Si è da poco conclusa la tappa praghese del Mittelcinemafest 2017, festival centroeuropeo del cinema italiano alla sua quinta edizione nella Repubblica Ceca, organizzato dall’Ambasciata d’Italia a Praga, l’Istituto Italiano di Cultura, la Camera di Commercio e dell’Industria Italo-Ceca, l’Istituto Luce Cinecittà e il cinema Lucerna di Praga, in collaborazione con numerosi partner. Alla manifestazione, che propone le novità e i successi della più recente stagione cinematografica italiana, svoltasi a Praga tra il 30 novembre e il 5 dicembre 2017 per fare poi tappa anche nelle città di Ostrava e Brno, anche quest’anno sono stati numerosi gli ospiti d’eccezione giunti nella capitale ceca per presentare i loro lavori. Tra questi, particolarmente attesi, Marco e Antonio Manetti, in arte “Manetti Bros” con Ammore e Malavita (2017) la commedia musical da loro diretta che ha fatto incetta di premi e riconoscimenti tra cui il Premio Pasinetti al miglior film e ai migliori attori alla 74a edizione del della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Abbiamo incontrato i Manetti per fargli qualche domanda su questa loro ultima fatica e non solo.
CB: Parliamo subito di Ammore e Malavita, il vostro ultimo lavoro che siete venuti a presentare al Mittelcinemafest di Praga. Un film davvero avvincente che mette insieme generi tra loro diversi e che è forse la summa delle vostre esperienze precedenti: dai videoclip al poliziesco ecc. Da dove nasce l’idea di un opera del genere?
Marco: L’idea scaturisce da due cose: da una parte dalla storia che originariamente era quella di un killer che doveva uccidere una donna/ragazza e quando se la trova davanti si accorge che era la ragazza con cui stava da adolescente. È da qui che nasce l’idea principale su cui si sviluppa tutta la storia. Dall’altra c’era l’idea di fare un film musical, che non è un genere di cinema, ma un tipo di cinema; è un qualcosa che sta tra il cinema e il musical. Per questo Ammore e malavita è un film particolare che nasce da due idee: la storia e il musical. Non mi ricordo quale delle due nasca prima. Napoli è una città che ha questo tipo di tradizione: quello della commedia musicale e del “film di crimine”. Il film è frutto di un lavoro che facciamo passo per passo, non ha una grande base intenzionale e si sviluppa, appunto, su un lavoro che possiamo definire “progressivo”.
CB: Il film ha già avuto molti riconoscimenti ed è stato premiato anche a Venezia. Vi aspettavate un successo del genere, oppure non avete fatto calcoli? Vi aspettavate questo tipo di risposta?
Marco: È chiaro che quando uno fa un film si aspetta sempre che vinca l’Oscar, ovviamente quando una persona realizza una cosa sua la vede al centro di tutto, quindi si nutrono sempre alcune speranze. Noi crediamo che il successo non arrivi mai totalmente inaspettato, dopodiché, ovviamente, vengono fuori la parte razionale e le preoccupazioni. Per esempio io non volevo andare al Concorso di Venezia perché avevo paura che un film così “leggero” in mezzo a una decina di film di autore “spessi” potesse fare una brutta figura, potesse essere sottovalutato dalle giurie dei critici. Invece questa è stata una sorpresa perché il film l’ha quasi vinto questo concorso di Venezia, grazie alla critica e al pubblico che lo hanno apprezzato. Questo successo ha quindi in qualche modo sorpreso la parte razionale, ma la parte infantile che spera è sempre presente in noi registi.
CB: Voi siete romani, però questo film, così come era stato per Song’ e Napule un altro vostro lavoro che ha riscosso un notevole successo, è ambientato nel capoluogo campano, ed entrambe queste opere hanno molte cose in comune. Perché Napoli? Come mai questa città vi ha stregati?
Antonio: Diciamo che a Napoli ci hanno portati; noi tendiamo a scrivere di posti che conosciamo, quindi non ci sarebbe mai venuto in mente di ambientare un film a Napoli; la conoscevamo, sì, ma in maniera superficiale. Poi Giampaolo Morelli, un attore che lavora sempre con noi, aveva avuto questo spunto (parlo di Song’ e Napule); ci diceva sempre di fare un film a Napoli, di parlare di un poliziotto che si infiltra in un contesto neomelodico. Negli anni noi non gli abbiamo dato molto retta, ma ad un certo punto abbiamo deciso di provare a scrivere questa sua storia. Abbiamo scritto un soggetto, sviluppando il suo spunto e il produttore Luciano Martino con cui stavamo lavorando per altre cose ci ha quasi “costretti” a fare questo film. Abbiamo iniziato a lavorare sull’idea e piano piano abbiamo conosciuto Napoli proprio facendo il film. Fin dai primi giorni chiamavo mia moglie a casa e dicevo: “che città incredibile!” Andarci come turisti è sicuramente bellissimo, ma andare là a lavorare e quindi viverci è stato ancora più forte. Facendo Song’ e Napule la città ci è proprio entrata dentro e ci è venuta voglia di raccontare altri aspetti di questo luogo. Nel mentre preparavamo Song’ e Napule ci era venuto in mente di fare un musical. Abbiamo pensato alla sceneggiata in un primo momento, poi piano piano, lavorando, il film è cambiando ed è venuto fuori questo. Non so se il prossimo film sarà ambientato a Napoli, ma questa città sta sempre nelle nostre idee, è una fonte di ispirazione continua.
