Sabato 30 novembre, al cinema Lucerna di Praga, nell’ambito della VII edizione in Repubblica Ceca del MittelCinemaFest è stato proiettato Il Campione, opera prima del regista Leonardo D’Agostini, ospite per l’occasione, su invito dell’Istituto Italiano di Cultura, con Antonella Lattanzi, sua compagna nonché sceneggiatrice del film. Abbiamo intervistato i due giovani per saperne di più sulla realizzazione del lungometraggio che è valso a D’Agostini il Nastro d’argento come migliore regista esordiente.
Leonardo, Il Campione è il suo primo lungometraggio, un grande successo che l’ha portata subito alla vittoria del Nastro d’argento. Ci racconti di questo esordio.
(Leonardo) Siamo molto contenti perché il film è andato molto bene. È stato un buon successo nelle sale e ad oggi siamo già a quota 52 Festival internazionali, a testimonianza di quanto sia stato apprezzato anche all’estero.
Vi aspettavate questo successo immediato?
Ci speravamo. Volevamo fare un film che fosse popolare nell’accezione positiva del termine, uno di quei film che piace molto al pubblico ma che comunque non è superficiale. Abbiamo cercato di dargli due anime: quella dell’intrattenimento e quella più emozionale. Volevamo un film che comunque facesse riflettere.
Avete scelto di affrontare un tema poco trattato dalla cinematografia italiana, Il Campione è un film che vuole parlare proprio di calcio?
Il calcio è una componente importante in questo film. L’idea è nata nel 2013 quando, dopo l’ennesima intemperanza di Mario Balotelli, il presidente del Milan, Silvio Berlusconi, decise di affiancare un tutor al suo calciatore per limitarne gli eccessi. In quel caso si trattava di un ex poliziotto e fu un’idea che ci colpì molto. Quindi abbiamo iniziato a ragionare su questo tema ed è nata la figura di questo professore che entra in un mondo per lui assurdo, un mondo fatto da calciatori di vent’anni che vengono venerati quasi come semidei e ai quali tutto viene concesso e perdonato.
Il personaggio di Christian Ferro avrebbe potuto essere anche una rockstar o un attore?
Abbiamo scelto di raccontare la storia di un calciatore piuttosto che di una rockstar perché non esiste un cantante di vent’anni che guadagna cinque milioni di euro all’anno. In Italia le rockstar sono proprio i calciatori.
Questo film racchiude all’interno un forte messaggio educativo. Volevate lanciare anche un messaggio sociale raccontando questa storia?
Ci interessava raccontare i lati più oscuri e umani di un mondo apparentemente fatato, con questi giovani che riescono ad avere tanta popolarità e tanti soldi ma spesso si sentono soli perché non sanno quanto le persone gli siano accanto per affetto o per opportunismo. Infatti, la paura più grande di Christian, il nostro protagonista, è quella di rimanere solo.
Quanto è difficile umanizzare un eroe?
Quando si scrive bisogna entrare nella testa del personaggio. Avendo studiato tantissime biografie di calciatori ci siamo accorti che spesso le situazioni più difficili nascevano da situazioni familiari molto complicate, con famiglie che spesso li avevano abbandonati o li avevano costretti a crescere nell’indigenza. Quindi, se piuttosto che vedere dove sono arrivati questi calciatori provassimo a fare un passo indietro, a capire da dove sono venuti, allora sarebbe più facile ricavarne un punto di vista più umano.
L’idea di questo film è nata dall’esperienza di calciatori come Mario Balotelli e Antonio Cassano, che per via del loro carattere esuberante hanno forse raccolto meno di quanto avrebbero potuto. Pensate che Il Campione abbia fatto riflettere anche loro sugli errori e su quanto gli sarebbe servito avere accanto qualcuno come Valerio?
Non sappiamo se l’abbiano visto e cosa ne pensano Cassano o Balotelli. Sicuramente ci dispiace molto per le loro carriere, anche perché il loro talento probabilmente li avrebbe portati ad ottenere molto di più se avessero conosciuto qualcuno che li avesse aiutati a incanalare nella direzione giusta il loro talento. Possiamo dire che l’ha visto Francesco Totti, che ha espresso il bisogno di farlo assolutamente vedere al figlio, che è un adolescente che sogna di diventare calciatore.
Christian Ferro gioca nella Roma perché Leonardo D’Agostini è romanista?
In realtà solo in minima parte. A noi serviva un club di Serie A che rendesse ancora più credibile la storia e abbiamo proposto questo progetto all’AS Roma che ha subito dato la sua adesione e la sua completa disponibilità, quasi in modo inaspettato. Ci hanno messo a disposizione tutti i loro spazi, ci hanno facilitato l’ingresso allo Stadio Olimpico, ci hanno fornito tutto il materiale sportivo.
L’AS Roma è il primo tentativo che abbiamo fatto ma eravamo pronti anche a farne altri.
Leonardo è un grande appassionato di fumetti, ha discusso una tesi sul rapporto tra cinema e fumetti, cosa hanno in comune Christian Ferro e gli eroi dei fumetti?
(Leonardo) Ho studiato lo sviluppo comparato di cinema e fumetto, come i linguaggi di entrambe le arti si sono creati ed evoluti nel corso della storia e come si sono influenzati. Il protagonista del mio film però ha pochi riferimenti dal mondo del fumetto, piuttosto i riferimenti sono molto reali, sono le storie di questi calciatori di cui parlavamo. Mi piacerebbe tanto fare un film ispirato al fumetto ma in questo caso il legame è più con la realtà. Di fumettistico c’è però un aspetto che è entrato in questo film, come in tutti del resto, che è la mia abitudine a disegnare le sequenze, in particolare quelle più complesse.
