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“Gli scrittori sono anime danneggiate”. Intervista a Donatella Di Pietrantonio.

L'autrice del successo internazionale: “L’Arminuta” (Premio Campiello 2017).

In occasione della XVIII edizione della Settimana della Lingua Italiana nel Mondo in programma anche a all’Istituto Italiano di Cultura di Praga, dal 15 al 21 ottobre 2018, la scrittrice Donatella Di Pietrantonio, vincitrice del Premio Campiello (2017) con l’opera L’Arminuta (Einaudi, 2017), ha visitato la Repubblica Ceca dove è stato di recente tradotto il suo romanzo al momento più noto e amato. Con la pubblicazione in ceco di L’Arminuta salgono a 22 le lingue di traduzione di questa opera che per la sua profondità, ma al tempo stesso essenzialità linguistica, ha incantato e continua a conquistare un gran numero di lettori in tutto il mondo. L’opera, tradotta in ceco da Marina Feltlová con il titolo Navrátilka e pubblicata dalla casa editrice Argo, con il supporto dell’IIC di Praga diretto da Giovanni Sciola, racconta una storia di sentimenti ed emozioni atavici e dirompenti ambientata in un Abbruzzo sul confine tra un passato rurale ormai quasi del tutto svanito e la modernità. Una storia di solitudini e complicità, di bambini costretti ad essere adulti troppo in fretta e di adulti forzati a fare i conti con i propri errori e contraddizioni. L’Arminuta è capace di cogliere alcune sfumature profonde dell’animo umano in uno stile asciutto e coinvolgente che ricorda in parte la tradizione del Verismo, ma al tempo stesso aperto a nuove soluzioni stilistico-letterarie originali e coinvolgenti.  

La redazione di Cafeboheme.cz ha incontrato la scrittrice per farle qualche domanda.

(CB) Donatella, tu sei un medico, un dentista pediatrico, in che modo riesci a dividere e a gestire la tua attività medica e la tua attività di scrittrice, come convivi cioè con queste due “personalità”?

(DDP) Fino a poco tempo fa era abbastanza facile dividere i tempi di due attività così diverse, nel senso che scrivevo la mattina molto presto, alle 4:30/5:00. Mi svegliavo, anzi, mi svegliavano i personaggi, le storie e avevo quelle 2-3 ore prima di cominciare l’altra vita e di andare a fare l’altro lavoro.  Con L’Arminuta e in particolare con la vittoria del Premio Campiello le cose invece sono cambiate, soprattutto in termini di viaggi, presentazioni, giri di promozione del libro anche all’estero… E quindi sono stata piacevolmente costretta a ridefinire i tempi. Lavoro molto meno adesso, ma comunque lavoro ancora.

 

(CB) E in quale di queste due personalità ti riconosci di più?

(DDP) È difficile dirlo, mi riconosco sicuramente di più nella scrittura. La scrittura è la vita. Ho iniziato a scrivere da bambina, da quando ho iniziato a padroneggiare la scrittura. Il problema che essendo figlia di una famiglia contadina non ho avuto il coraggio di scegliere la scrittura come lavoro, per lo meno di provarci. Quando si è trattato di scegliere il percorso di studi universitari non ho avuto nemmeno il coraggio di dire ai miei genitori quello che volevo fare veramente, ma mi sono avviata verso una professione più rassicurante per tutti. La scrittura però non l’ho mai abbandonata e non mi ha abbandonato. Ho continuato a fare entrambe le cose, a scrivevo segretamente, in solitudine, quasi con una specie di senso di colpa fino a quando poi a quasi 50 anni è scattato in me quel meccanismo che ti fa pensare: “adesso o mai più” e ho proposto dei testi a un editore. E così è cominciata l’avventura della pubblicazione.

(CB) Cosa significa per te scrivere?

(DDP) Gli scrittori sono delle anime danneggiate, io credo che la scrittura serva un po’ per quello, quindi per esprimere, tirare fuori da sé una sofferenza che non sarebbe tollerabile se fosse tenuta dentro nel chiuso della propria mente, e quindi è una malattia. Come mi ha scritto Michela Murgia  in una e-mail: “La scrittura è una malattia che si cura da sola”. Questo tentativo non è mai però completamente efficace, perché se lo fosse realmente uno scriverebbe un libro e la finirebbe lì, e invece è solo un sollievo immediato, temporaneo, per cui si è costretti a continuare a scrivere.

