Capita raramente di poter incontrare personaggi di questo calibro. È stato per me quindi un grande onore avere l’opportunità di intervistare il professor Umberto Galimberti, arrivato a Praga per la presentazione del suo libro L’ospite inquietante, tradotto in ceco e curato da Zdenka Sokolíčková. Nella piacevole cornice barocca del cortile dell’Hotel Alchymist con il professore abbiamo discusso non solo dei temi toccati dal libro, il nichilismo dei giovani, ma anche delle questioni più attuali della società, di politica, filosofia ed economia. Il risultato è un’intervista lunga ma densa di contenuti che invita ad ulteriori riflessioni. Spesso accusato di essere eccessivamente pessimista, in realtà nella sua disanima lucida e scevra da ogni ipocrisia intellettuale o perbenismo morale possiamo ravvisare quel riconoscimento del reale quale oggettivamente è e che può indicarci la strada per una nuova rinascita umanistica.
Per cominciare, professor Galimberti, chi è l’ospite inquietante?
L’ospite inquietante si chiama Nichilismo. Heidegger dice che è inutile metterlo fuori dalla porta, bisogna guardarlo bene in faccia. Secondo Nietzsche esiste il Nichilismo quando manca lo scopo, manca la risposta al perché e tutti i valori si svalutano. A differenza di quello che solitamente si pensa i valori non sono delle entità metafisiche trascendentali, sono semplicemente dei coefficienti sociali grazie ai quali una società sta insieme con la minor conflittualità possibile. Che i valori trasmutino, quindi, non è un problema, se nella storia non fossero mai trasmutati saremmo ancora all’epoca greco-romana. Il problema nichilistico insorge quando i valori che hanno organizzato una società non funzionano più e non ne nascono di nuovi, ovvero vengono a mancare il punto di riferimento e i parametri orientativi. Manca poi lo scopo, ovvero il futuro non è in vista, non promette niente, per i giovani non è una promessa ma una minaccia. Da questo punto di vista potremmo introdurre una considerazione interessante: nella cultura occidentale il futuro è sempre stato vissuto come assolutamente positivo, mentre per la cultura greca positivo era il passato, l’età dell’oro. Il cristianesimo ha introdotto questa configurazione nel momento in cui ha detto agli uomini “voi non morirete mai”, cioè ha garantito loro la vita eterna che è una promessa nel futuro. Questo è stato l’imprinting per tutta la cultura occidentale, è molto importante tenerlo presente perché per la visione cristiana il passato, il peccato originale, è male, il presente è redenzione e il futuro è salvezza.
Questo concetto è trapassato pari pari nella scienza, per cui il passato è ignoranza, il presente è ricerca e il futuro è progresso. Lo stesso è avvenuto nel Marxismo dove il passato è la società ingiusta, il presente è la rivoluzione e il futuro è la giustizia sulla terra. È passato nell’ateo Freud: il passato è trauma, il presente è analisi e il futuro è guarigione. Quindi tutti gli aspetti della cultura occidentale sono cristiani, cioè hanno una spinta ottimistica verso il futuro.
Dunque, questa dimensione è stata l’elemento propulsivo della cultura occidentale che, grazie a questa enorme iniezione, le ha consentito di non fermarsi come è successo all’Islam o all’India. Il fatto che questa generazione si trovi senza futuro non è solo una cosa che sbanda un po’ tutti, c’è una forma di disorientamento molto pesante. Manca poi lo scopo. Scopo è una parola che deriva dal greco scopeo, ovvero guardare un obiettivo, puntare un bersaglio. Se io non vedo niente, il futuro non retroagisce come motivazione, questo spinge i giovani a vivere nell’assoluto presente.
La terza proposizione dice che manca la risposta al perché. La domanda perché sto al mondo trova una risposta se ho qualcosa da raggiungere, se non ho davanti niente cado nell’inedia e nell’insignificanza, o quantomeno mi assento dall’esistenza ricorrendo ad espedienti che si chiamano alcool, droga, dormire di giorno e star svegli di notte, e questo è veramente devastante.
