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Ballate per tutti i giorni – Folco Reis a stringhe slacciate. di Gianluca Montebuglio

Folco Reis è il protagonista di queste storie che si perdono per strada, senza farne una tragedia.
Le storie si mettono a fischiettare motivetti pieni di lentezza. Per cui le ho chiamate “Ballate per tutti i giorni”.

1  Cico

 Ad ogni modo mi ritrovo fuori casa. Consapevole e troppo poco sbronzo, piglio a passeggiare. E mentre penso a tutte quelle cose, Cico annusa un posto dove farla. Dopo una corsa ossessa e senza metodo, si piazza affianco al solito platano, il quarto a sinistra del viale. Tanta foga e poi dritto a rassicurarsi con un ritorno ai passi e i luoghi di sempre. Questo cane è come me, che mi confondo e indietreggio, che per strada ho sparso la curiosità pezzo dopo pezzo, tra le pieghe dei divani su cui mi sono seduto a malavoglia e tra i reggiseni che ho slacciato avidamente, cospargendola e non incaricandomi di andare a riprendermela, ritrovandola ma senza sapere cosa farmene seriamente, ricambiandola con sbadigli di risposta a discorsi inconcludenti e con sussulti di vita che, quando poi finiscono, non sai come raccattare le tue cose e riprendere una via di casa. Cico ha alzato la gamba e s’è messo a pisciare. Io manco lo stavo guardando. Guardavo dietro di me una scritta in faccia al muro mai notata prima. La frase aveva un taglio pubblicitario e diceva solidarietà al fuori-luogo, con una A di anarchia a firmare il tutto. Come è facile essere anarchici e autodeterminanti da quando esistono le bombolette spray e la pubblicità. Dietro quel muro c’è ancora oggi una lunga fila di cipressi. Neri e particolarmente silenziosi. I cipressi sono alberi solitari che cercano conforto nel cielo, non tra di loro, ed è difficile che si abbraccino. I cipressi, in pratica, non fanno smancerie. Noi uomini pensiamo siano tristi e invece quelli vogliono solo starsene per i cazzi propri. Continuiamo a confondere lo schivo con il triste. Se ne deduce che un giardino di cipressi non è un aperitivo; i cipressi non si invitano fra loro a quelle feste dove sovradosare affetto e istrionismi è l’unico modo per accertarsi della propria esistenza, per tastarsi il polso di tanto in tanto e non scoprirlo mai troppo freddo, quando invece si puzza già di morte e inutilità. Arrivati al parco il cane ne approfitta per finire le sue faccende iniziate lungo il viale, mentre io scelgo una panchina e un altro po’ di distanza da questo gomitolo miserabile e supremo che si chiama vita. Godevo della sua corsa, diventata più leggera ma comunque senza troppa strategia. Non è detto che a stare leggeri poi si vada per la strada giusta, questo è chiaro. Eravamo soli, io e lui. Dopo qualche minuto passa Giorgetti che come al solito saluta distintamente. Poi arriva Jacopone da Rodi, un barbone di quasi due metri che viene dal Gargano. Si ferma alla panchina con me, benevolo e ambiguo. In realtà la panchina è sua. Jacopone non vuole un tetto. Ad oggi non so cosa pensare di quelli come lui, ma comunque eccolo qui, tra il tiepidume delle merde dei piccioni, quando da architetto avrebbe potuto disegnarle, le panchine. Se proprio non gli piacevano le case. Faccio per spostarmi, per fargli spazio, salutandolo come si fa con qualcuno che attendi sul suo uscio perché sei arrivato un po’ prima di lui. Stavolta il vino è quello buono e se non ti fermi a bere ti tolgo il saluto, stronzo di un cantante, esordisce stasera su questo palcoscenico che sempre vita si chiama. Dopo quindici minuti -o forse quindici anni- di parole precise e alitate, mi rimetto a girovagare per la città, in cerca di qualcuno come me e di altra poesia da rimediare nei tombini, nei notturni che camminano svogliati, nei miei passi veloci e impari, pensando all’amore come a una bestemmia di cui non si può fare a meno. Era autunno senza fretta. Il freddo stava ancora altrove e Cico al mio fianco, con la guardia alta verso il nulla. Le città non dovrebbero mai vedere l’estate. Dovrebbero saltarla l’estate, e le altre stagioni. Per assestarsi in un autunno perenne. Ecco cosa serve alle città. Servono foglie rinsecchite a terra e gente che se la gode a calpestarle, in giro fino a prima di cena, al massimo. Poi tutti a struccarsi.

FB 34

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