 

(CB) Quindi, parafrasando Freud che definiva l’artista come un “nevrotico salvato”, possiamo dire che invece lo scrittore è un nevrotico cronico?

(DDP) Sì, è un nevrotico cronico e la scrittura è una coazione a ripetere, di questo sono sicura.

 

(CB) La tua terra e la tua lingua d’origine sono protagoniste dei tuoi romanzi in modo molto marcato. L’Abruzzo è una terra che ha dato tanto alla letteratura italiana, e al tempo stesso una terra atavica, misteriosa, ricca di tradizioni popolari… Elementi chiaramente visibili nella tua scrittura. Qual è il rapporto che hai con questa terra?

(DDP) Un rapporto un po’ ambivalente. Credo che sia anche giusto rispetto alle proprie radici, alle proprie origini. Detto banalmente: è un rapporto di amore e odio perché ogni volta che comincio a scrivere, penso: “questa volta di Abruzzo ne mettiamo ben poco”, poi invece viene fuori in modo quasi autonomo. Quasi al di là della mia volontà questa terra si prende uno spazio importante e questo mi racconta la forza delle radici, delle origini, perché in fondo, come avviene per l’albero, la radice è quello che ti ancora e che ti tiene in piedi, ti sostiene, ma nello stesso tempo è quello che ti limita, che ti tiene fermo, e quindi io credo che le radici vadano assolutamente tradite.

 

(CB) Sempre rimanendo sul tema delle radici: volevamo farti una domanda sulla lingua del tuo L’Arminuta. Un aspetto interessante del romanzo è proprio l’utilizzo del dialetto e dell’italiano, quasi a tracciare un confine netto tra due mondi: quello arcaico della civiltà contadina e quello invece borghese della modernità. Senza voler scomodare grandi filosofi, si dice che i limiti del nostro linguaggio sono i limiti del nostro mondo, e che soprattutto riflettiamo nella parola il nostro pensiero. Quali sono, secondo te, queste differenze di concezione del mondo che si riflettono nella lingua arcaica del dialetto e nella lingua italiana di oggi?

(DDP) Ci sono, chiaramente, e sono molto d’accordo con questa citazione che hai appena fatto. Il dialetto racconta un mondo geograficamente stretto, non ha le parole per dire quello che c’è oltre i confini e non ha neanche le parole per molto altro. Almeno il mio, che è un dialetto periferico, marginale, e che non ha una grande dignità letteraria perché non è un dialetto unico. In Abruzzo si cambia dialetto in media ogni quattro chilometri, per cui anche quello è nello stesso tempo una ricchezza e un problema. Tutti questi dialetti non hanno per esempio le parole per raccontare l’affettività, le emozioni, o tutto quello che è astratto. Ma già Pirandello si lamentava di questo. Per me il dialetto, soprattutto in questo libro, è stato funzionale proprio per raccontare i limiti di questo mondo rurale, arcaico. La protagonista cade da un mondo borghese, che usa la lingua italiana, in un mondo arcaico che usa invece il dialetto; cade in un certo senso all’indietro. Per lei uno degli elementi più traumatici è proprio quello linguistico perché subisce un vero e proprio shock linguistico quando viene restituita ad una lingua limitata che non sa dire gli affetti e le emozioni.

 

(CB) C’è una cosa nel romanzo, a proposito di quello che hai appena detto, che è una trovata veramente geniale. E cioè il passaggio dalla borghesia, dalla vita moderna, alla vita contadina legata ancora ad un mondo arcaico. In genere accade il contrario, e quindi questo “cadere all’indietro” appare quasi surreale. Un altro tema importante nella tue opere, e quindi anche in L’Arminuta, è la maternità; tema molto ricorrente e quindi per te particolarmente sentito. Qual è il rapporto letterario che hai con la maternità? E che cosa vuol dire oggi essere madre nella società moderna che è così diversa da quella che tu descrivi?

