Donna eccentrica, paradossale, insolita, misteriosa, coraggiosa, riservata, questi gli aggettivi con cui Vivian Maier viene descritta nel documentario “Finding Vivian Maier” dalle persone che l’hanno conosciuta, ancora incredule di fronte alla rivelazione di come tanto talento potesse nascondersi dietro una persona come lei .
Con i suoi 150.000 scatti, rimasti nell’ombra per anni e portati alla luce solo per caso nell’inverno del 2007 da un giovane agente immobiliare che ignaro del tesoro trovato comprò all’asta le sue scatole di negativi mai sviluppati, Vivian è ad oggi considerata una delle più apprezzate street photographer del XX secolo.
Si guadagnava da vivere lavorando come nanny per le famiglie dell’upper class newyorkese e nel tempo libero assecondava il suo istinto andando in giro con l’inseparabile Rolleiflex 6×6, restituendoci un magnifico spaccato dell’America a cavallo tra gli anni ’50 e ’60. Ritraeva le metropoli in cui viveva, facendo attenzione ai dettagli, alle imperfezioni, immortalando eccitanti sorrisi dei bambini, volti senza speranza dei senzatetto, mani che teneramente si sfiorano, un gesto tra la folla, lo scorcio di un edificio, geometriche gonne di donne facoltose, bambole monche gettate nei cassonetti. Il suo lavoro mostra subito una grande comprensione della natura umana, in tutte le sue sfaccettature. Aveva un senso della tragedia, ma anche dell’umorismo, del calore, della gioiosità. Vivian amava il mondo e vi si avvicinava con uno sguardo estremamente curioso, proprio di chi è capace di entrare nello spazio di uno sconosciuto e farlo sentire a proprio agio con se stesso dando vita ad un momento in cui due presenze vibrano insieme e si riconoscono l’una nell’altra.
Vivien amava il mondo, lo fotografava ma lo ha vissuto sempre in incognito, scegliendo di rimanere nell’ombra, di non esporsi, di non pubblicare mai le sue foto, di evitare il confronto, anche con se stessa, forse solo per paura di essere rifiutata o per paura di scoprirsi veramente. Incapace di stabilire un contatto diretto con se stessa utilizzava qualunque specchio o superficie riflettente per auto fotografarsi.
Proprio questi numerosi autoscatti hanno portato la Maier ad essere definita come “l’antesignana dei moderni selfie” ed in effetti le sue fotografie, sebbene scattate decenni fa, dicono molto sul nostro presente. Come Maier usò il linguaggio della fotografia per dare un senso alla propria esistenza così noi oggi attraverso le immagini definiamo noi stessi. La fotografia infatti, risponde ad un’esigenza umana che più di ogni altra ha a che fare con la nostra identità.
Ma cosa differenzia la Maier dal popolo di uomini e donne che con braccia tese reggono in mano uno smartphone puntato su sé stessi? Il fine.
La Maier non si reputava un’artista, si limitava a scattare foto per il piacere di fotografare senza preoccuparsi di accontentare alcun pubblico. Lo fa per se stessa. Il suo scopo non è mettersi in mostra, i suoi autoritratti non sono mai autocelebrativi, piuttosto sono un modo per sottolineare quanto anche lei facesse parte del mondo che passava davanti al suo obiettivo alla ricerca del senso profondo delle cose. La Maier, parafrasando Pennac, fotografava per continuare a guardare.
Invece nell’era del selfie, per un processo di eterogenesi dei fini, non si fotografa più per fotografare ma per condividere, alla ricerca dello scatto perfetto, in cui “quello che vorrei si credesse che sono” coincide con “quello che io credo di essere”. In questo modo affidiamo agli altri la certificazione della nostra esistenza, è un “vivere come se” ed è molto pericoloso perché ci porta a fuggire da noi stessi con continue iniezioni di narcisismo.
Se narciso però, nel mito che prende il suo nome, finisce per rimetterci la pelle perché incapace di riconoscere se stesso riflesso nell’acqua, nell’era dei social finirebbe per rimetterci la pelle terrorizzato dal fatto che nell’acqua che lo riflette non vedrebbe nessuno.
Pasqualina Aliperta