna questa eterno singolar tenzone tra il Bene e il Male nelle sue più svariate sfaccettature come un immenso e vivacissimo affresco dove nulla è scontato, tutto è possibile, nessuna avventura è irrealizzabile e l’esito non è mai prevedibile ma, soprattutto, dove il motore principale che muove la scena è la volontà del singolo e la sua libertà di scegliere. Proprio come nella Vita.
L’altra ragione del successo dell’opera di Tolkien è da ravvisare, a mio avviso, in questo coloratissimo ed inesauribile mondo magico che, grazie anche alle moderne tecnologie di cui sopra, Peter Jackson è stato in grado di rendere così efficacemente. I protagonisti della Trilogia e dello Hobbit si muovono in un universo pieno di arcani misteri, di incomprensibili segreti, di antiche profezie e di magie potentissime. È un mondo pericoloso, dove all’improvviso si può essere attaccati da creature voraci come gli orchi, orribili come i goblin, feroci come gli Uruk-hai o inquietanti come i Nazgûl, ma dove si può anche essere salvati dagli alberi Ent, dalle enormi aquile, dai bizzarri Elfi o dai simpatici Nani. Una Terra di Mezzo, dunque, irta di insidie e minacce di ogni tipo, eppure così affascinante e tutta da scoprire. Un mondo sì, pieno di pericoli che, però, e questa è la grande lezione morale di Tolkien, può essere affrontato con successo facendo ricorso alle proprie qualità migliori: il coraggio, la lealtà, la fiducia in se stessi. Non è un caso, allora, che in entrambe le saghe il personaggio più importante, l’eroe in senso lato, non sia né il più potente degli stregoni né il più audace dei cavalieri, ma un semplice, piccolo, insignificante Hobbit, in un caso Bilbo e nell’altro Frodo, che, senza arte né parte, riesce però a salvare la Terra di Mezzi dai pericoli più grandi.
Ma, quel che è pure non meno importante, è che la vittoria non consiste nella distruzione del Male, la cui necessità è insita al suo stesso essere dicotomico al Bene, ma nel riconoscerlo e nel superarlo grazie alla nostra forza di volontà. Noi siamo il terreno su cui si svolge questo duello siamo. Il Male, rappresentato dall’Anello e dalla seduzione del potere, non è estraneo né esterno a noi, ma è profondamente radicato dentro di noi ed ha una sua ben precisa ragion d’essere. La vittoria di Frodo è nell’aver compreso l’ombra che è dentro di lui, come dentro ognuno di noi, e di averla superata. Nella scena finale l’Anello gettato tra le uniche fiamme che lo possono distruggere rappresenta il superamento del Male, ma, paradossalmente, questo avviene ancora una volta grazie al Male stesso, ovvero grazie a Gollum che recide il tessoro insieme al dito di Frodo e cade con esso negli abissi. Non sapremo mai se, senza la collaborazione del Male, qui incarnato da una creatura troppo debole per resistere alla tentazione, Frodo avrebbe trovato la forza di liberarsi dell’Anello. Un finale quasi aperto ad indicare che questa battaglia titanica non avrà mai fine e che è in essa che arde la stessa ragion d’essere dell’Uomo: a metà tra il Bene e il Male, proprio come in una Terra di Mezzo.
Ecco, in conclusione, i due elementi più importanti su cui poggia la grandezza dell’opera di Tolkien: l’importanza di credere nelle proprie qualità e il mistero infinito del mondo. Due elementi che l’uomo moderno pare proprio aver bisogno di riscoprire con vigore. Da una parte un mondo fatto di comodità e di eterni compromessi, si veda, per esempio, lo spettacolo disgustoso della politica, ha fatto della moralità un orpello obsoleto ed ingombrante, dall’altra le innovazioni tecnologiche sempre più invasive ed accattivanti hanno eliminato giorno dopo giorno dal nostro orizzonte quotidiano il mistero, l’arcano, il magico: ciò che è ma che non può essere spiegato con la ragione. Erroneamente convinti di avere grazie alla scienza il dominio completo sulla natura, perdiamo di vista il fascino inspiegabile del mondo e, soffocato dalle onnipresenti soluzioni tecniche pronte all’uso (e altrettanto facili da essere subito gettate via e rimpiazzate), il nostro senso dell’eroismo e dell’arcano si atrofizza sempre più.
Ecco, allora, perché ci sentiamo, almeno una parte di noi, tanto attratti dal fantastico mondo di J.R.R. Tolkien: egli ha saputo restituirci con una bravura e un’intelligenza fuori dal comune quell’insieme di valori morali e di senso del sacro e del misterioso che per secoli sono stati l’alfa omega delle mitologie e delle religioni di tutto il mondo. Appare evidente, dunque, che la Trilogia insieme allo Hobbit rappresentano molto di più di una ben riuscita saga di letteratura fantasy e questo spiega il successo duraturo e solido di cui gode ormai da decenni e che molto probabilmente è anche destinato a durare nel tempo, con buona pace di chi trova incomprensibile la passione di noi fan della Terra di Mezzo.