(DDP) Sai bene che non è una domanda facile e non credo di avere una risposta. Credo di avere più domande e più dubbi a riguardo. Quello che so è che nella modernità cambiano le condizioni di realtà, ma non cambiano di molto le difficoltà dell’essere madre e dell’essere figli. Se lo devo riferire alla mia esperienza, per esempio, cambiano le condizioni reali dell’assenza delle madri. Io ho vissuto sulla mia pelle l’assenza di una madre contadina che viveva all’interno di un sistema di valori che la costringevano a non perdere tempo con i figli perché tale era considerato il tempo dedicato ai figli oltre lo stretto necessario che serviva per nutrirli e metterli a letto. Non c’era il tempo degli abbracci, delle carezze, del gioco, del dialogo con i figli perché le donne dovevano lavorare nei campi finché duravano le ore di sole, e poi la sera dovevano fare le casalinghe quando rientravano a case. Sto parlando di condizioni estreme che erano presenti in Abruzzo negli anni ’60 nella fascia pedemontana dove io sono nata e cresciuta. Sicuramento ora non c’è nulla di tutto questo, però quanto è diversa l’assenza della madre moderna che è una lavoratrice precaria che per campare deve fare tre lavori, lavorare ad ore o la cameriera… Io non credo che abbiamo completamente superato le difficoltà materiali e anche culturali inerenti alla condizione di madre.

 

(CB) Se dovessi parlarci di un ricordo particolare della tua infanzia, e cioè di un sistema di valori, di un mondo, dell’ultimo lembo di un continente di tradizioni e folclore che è ormai quasi del tutto sommerso, qual è la cosa che te lo fa tornare alla mente con più intensità, quel mondo arcaico e contadino di una volta?

(DDP) Gli odori scomparsi. L’olfatto è il nostro senso più arcaico e quindi se mi fai la domanda così, secca, io non ti racconto quello che antropologicamente potrei raccontarti di quel mondo. Quello che mi viene in mente di primo impatto è l’odore delle stalle così forte, penetrante, che ti rimaneva addosso, l’odore del formaggio pecorino, che era uno dei nostri cibi più importanti e l’odore del pane appena sfornato.

 

(CB) Tornando invece al libro. Premio Campiello, traduzione in molte lingue, grande successo internazionale. Te l’aspettavi un po’ o è stata veramente una sorpresa?

(DDP) Per me è stata una sorpresa, qualcuno se lo aspettava all’interno della casa editrice perché loro vedevano le cose da una posizione terza, quindi esterna rispetto a quello che magari lo scrittore non può vedere dall’interno, essendo “impastato”, identificato con il testo che ha prodotto. Loro magari vedevano le potenzialità di questo testo, magari la possibilità che lettori diversi potessero identificarsi con elementi diversi del romanzo.

 

(CB) All’inizio del romanzo c’è una citazione di Elsa Morante, e tu prima hai parlato di un’altra scrittrice che è Michela Murgia. Ci sono dei fili che collegano la tua opera con tutto un “sentire”, un filone letterario antecedente alla Morante e che arriva attraverso altri autori anche a te e Michela Murgia, e il confronto tra L’Arminuta e Accabadora viene allora quasi spontaneo, dato che entrambi trattato del rapporto con un mondo arcaico che ora non c’è più; un mondo che era quello tipico delle regioni italiane contadine. A quale scrittore dalla Morante ad oggi ti senti particolarmente vicina per comunanza di temi?

(DDP) In Italia, non lo faccio apposta, ma è uno scrittore abruzzese: Ignazio Silone. Per me Silone ha avuto un’importanza enorme in adolescenza quando ho letto i suoi libri con un’intensità particolare dovuta alla mia appartenenza al mondo che lui raccontava. A volte dico per scherzo che se non avessi letto Silone da giovane, sarei diventata una terrorista. Non so come avrei potuto farlo in quei posti, dato che non arrivavano nemmeno le notizie. Silone è stato importantissimo per incanalare una rabbia che mi cresceva dentro in quanto appartenente ad un ambiente sociale svantaggiato. Leggere Silone e trovare espressa nelle sue pagine questa sua rabbia che io sentivo dentro è stato importantissimo e credo sia stata anche una forte spinta, una forte motivazione a scrivere.

 

(CB) Mentre scrittori fuori dal contesto italiano?

