Insomma ci mettiamo d’accordo, tra un’occhiata sua e un impaccio mio. Quindi me ne torno a casa, leggero. Il tempo di rendermene conto e si è fatto il giorno in cui Giada passa a prendermi sotto casa, a piedi. Poche ore prima ero a trastullarmelo come si deve, come succedeva da qualche tempo e come, a essere sinceri, mi è sempre beatamente successo. È una pacchia, temporanea e sbilanciata su un orgoglio godereccio, la risposta che ti dà la vita in questi momenti di astinenza perpetuata e poco dubbiosa. È di momenti di secca che parliamo, perché di scopare si è assetati (di amare invece ci si ritrova a digiuno, con lo stomaco svuotato. E mai sazi. Ma questo non c’entra, adesso). C’aveva il nome moderno, Giada. E un vestitino nero che non dimentico in nessun modo, né ho mai provato a farlo. Le scendeva sui seni, il vestitino, trattandoli come questa città tratta i suoi colli, con dolcezza, vivendoci a ridosso ma senza costringerla, come se alle prese con delle aspettative promettenti. I seni raccolti in questo feltro che spargeva allusioni un po’ ovunque, fino all’altezza delle ginocchia, dove iniziavano, dopo un accenno di calza, un paio di stivali alti e morbidi, neri come l’asfalto che calpestavano in quella sera scura. Cosa c’ha il feltro, tanto che a toccarlo mi lascia immaginare mondi lontanissimi ma assolutamente raggiungibili, io non l’ho mai capito. Mi piacerebbe anche un maiale se indossasse un tubino di quel tessuto; a portarmene uno conciato così, ve ne darei prova. Il fatto è che certe volte discriminiamo solo col tatto. Ce ne stiamo ciechi ed estranei agli odori, quelli delle cose che sai dureranno a lungo, diffidando delle narici, dell’irruenza a cui inducono certi ricordi quando vengono annusati; a volte si trascorrono ere rintanati in un raffreddore lungo e salvifico, che affrontiamo con gli occhi chiusi in cerca di qualcosa o qualcuno che venga a sbarrarceli. E quando si ha bisogno di credere che quel qualcuno o qualcosa sia arrivato, tutto quello che se ne recupera sono vie respiratorie momentaneamente più spianate. Un fazzoletto pieno di muco, ecco. Sentore di un’eternità posticcia, e nient’altro. Altre volte invece, decisi a non spegnere il peggio che ci bivacca dentro, semplicemente accettiamo che il catarro non vada via. Allora lo accettiamo ad occhi spalancati, rasserenandoci i giorni all’idea che, in fondo, suonare un organo sessuale è tutto quel che serve. Respirando così, insomma. Lei citofona e io scendo, in abito elegante, vestito come alla cassa del bar lussuoso dove fino a qualche giorno fa battevo conti fuori misura, fuori misura come si creda debba essere ogni cosa lussuosa. Ingenui che non siamo altro. Giada mi vede e le prende una ridarella infinita e beata. Io penso che il teatro Lituano, Carlo il suo ragazzo e la cultura occidentale tutta, siano nati per distrarmi dalla sola cosa davvero necessaria che la vita c’ha da offrirmi oggi, cioè una donna sorridente e arrapata dalla mia goffaggine. Questa cosa meriterebbe parole a parte; anche se i meriti possono essere reali e allo stesso tempo inutili, ingombranti o addirittura senza scopo. Giada ride e io quasi me ne svengo, al pensiero di possederla. Deve essere l’assenza a cui mi sono ostinato o ridotto. Fate voi. Ma è tutto un momento chiaro, che deve solo diventare vero. E ci diventa. Di colpo, d’assalto. Accolti dalla nebbia perenne che veste l’aria di questa città, ci avvinghiamo sotto il mio portone, incrociando lingue, mani, ginocchia e tempi, in sincrono adesso, fino ad accoppiarci scarichi di