Lei che conosce bene i giovani pensa che questa situazione sia più inquietante per gli adulti o per i giovani stessi? C’è una differenza nella percezione di questa inquietitudine?
I genitori si preoccupano per i figli, ma questi, per il momento, non drammatizzano eccessivamente perché sanno che, dopo tutto, la famiglia li può ancora sostenere. Per la prima volta nella storia lo stato sociale oggi è a carico delle famiglie e per la prima volta nella storia i figli non diventeranno più ricchi dei padri, e quando i figli avranno consumato tutte le risorse dei padri allora non questa, ma la generazione successiva comincerà a soffrire il disastro economico. L’Italia, per esempio, ha un enorme debito pubblico ma ha anche un enorme credito costituito dal risparmio privato delle famiglie. Quando questo risparmio servirà a mantenere i figli, allora il debito pubblico sarà a rischio.
Proviamo a parlare di colpe. A chi dobbiamo questa situazione? Dove ha avuto origine?
Inizierei introducendo la categoria molto elementare della tecnica. La tecnica sostituisce la manodopera e i posti di lavoro, il computer e l’automazione svolgono funzioni che un tempo richiedevano manodopera.
Oltre alla tecnica il secondo fattore importante è costituito dalla finanza. Aristotele diceva che il denaro non può produrre denaro perché il denaro non è un bene ma è il simbolo di un bene, oggi la finanza ha tradotto il denaro in un bene. Il denaro si moltiplica scambiandosi con se stesso indipendentemente dalla produzione. Abbiamo un’economia fatta sostanzialmente di finanza, e allora se uno in dieci minuti guadagna quello che un altro lavorando guadagna in un mese è chiaro che poi passerà le giornate al computer a giocare in borsa. Questo sganciamento del denaro dal momento produttivo, questo riciclo del denaro con se stesso, è un altro fattore che ha determinato questo stato di cose.
Il terzo fattore è la globalizzazione che ha sradicato tutte le tradizioni, ha delocalizzato, ha creato la nuova schiavitù spostandola altrove. E noi che eravamo i cosiddetti operai specializzati non siamo più specializzati in niente perché è sufficiente l’automatismo delle macchine e chi le fa. La globalizzazione ha creato le condizioni di schiavismo che il Terzo Mondo non vive come tali perché prima stava pure peggio ma noi viviamo la disoccupazione.
Come inquadra il problema della gerontocrazia? Dal punto di vista del singolo l’invecchiamento della popolazione è una cosa positiva perché si allunga la nostra aspettativa di vita, ma questo non fa sperare che in futuro ci sarà maggiore attenzione per i giovani, anzi.
No, l’invecchiamento della popolazione ha rotto il ciclo perché prima c’erano padri e figli, solo negli anni ’50 si moriva a sessant’anni, per questo anche le pensioni stavano a regime. Il mio suocero è morto a 98 anni, è costato molto all’INPS! Qui la colpa grave è della medicina che ha sballato il ciclo biologico, la nostra vita è sostanzialmente programmata sui 40-50 anni, ma la medicina ci tiene in vita altri 30 anni in più e lo fa male. Non si deve mai dire che ha allungato la vita, semmai ha allungato la vecchiaia perché la vita è un’altra cosa. Quando non hai più autosufficienza, sessualità, accudimento, affetti, non sei più presentabile, a quel punto sei fuori dal sociale. Il vecchio diventa un problema per i figli, e così prosperano le case di cure dietro le quali c’è un business enorme per curare gli anziani che poi muoiono male.