Ricostruire l’atmosfera da stadio non è stato semplice, avete collaborato con EDI (Effetti Digitali Italiani) per questo film, come cambia il ruolo del regista con le tecnologie digitali?
È un processo diverso, perché bisogna svilupparlo in più fasi. La scena centrale del nostro film, quella della partita di calcio, l’abbiamo sviluppata in tre fasi: una ripresa in tribuna allo Stadio olimpico, con Accorsi e trecento comparse; poi a Pisa abbiamo girato le sequenze della partita, con i green screen su praticamente metà campo e i calciatori del Pisa Calcio che hanno interpretato l’AS Roma; infine la terza fase, all’Olimpico durante una partita reale, per girare le immagini del tifo. La cosa curiosa è che abbiamo scelto una partita, Roma-Milan dello scorso 3 febbraio, durante la quale c’è stata una contestazione dei tifosi e dopo venti minuti molti hanno abbandonato la curva, è stato un incubo (ridono, ndr). Poi abbiamo passato il materiale a EDI e loro sono stati bravissimi ad unire le riprese attraverso la tecnologia digitale, con la difficoltà di avere una prospettiva diversa del pubblico a seconda dei campi girati, cercando di costruire un’immagine dinamica che tenesse conto del movimento.
Quindi possiamo dire che la tecnologia digitale ha ampliato esponenzialmente le possibilità del cinema?
Assolutamente, specie in casi come il nostro. La tecnologia ci ha dato una grossa mano anche per aumentare la credibilità dell’attore. Andrea Carpenzano, il nostro protagonista, è sicuramente un bravissimo attore ma non un bravo calciatore. Abbiamo girato con un freestyler le scene in cui Christian palleggia, applicandogli delle reference sul viso e sostituendo in studio la sua faccia con quella di Andrea.
Avete usato anche frame reali, immagini di archivio?
Sì, abbiamo usato più di una sequenza reale nei titoli di testa. Abbiamo approfittato della disponibilità della AS Roma che autoproducendo le riprese televisive che la riguardano ha anche un grande archivio di immagini a Trigoria. Quindi siamo stati ore a cercare tra questi fotogrammi le sequenze migliori.
Avete scritto questo film a quattro mani. Leonardo, si percepisce, è un grande appassionato, un fanatico del calcio. Per Antonella invece è stato l’approccio ad un mondo nuovo?
(Antonella) A me piace fare tante ricerche quando scrivo, che siano film o romanzi. Cerco sempre di raccontare storie diverse da quello che è il mio mondo, mi incuriosisce scoprire punti di vista nuovi e mondi diversi. Lo faccio soprattutto attraverso un periodo di studio e di ricerche. In questo caso ho dovuto studiare tantissime biografie di calciatori, per cercare di capire le differenze tra le varie storie. Poi in realtà il film parla soprattutto di amicizia, quindi dopo aver studiato e definito il contesto, siamo entrati umanamente nei personaggi e abbiamo raccontato questa storia. Per me era la prima volta che scrivevo qualcosa dove ci fossero solo due protagonisti, entrambi maschili. Quindi raccontare come nasce e si sviluppa un’amicizia tra due uomini è stato un punto di vista nuovo. Il bello della sceneggiatura è che ti obbliga a uscire dal tuo mondo e ad acquisire una prospettiva diversa.
Nel cast spiccano Andrea Carpenzano e Stefano Accorsi, una coppia inedita e anomala che comunque ha funzionato molto bene. Il primo è un giovane che ha da poco iniziato la sua carriera mentre Accorsi è un attore affermato e maturo. Come cambia l’approccio di un regista che si rivolge ad attori con esperienze diverse?
In realtà il fatto che fossero così diversi è stato molto utile per il film. Accorsi è stata una bellissima scoperta per noi, era la prima volta che lavoravamo con lui e ci ha impressionato per la sua generosità, per la sua umiltà e attenzione. Aveva proprio voglia di mettersi in gioco e ha studiato tantissimo per preparare il ruolo. Poi anche a film ultimato si è impegnato tantissimo anche nella fase di promozione. Carpenzano chiaramente ha un’esperienza diversa, aveva appena fatto il suo primo film, ma anche lui si è rivelato un bravissimo attore e una persona molto interessante.
La vostra è un’intesa che ha funzionato bene, avete in programma altri progetti comuni in futuro?
Sì, speriamo di definire entro fine anno il prossimo progetto insieme. Abbiamo una serie di possibilità delle quali non possiamo dire molto per delle ragioni editoriali ma stiamo lavorando a dei nuovi progetti che ci vedranno ancora insieme.
Leonardo, cosa può dirci del suo rapporto con Matteo Rovere e Sydney Sibilia, i suoi produttori? Insieme, rappresentate la next generation del cinema italiano, una ventata di novità che sta riscuotendo attenzione anche all’estero.
(Leonardo) Non lo so (ride, ndr). Noi sicuramente proviamo ogni volta a migliorarci, ci piace questo lavoro e speriamo sempre che questo venga fuori nei nostri film. Forse l’attenzione internazionale verso i nostri film nasce dal fatto che spesso usiamo un linguaggio diverso. Nel mio film volevamo raccontare una storia che fosse il più possibile universale. E forse per questo che è un film che ha funzionato in Italia, così come in Cina. Quindi abbiamo cercato di evitare, nei limiti del possibile, riferimenti troppo locali.
Di Martina Magnaldi e Tiziano Aloi