(DDP) Quelli sono stati molti importanti, ma in età più adulta, per esempio Ágota Kristóf. La lettura della Trilogia della città di K. ha costituito un vero e proprio punto di svolta anche da un punto di vista formale perché essendo io madrelingua dialetto avevo sprecato anni e anni scrivendo in una forma che mi serviva soltanto per dimostrare a me stessa la padronanza della lingua italiana; quindi una forma ridondante, con periodi molto lunghi, pieni di subordinate… proprio perché dovevo dimostrare questo possesso della lingua nazionale venendo dal dialetto. Ad un certo punto quando ho letto la Kristóf è come se tutto questo castello mi fosse crollato improvvisamente tra le mani. È come se mi avesse detto: “va bene, adesso abbiamo capito che sai parlare e anche scrivere l’italiano, ma trovati una lingua tua”.

 

(CB) Tutte le figure maschili presenti in Arminuta, a modo loro sono figure in un certo senso negative. Forse l’unica che si salva è Vincenzo. È un caso o in questi anni in cui si parla tanto di femminicidio, di violenza dell’uomo sulla donna hai voluto dare un messaggio ben preciso?

(DDP) No, non è stata una cosa voluta. È vero che i personaggi maschili sono marginali da un punto di vista quantitativo perché se il romanzo è sulla maternità, sul vissuto dell’abbandono, le figlie… Allora è chiaro che i personaggi maschili hanno poco spazio. Qualitativamente sono d’accordo invece solo fino ad un certo punto perché Vincenzo, per esempio, è una figura eroica. Lui, Vincenzo, in una famiglia che potremmo iscrivere nella categoria verghiana dei “vinti”, si ribella e vuole il cambiamento, con quali mezzi non lo sappiamo, potrebbe essere un deviante, un ladruncolo… Tutt’ora non lo so. In fondo però anche il padre biologico dell’“Arminuta” non è una figura negativa; certo è un vinto, un ignorante e anche un violento, a momenti è brutale perché pensa che l’unico mezzo di correzione nei confronti dei figli siano le botte. Però questo padre dal fondo della sua ignoranza fa dei gesti importantissimi nei confronti della figlia che ritorna, e ritorna diversa perché cresciuta in un’altra famiglia.  Contravviene ad una delle poche regole che non si toccavano in quell’ambiente e cioè che i figli sono tutti uguali. Invece no, questa figlia che hanno dato via e che ritorna è diversa e sia lui, sia la madre decidono di preservare questa unicità, quindi decidono che quella figlia lì dovrà studiare. Sarà lui che l’accompagnerà in città per far sì che frequenti le scuole superiori, quindi parte dal paese con questa macchina tutta scassata, arriva nelle vie di Pescara dove tutti gli strombazzano perché non sa dove deve andare, ma lui arriva fino in fondo. Qui sta la sua vera grandezza, non vuole toccare i soldi sul libretto vinti dalla figlia in un concorso a scuola. Il padre dice che quei soldi non si toccano perché la figlia se li è guadagnati con l’intelligenza, con lo studio. Questi valori sono completamente estranei al suo mondo, ma lui ne riconosce il potenziale trasformativo.

 

(CB) Letteratura delle donne e letteratura degli uomini, qual è secondo te la differenza fondamentale tra la visione e l’interpretazione che la donna può avere del mondo e che descrive a livello letterario e quella che invece può avere un uomo. C’è questa differenza secondo te?

(DDP) Non lo so, io sono nemica di queste distinzioni anche se poi riconosco che, per esempio, personalmente vengo letta molto di più dalle donne che dagli uomini, forse perché è forte questo tema della maternità. Anni fa, però, mi è capitato di scrivere un racconto in cui l’io narrante era un uomo ed era anche un racconto erotico dopotutto. Cercavo di raccontare la sessualità da un punto di vista maschile, sono distinzioni difficili e forse anche pericolose perché in fondo ognuno di noi anche al di là del proprio genere ha anche molte parti dell’altro, per cui se uno scrittore maschio coltiva e conserva delle parti femminili può scrivere una letteratura quasi femminile e viceversa. Se devo basarmi sulla mia storia, io mi sono sentita molto più discriminata per l’appartenenza sociale che per l’appartenenza di genere.

 

Mauro Ruggiero, Monica Falaschi.

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