Gli anziani che invece stanno bene sono quelli che detengono il potere. Abbiamo una classe politica anziana, il nostro presidente della Repubblica ha 88 anni, Berlusconi ne ha 78. Non so se hai mai visto le immagini dei giudici della Corte Costituzionale: sono vecchissimi e decidono della liceità delle leggi, sono loro il potere. Quindi abbiamo i padri che hanno 50-60 anni che ancora aspettano che muoiano i nonni e i giovani restano giovani fino a 40 anni. Guarda l’università dove ci sono ricercatori che hanno 50 anni, ma cosa vuoi ricercare a 50 anni? Abbiamo allora questa terza generazione che non sono i nonni che curano i nipotini, ma sono i nonni che hanno ancora il potere e questa è una cosa impressionante. È venuto meno il ricambio economico, prima morto il padre il figlio ereditava, adesso deve aspettare che prima muoia il nonno ed erediti il padre, e il figlio intanto aspetta. E i padri non danno le case dei nonni ai figli, se le vendono perché è una vita che aspettano l’eredità, è una cosa spaventosa. La terza generazione è una sciagura anche perché non abbiamo parametri per tre generazioni. Nella nostra storia le generazioni sono sempre state due: i padri e i figli, non c’è mai il nonno. C’erano le guerre, le carestie, la cattiva alimentazione, non c’erano le medicine, e allora padre e figlio e basta!
Certo, nessuno di noi vuole morire, però son vite quelle lì? E soprattutto che disastro sociale si determina con questo trattenimento del denaro nella parte anziana della popolazione. In Italia siamo arrivati ad un lavoratore ogni tre non lavoratori
Quindi esiste una relazione diretta tra l’invecchiamento della popolazione e il dinamismo economico di una società?
Assolutamente sì, anche perché non siamo preparati a gestire tre generazioni, non è mai successo, questa è la novità assoluta dei nostri tempi. Quindi abbiamo i fattori economici che ho elencato prima e quelli generazionali. Come dicevamo ieri a me fa impressione che l’organismo sociale non utilizzi questo enorme potenziale biologico, sessuale e intellettuale dei giovani.
Non a caso si dice che la Primavera araba sia legata anche al fatto che ci sono percentuali molto alte di giovani insoddisfatti.
Proprio così. Nel nostro caso possiamo poi aggiungere che di rivoluzioni non ne possono più accadere. La rivoluzione può avvenire quando hai un nemico identificabile, che sia politico come il dittatore, o economico come il padrone. Adesso operaio e padrone sono dalla stessa parte e hanno come controparte il mercato, ma chi è il mercato?
Secondo molti psicologi nei loro atti estremi e pericolosi, e questo vale soprattutto per i maschi, i giovani cercano anche una sorta di rito di iniziazione, ovvero di passaggio all’età adulta. Quali alternative possiamo offrire loro affinché diventino adulti senza doversi abbandonare alla violenza?
Una volta c’era il servizio militare ma adesso hanno eliminato anche quello. Il rito di iniziazione è una cosa importantissima perché costituisce la separazione dal mondo familiare, allo stesso modo come per nascere ci dobbiamo separare dal ventre di nostra madre. Io istituirei per tutti, maschi e femmine che siano, un anno di servizio civile serio in cui vai a curare gli anziani, a pulir le strade. Ad esempio in Jugoslavia all’epoca di Tito ho visto d’estate i ragazzi lavorare sulle autostrade, dormivano lì, facevano l’amore, si divertivano, ne facevano di tutti i colori, però la mattina andavano a lavorare e facevano un pezzo di strada, queste erano le loro vacanze. Se tutti i giovani fossero impegnati a lavorare, anche in modo manuale, se ad esempio eliminassimo nelle nostre scuole i bidelli e costringessimo i ragazzi a pulirsi la loro aula, perché sono esonerati da tutti i lavori manuali? Quindi come rito iniziatico io proporrei il servizio civile obbligatorio: 12 mesi al servizio della società.
Faccia conto di avere davanti un giovane vittima dell’ospite inquietante. Cosa gli consiglierebbe da filosofo, padre, nonno, magister vitae?
