In quel periodo le donne erano una sola entità piena di forme e odori diversi, distanti. Avevo parecchio sesso arretrato, che si accumula come i debiti, come i sentimenti. Come le ingiurie e la poesia. Stavo registrando I giorni del gomitolo, il mio primo disco, e costringevo tutti ad allinearsi ai miei orari; si entrava in sala alle sette del mattino. Se non ti alzi presto, poi non venirmi a raccontare della tua voglia di vivere, perché ti renderesti poco credibile. Quell’orario, sicuramente anomalo per l’ambiente – anomalo ma non ero il solo a fare così; spulcia le biografie dei miei colleghi, se sei un guardone contemporaneo – divenne il parametro con cui scegliere i miei musicisti. Di quella prima formazione, sono stati con me, fino all’ultimo, Aldo alla chitarre, Giorgio al contrabbasso e Paolo alle tastiere; gli altri avevano troppo sonno, oppure non servivano alla piccola causa che per comodità chiamo musica. Ad ogni modo, fu per questa mia ostinazione a iniziare presto le cose e, credo, per questa forma di schietta autorità, che presero a chiamarmi lo sveglio. Non mi è mai piaciuta l’idea del vediamoci, ci siamo simpatici, suoniamo assieme che sicuro vengono fuori belle cose. Non è la simpatia a fare di un musicista, un bravo musicista; né è la simpatia a renderlo empatico mentre suona. Credo sia una cazzata questa storia dell’empatia personale, perché quando si suona si è sempre un’altra persona, almeno un po’. Come quando scopi: ti estendi fino a essere, in parte, altro. E quella differenza, è stata l’unica cosa ad avermi sempre interessato. Ho suonato con gente che si faceva di eroina, con altri che andavano in chiesa ogni giorno, ho suonato con gente con cui non ho condiviso altro che la professione, e altra ancora che, finite le prove o i concerti, si stava poi a parlare e bere fino a tardi, ma tutti avevano le due sole caratteristiche per me fondamentali: essere bravi e presenti, e svegliarsi presto al mattino quando si prova o registra. Il legame tra artisti è questo per me; il resto non è mai stata roba mia. Andavo a sentire i musicisti in giro, per scegliere quelli adatti, li conoscevo e spiegavo con calma e decisione cosa avevo in mente e gli orari che seguivo. Del resto, anche allora c’era chi faceva l’artista per svegliarsi tardi o guardarsi allo specchio con un minimo d’ammirazione; nulla in contrario, ma era meglio chiarirle il prima possibile, certe cose. Aldo Cusì, il mio produttore di sempre, l’ho conosciuto per caso. La fortuna è stata dalla mia parte fin da subito, perché non mi ha fatto paura. Aldo, ancora oggi, è uno squalo che coi suoi figli perde tutti i denti. Allora accettò l’idea di pagarmi da vivere durante le registrazioni, così mi affrancai dal lavoro di barista che facevo. La liberazione avviene quanto meno te lo aspetti, a me andò che Aldo stava facendo colazione da noi, con altre cinque o sei persone. Finito di bere il suo caffè, passò alla cassa per pagare. Io sapevo chi fosse, ma non lo conoscevo. L’avevo visto un paio di volte, lavorava già con un paio di nomi importanti. Una volta battuto lo scontrino, dietro ci scrissi un verso de un postino, aggiungendo la canzone gira facile in beguine. Voglio cantare e suonare in italiano. Se fossero state meno persone a mangiare cornetti e bere cappuccini, probabilmente non ce l’avrei fatta con lo spazio sulla carta. Ad ogni modo gli passai il conto e lo salutai, lui pagò e intascò resto e fattura. Il pomeriggio fece ritorno al bar, per capire cosa ci fosse di vero in quella mia volontà. La sera stessa ero a casa sua, con la chitarra e una bottiglia di aglianico. Gli suonai un postino, completa. Gli suonai sogno italo-americano. Da quella sera in poi non ho più smesso di suonare per lui, né lui ha più smesso di sostenermi e di invitarmi a cena. Dalle sette del mattino alle sette di sera suonavo e mi conoscevo, per il resto del tempo ero a casa o in osteria. Così andavano quelle giornate gonfie di pragmatica bellezza, e Giada era una biondina che non lasciava scampo manco a un frigido convinto, figuriamoci a un barista arrapato appena rimesso in libertà e con dieci canzoni da chiudere. La incontro appena uscito dalla sala registrazione, mentre torna da lavoro con la sua collega, e se ne viene che il teatro lituano è la sua ultima passione, che il suo ragazzo fa ancora la maschera al Teatro Comunale e quindi può procurarci dei biglietti per uno spettacolo della più importante compagnia di Vilnius, uno spettacolo recitato in lingua originale ma coi sottotitoli. I sottotitoli sono parte della scenografia, dice con un entusiasmo che non mi arriva. E io accetto, malgrado il teatro mi spazientisca e di scenografie entusiasmanti non me ne intenda. Accetto perché questa biondina qui può essere il mio credito da versare al banco della femminilità; c’è del sesso che comincia a circolare, come fosse un assegno retrodatato, e Giada ha strane idee per la serata culturale che mi propone, me lo sento.