premura e futuro se non quello imminente. Arriviamo all’ascensore senza guardare, lasciando gestire lo spazio al desiderio più che al nostro orientamento. Scegliere di essere pupazzi del desiderio è un azzardo che magari non porta lontano, ma tanto, a chi interessa arrivare alla fine di questa scorpacciata di giorni, realmente in buono stato? Ai centometristi interessa. E a chi pecca con lungimiranze patetiche e fuori portata. Chiamo l’ascensore, ma lui niente. Lo richiamo e ancora niente. L’ho sempre pensato che la servitù non serve a nulla, specie quando ne avresti bisogno. Allora saliamo le scale e io vado così svelto che quasi mi tocca rivalutare i centometristi, ma non gli altri. Nel salire quasi dimentico la mia zoppaggine, o è lei a tralasciare me. Giada mi tiene il passo fino al portoncino; con una mano tengo le sue e con l’altra cerco le chiavi. Mi accorgo che s’è messa il mio indice in bocca, per darci di lingua. Così capisco, definitivamente, i dettagli umorali della signorina. E per un attimo ho un leggero sprazzo di angoscia. Cose irrimediabili e passeggere. Apro casa. Corridoio, luci accese. Chiude il portoncino Giada e mi stringe a sé forte. Potrei pure lasciarmi andare e dire una cosa adatta a quel momento, ma è chiaro che non saprebbe che farsene. Ha già trovato i suoi stimoli. Sono tutti nell’inefficienza, del teatro lituano, di Carlo e di quasi tutta la cultura occidentale, in materia di sangue che serra le fila e sperma. Ho questa beata sensazione di sentirmi sfruttato al momento giusto. La prendo così. Ci vuole poco e mica capita spesso. Una forma di vanità assoluta e miserabile, da paranoico di classe. Raggiungiamo la mia stanza e via. Nudi e fluidi, nel buio interrotto solo dalla luce del corridoio, a conoscerci meglio, a presentarci per la prima volta. Si ricomincia sempre un po’ da capo, ma alla fine siamo sempre gli stessi. Ci mettiamo a toccare parti di corpo e agitarci con calma, mentre il tempo in questo letto cambia la forma che pensavo avesse fin prima di entrarci. Forse si allunga, forse si rimpicciolisce. Non lo so, non l’ho mai avuta la fissa del tempo. Tanto, prima poi, li proviamo tutti. Giada persevera nella sua discrezione, la stessa che tutto le permette di fare, in ogni situazione. Persevera anche con il mio indice nella sua bocca, a ricordare bene. Con l’indice, ma anche col medio e con l’anulare. C’ha una fissazione orale bella e buona, e la cosa, stavolta, assume un tono diverso rispetto a come è successa prima, sull’uscio. L’angoscia e la vanità, a questo giro, non arrivano. Ma una risata sorniona e privata, sì. Una risata, anche lei distante da quella di Giada per la mia goffaggine. Questa risata qui, la mia, non è divertente. È solo divertita e personale. Le lenzuola si annuvolano sotto i nostri corpi in penombra, che se ne stanno in silenzio a sudacchiare e premere. Corpi in preda a un passatempo. Un passatempo faticoso. Così faticoso che, ad usare tutti questi sforzi per diventare persone migliori anche senza cazzo dritto, il mondo sarebbe così bello da nausearci quasi. Forse per questo non ci sbattiamo troppo. Perché siamo sensibili di stomaco. Un passatempo che si esaurisce ad unisono, ad ogni modo; io lasciandomi andare al fremito, lei accantonando anche nella voce la sua inutile buona educazione. Voce che, con qualche tono in più, riverbera labile e convinta. Sparendo poi, inghiottita dall’affanno di tutti e due. Dalla sua soddisfazione adesso spavalda, e la mia voglia di cercare i vestiti, ringraziarla di cuore e andarmene. Ma è casa mia.