Come prima cosa gli direi di andare al mercato ortofrutticolo a scaricare cassette affinché inizi a rendersi conto che tutto quello che può fare non lo può chiedere al padre o alla madre che gli danno i soldi, ma che deve cominciare a guadagnarseli da solo. È fondamentale il concetto di autosufficienza. Anche il lavoro che fai per guadagnarti i soldi per andare in discoteca ti pone già un limite a quello che puoi spendere. Questi giovani invece sono gratificati in termini monetari in una maniera impressionante a partire dalle cariche dei telefonini fino alle mance settimanali, i genitori glieli danno perché hanno paura del peggio. Questa è la realtà: i genitori hanno paura dei loro figli. Io feci così: eravamo poveri e così sono andato a fare l’operaio per un anno in Germania e ho tirato su i soldi per andare al Goethe, perché no? Chi ha detto che dobbiamo lavorare solo con la testa? Il concetto è che l’autonomia il giovane non la guadagna solo facendosi i fatti propri o opponendosi ai genitori, ma anche guadagnando quello che vuole spendere
Pensa che il declino della nostra civiltà vada di pari passo con il declino dell’importanza della filosofia? Nella società di oggi la filosofia viene percepita come un orpello, un passatempo, un gioco inutile se vogliamo, storicamente invece i filosofi in qualche modo dettavano la linea, la discussione, il dialogo…
Sì, la filosofia è un luogo dove sviluppare la mente ed articolare il pensiero. Possiamo assumerla come una metafora del fatto che dobbiamo fare cultura, e possibilmente cultura umanistica perché il lavoro, soprattutto quello tecnico, lo impari in tre mesi ma costruire un uomo, che poi sia uomo per qualsiasi orizzonte, deve essere fatto inevitabilmente con la cultura umanistica che ti dà quella consapevolezza di te e quel senso di te. Per me la filosofia è utilissima, tra l’altro sembra sia un evento naturale, non è un caso, infatti, che i bambini a 4 anni comincino a cercare il principio di causalità. Un mese fa ero nella galleria Vittorio Emanuele a Milano e ho sentito un bimbetto dire alla mamma: “secondo me Dio non esiste perché non ha una mamma”, quel bambino stava cercando il principio di causalità. Questo è un buon meccanismo di difesa perché se so che la causa produce un effetto, quando vedo l’effetto non mi spavento perché l’ho già anticipato conoscendone la causa. I principi filosofici sono nati per seppellire l’angoscia. La filosofia, dunque, è essenziale, io la metterei in tutte le scuole. Lo stesso Freud non avrebbe inventato la psicoanalisi se non fosse andato a scuola da Brentam insieme a Olse, è lì che ha capito che la coscienza non è una cosa ma un’intenzionalità nei confronti del mondo. È importante abituare il pensiero, oggi il problema grosso è che i ragazzi non pensano.
Questo vuoto di valori non potrebbe rappresentare anche uno spazio nuovo da riempire finalmente con valori positivi non più oberati dal peso delle vecchie ideologie, non potrebbe essere un nuovo inizio?
Dal mio punto di vista le ideologie non erano delle brutte cose finché non diventavano poteri politici. Le ideologie erano pur sempre luoghi di passione, oggi le passioni si svolgono solo a letto, una volta si svolgevano in piazza. Io penso che con le ideologie abbiamo buttato via anche le idee. Ma al di là dell’estremismo ideologico, l’ideologia è pur sempre un luogo di appartenenza e l’appartenenza è una categoria antropologica molto importante perché ognuno di noi ha bisogno di identità e appartenenza. In mancanza di appartenenza uno si iscrive alla bocciofila, se è più ricco si iscrive al Rotary, ma l’appartenenza di pensiero è una cosa completamente diversa. Dopodiché le ideologie sono finite, ma solo apparentemente. Io per esempio considero un’ideologia anche il capitalismo sfrenato: il mercato è un’ideologia, non è una legge di natura come ci vogliono far credere. E allora apparentemente le ideologie sono finite, ma funzionano ancora.
Ieri parlava della differenza tra una storia e una mitologia. Oggi abbiamo ovunque tante storie, Internet è pieno di blog che grondano storie, ma manca forse la mitologia. Qual è la differenza tra storia e mitologia nel loro ruolo di insegnamento alle emozioni che ci spiegava ieri?
La letteratura è il sostituto della mitologia. Quando leggi un romanzo vai in un altro mondo. Il romanzo ci incuriosisce perché ci permette di percepire un mondo che non avremmo neppure sospettato, se invece il mondo che il romanziere ti descrive è già il tuo, allora chiudi il libro. E allora perché non allargare i mondi e la visione del mondo? Quando lo fai vedi che quel personaggio ha risolto il dolore in quel modo, quindi quel tipo di dolore è trattabile secondo quella modalità. Ieri ho tirato in ballo la mitologia per dire che la mitologia era un luogo dove venivano rappresentate passioni, sentimenti ed emozioni. Oggi non possiamo più tornare al mitologico, ma abbiamo il letterario che può svolgere benissimo questa funzione di educazione al sentimento.
Torniamo al rapporto col denaro. Non sono forse i giovani più onesti di noi quando vendono il proprio corpo mentre noi ci comportiamo come se il denaro non fosse importante anche se poi, in realtà, nella nostra vita all’atto pratico lo riconosciamo come l’unico valore? Mi pare che i giovani siano più onesti perché fanno quello che facciamo noi ma senza raccontarsi balle.
Sì, sotto questo profilo è vero. C’è da dire anche che oggi i giovani sono diventati molto esigenti, non fanno più niente per niente, mentre noi facevamo anche qualcosa per niente perché ci animava una passione. Lo stesso Freud, quando si iscrisse alla specializzazione in neurologia, lo fece due anni senza stipendio, ma aveva la passione. Quando il suo professore gli disse “Dottor Freud, lei è troppo povero per fare la carriera universitaria, faccia qualcos’altro”, allora abbandonò. Ma prova oggi a trovare qualcuno che faccia il ricercatore per passione o senza una borsa di studio. Io sono contento che loro prendano i soldi, però se il soldo sostituisce la passione, se fai le cose solo per soldi e non per passione, allora sei già disanimato.
Abbiamo parlato anche di papa Francesco che paradossalmente suscita interesse anche in un paese come questo dalla radicata cultura atea. Che svolta può portare quest’uomo? Quanta speranza abbiamo il diritto di riporre in lui?
Io ne riporrei tanta perché il modello di questo papa è di agire secondo l’essenza del Cristianesimo: l’amore e la carità, la comprensione e l’accettazione, e l’accoglienza del prossimo. Questo è lo sfondo. Mentre i papi precedenti difendevano la dottrina più che la persona. Questo spostamento sarà significativo se riesce ad affermarsi e se vivrà abbastanza a lungo da radicarlo e renderlo diffuso in modo che la fede non si riduca alle adunate in San Pietro, che sapevano fare bene anche Mussolini e Stalin, e che non sono atti di fede ma di mitologia e di culto della persona. Quindi sotto questo profilo direi di sì. Per quanto riguarda gli atei non li considero in maniera significativa perché si limitano a dire che Dio non esiste: va bene, e poi? Tra “Dio esiste” e “Dio non esiste” siamo sempre nel ciclo religioso. Più che di credente o ateo io parlerei di uomo giusto e uomo ingiusto, uomo etico e uomo non etico laddove l’etica è ancora riassumibile in quella regola aurea, che non è solo del Cristianesimo, “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”. Tutti i comandamenti potrebbero essere condensati in questa regola aurea riconosciuta anche dal Buddhismo, l’Induismo e il Taoismo. Io quindi metterei l’etica innanzi al fenomeno della fede, quindi il fenomeno dei giusti. A Milano abbiamo il Giardino dei Giusti.
Conosco bene il progetto, lo sto portando avanti anche qui a Praga.
Il concetto di giusto è più universale rispetto a quello del credente. Anche papa Francesco ha un’ospitalità nell’esser giusto, e allora la Chiesa non è più una setta che ha le sue idee e che ti impone i suoi precetti ma si inserisce in questo canone fondamentale dell’esser giusto o ingiusto che è comprensibile a tutti perché è il fondamento della morale.
Lei parla dell’Etica del viandante. È una via di uscita o è solo un modo di adattarsi all’inevitabile?
Di fondo l’etica del viandante è un modo per adattarsi alla situazione attuale, però ha in sé un valore che consiste in questo: devo attraversare un fiume e il viandante deve decidere se attraversarlo qui o altrove, se fare una barca o un ponte, deve prendere una decisione. E se hai deciso qui, vuol dire che hai ucciso quell’altra parte. Decidere è uccidere, è drammatico. E infatti quando uno deve decidere di solito sta male, si tormenta. Però questo sviluppa un senso di responsabilità. Ciò è importante in una società deresponsabilizzata dove non si decide, queste sono le regole, si fa così e così. Il processo decisionale è diventato carente perché si è sviluppato un concetto di libertà che non è scegliere una strada ma è revocare le scelte. Se mi sposo, divorzio; se rimango incinta abortisco; faccio questo lavoro e torno indietro. La revocabilità delle scelte non consente di costruire una biografia. Vogliamo sempre avere una porta aperta. Vedi i giovani, per esempio, che stanno insieme 5, 6, 7 anni e non si sposano perché quella è una scelta. L’etica del viandante, invece, ti obbliga a decidere perché se non vai là dove c’è il grano da raccogliere, muori di fame. Questo ci impone di sviluppare la categoria della decisione. Naturalmente la decisione funziona se alla base sei informato: la cultura ti fa decidere bene, l’ignoranza ti fa decidere male.
Approfondendo il tema della decisione possiamo parlare anche del problema del padre mancante nella società. Con Dio non abbiamo ucciso anche il padre e l’autorità? Non siamo diventati una società troppo femminile che ha paura di tutto e che cerca disperatamente di assicurarsi contro ogni rischio e pericolo? Mentre decidere, come dicevamo, è prendere una strada ma assumersi anche il rischio di sbagliare.
I padri sono spariti perché è subentrata questa cultura del giovanilismo dove i padri fanno i giovanotti, fanno gli amici dei loro figli ed è una cosa nefasta perché così perde l’autorità. E l’autorità non funziona perché tu dai dei consigli ai figli, la figura dell’autorità funziona sulla base dell’esemplarità. Il figlio deve vedere in te un uomo, gli amici se li sceglie lui, in te deve vedere un modello, che sia in negativo o in positivo, ma che sia stabile. Tieni conto che i giovani hanno una fame enorme di autorità. Per esempio quando insegnavo non sono mai uscito a mangiare una pizza con i miei studenti. E non è vero che se sei un professore che dà bei voti allora sei bravo. L’insegnamento vero lo vedi quando il professore è davvero dentro le cose che ha studiato, e non te le insegna solo perché le ha studiate, e quando egli stesso adotta un comportamento che funziona. Allora siccome i padri da un lato sono diventati amici dei figli, adesso hanno paura di loro, hanno il terrore dei figli quattordicenni che se non gli vanno incontro e gli dicono di no chissà cosa succede. I padri sono in una condizione di impotenza, sono stati distrutti da questa cultura del giovanilismo, forse anche perché prima avevano esagerato facendo i padri padroni. I padri di oggi dovrebbero ricordarsi che l’autorità deriva dall’esempio: i figli non gli daranno mai ragione, ma poi il padre ritorna e finisce per costituire la figura del figlio.
Analfabetismo emotivo: a livello storico il Nichilismo di cui parliamo esiste da circa due secoli. Eppure, se guardiamo al passato, i nostri padri non gettavano i sassi dal cavalcavia. Quando sono cambiate le cose?
Nietzsche ha annunciato nel 1888 la dimensione del Nichilismo, il riferimento era il crollo di tutti i valori tradizionali che avevano governato l’Occidente per duemila anni. Nietzsche diceva “mi capirete tra 50 anni”, lo abbiamo capito dopo 130 quando siamo entrati in questa dimensione. Io farei nascere il Nichilismo dopo la seconda guerra mondiale; lasciamo passare gli anni Cinquanta e Sessanta che erano gli anni della ricostruzione. Prima vivevamo in una società fortemente umanistica: Stalin, Hitler, Mussolini erano dimensioni di una cultura fortemente umanistica dove un uomo poteva risolvere tutti i problemi. Oggi non ci crede più nessuno, tutti sanno che anche Obama, il presidente degli Stati Uniti, è il rappresentante di meccanismi che stanno alle sue spalle e non del popolo. Allora l’Umanesimo è finito, lo diceva già Heidegger. Il collasso dell’Umanesimo fa sì che funzionino gli apparati, ma gli apparati non sono individuabili come gli uomini. E quindi, per tornare alla domanda, una volta venuta meno l’identificazione con il padre e non potendoti identificare con un apparato astratto, finisci per identificarti con i tuoi soci. Questo è importante perché se mi manca l’identificazione col padre o col professore, dato che la mia identità è data dal riconoscimento, mi riconosco nei miei amici, e così finisco per fare quello che mi dicono loro, o da leader o da gregario. Torniamo dunque al bisogno di appartenenza e di riconoscimento. Se io ad un bambino dico che è un cretino questi si costruirà un’identità negativa, se invece gli riconosco tutti i passi che fa, lui comincerà a costruirsi un’identità positiva. L’identità è un prodotto sociale, non è una dota di natura. Quando nasciamo non abbiamo un’identità, la acquisiamo attraverso il riconoscimento degli altri.
Si parla molto di liberalizzazione delle droghe, c’è un dibattito acceso, sappiamo che l’Uruguay ha liberalizzato la marijuana. È un’arresa davanti a questo fenomeno o è un modo per includerlo nella società?
Dato che oggi la droga è in mano alle mafie, se vogliamo far fuori la mafia dobbiamo liberalizzare le droghe.
O non vogliamo forse liberalizzarla solo per riprenderci i soldi che vanno alle mafie?
Be’, già questo non sarebbe male visto che si parla di 130 miliardi all’anno! I proibizionismi non sono mai stati efficaci. La liberalizzazione è certamente un rischio, però il proibizionismo è uno stimolo al desiderio. In un contesto liberalizzato dopo una crescita iniziale ci sarà una regolarizzazione. Io fumo, mia figlia fuma ma mia nipote che ha tredici anni mi chiede “ma perché hai cominciato? Capisco che ora non ne puoi più fare a meno, ma allora cosa successe?” io sarei per la liberalizzazione di quelle leggere che tanto se le fumano lo stesso. Per quelle pesanti farei una cultura della droga mostrando cosa succede a chi la assume. Però attenzione, più che tra leggere e pesanti distinguo le droghe tra anestetizzanti ed eccitanti. Le prime vanno dall’hashish all’eroina, chi si anestetizza? Chi non vuole stare in questo mondo dove non è chiamato per nome, dove non è convocato mai. E invece chi vuole eccitarsi? E allora siamo nel mondo del lavoro dove ogni anno ti alzano l’asticella degli obiettivi e ti trovi nella condizione di dover chiedere a te stesso non più “è lecito o proibito?” ma “ce la faccio o non ce la faccio?” Siamo passati da una società della disciplina fino agli anni ’60-’70 dove il gioco era permesso-proibito, ubbidisco/trasgredisco ad una società del ce la faccio/non ce la faccio e se non ce la faccio prendo la cocaina che mi dà energia, ma questo è un indotto dell’efficientismo americano con cui è organizzato il mercato: essere ovunque, con il pc sempre acceso, il sabato e la domenica non esistono, e a quel punto ci sono le droghe che ti aiutano. I risultati possono essere due: o sono escluso dalla società e mi drogo o bevo per non vederla oppure sono incluso nella società e allora devo vincere i miei concorrenti perché di fianco alla mia scrivania non c’è più il mio compagno di lavoro ma il mio competitor. Quindi c’è una giustificazione per l’assunzione delle droghe che spiega il momento induttivo. E così a mia nipote rispondo “ho cominciato a fumare a 18 anni quando studiavo diritto pubblico che era una cosa così noiosa che ho cominciato con 5 sigarette al giorno, non mi piacevano ma mi stimolavano, poi dopo non ho più smesso”.
Gliela possiamo dare una speranza ai lettori?
Per avere speranza, che è una virtù cristiana, la prima operazione da fare è rendersi conto che la realtà è questa e invece di liquidarla dicendo “Galimberti è pessimista” proviamo a veder se non c’è un realismo. Come dice bene Heidegger: l’ospite inquietante non va messo alla porta, che vuol dire rimozione, va guardato bene in faccia. Se mi muovo in un paesaggio di cui non conosco la mappa mi muovo a caso e vado a sbattere contro gli ostacoli, allora la prima condizione è guardare bene in faccia l’ospite inquietante.