CB: Napoli in questi anni è al centro dell’attenzione per quanto riguarda una buona parte del cinema italiano, ma viene raccontato sempre un solo aspetto di questa città, mentre voi avete focalizzato l’attenzione anche su altri aspetti. Com’è stato recepito questo modo diverso di raccontare Napoli dai napoletani e non?
Marco: La risposta da parte dei napoletani è stato molto affettuosa, calda da farci sentire in parte napoletani. Non è facile che i napoletani accolgano qualcuno come concittadino. Invece ci hanno subito accolti bene, forse in conseguenza del fatto di come noi ci comportavamo sul set. D’altra parte una sensazione che abbiamo è che negli ultimi due anni il racconto di Napoli, il “gomorrismo”, stia cambiando. Stanno uscendo tanti film che rispecchiano il risveglio del lato positivo di Napoli e nel bene e nel male c’è proprio questo tentativo da parte di questi film. In qualche modo noi ci sentiamo un po’ padri di questa cosa, abbiamo in qualche modo rotto quel trend raccontando una Napoli diversa al cinema. Lo vediamo come un aspetto positivo per la città, dato che il pregiudizio verso Napoli persiste in molte zone d’Italia. Il Gomorrismo nasce tra l’altro da un napoletano che esagera ed ingrandisce il problema: l’oscurità della città.
CB: Qual è stata la difficoltà principale che avete trovato nel girare Ammore e Malavita?
Antonio: Napoli è una città piena di cultura, l’abbiamo notato appena siamo arrivati. Si respira cultura. Ci sono tantissime persone che fanno musica di livello altissimo, gente appassionata di cinema, teatro, si scrivono molti romanzi… Noi crediamo che Song’ e Napule abbia fatto uscire fuori questi artisti. Non c’è nessuna difficoltà per fare dell’arte a Napoli.
Marco: Le difficoltà di fare queste film sono collegate alla difficoltà di fare un musical. Pensavamo fosse facile produrre un musical, pensavamo di essere facilitati avendo fatto dei videoclip e sicuramente lo siamo stati, ma fare un musical è difficilissimo. Si parte da un’idea, dallo scrivere i testi dove abbiamo avuto bisogno di persone competenti. Al momento del casting molti cantanti non andavano bene oppure gli attori, perché non sapevano cantare. Fare un musical è stata per noi una sfida, a volte abbiamo avuto paura di non riuscirci, ma ci siamo divertiti molto.
CB: volendo prendere il 1995 come data di riferimento per la vostra produzione fino ad oggi, ripercorrendo tutte le vostre tappe artistiche principali, avete dimostrato sempre molta voglia di mettervi in gioco e di esprimervi a modo vostro. Dando uno sguardo complessivo alla vostra produzione, com’è cambiato da allora a questo momento il vostro modo di lavorare?
Marco: Noi pensiamo che l’unica nostra sperimentazione sia la libertà. Il prezzo da pagare per assurdo di questa sperimentazione è quello di essere degli “sperimentatori”, nel senso che in Italia essendoci poca libertà nel fare un cinema vario, diverso si finisce per essere definiti “sperimentatori”. Questa libertà che noi abbiamo sperimentano ogni volta, spesso ci ha portato delle difficoltà nel farci seguire dai nostri collaboratori.
Antonio: Negli anni abbiamo maturato questa forza, abbiamo imparato a farci seguire di più. Siamo più consapevoli del fatto che essere sperimentatori funziona. Non ci sentiamo molto “sperimentatori”, ma solamente liberi, ovviamente se si parla di metodo produttivo allora sì, ci sentiamo degli sperimentatori in quel campo.
Marco: Il modo in cui giriamo stupirebbe chiunque, abbiamo un approccio diverso: dalla produzione al metodo di fare le riprese, su come scegliamo i collaboratori, distribuzione del budget. Lì siamo dei veri sperimentatori. Dal punto di vista produttivo non ci piace tanto come si lavora nel cinema ed è per questo che sperimentiamo.
CB: Per quanto riguarda la musica, soprattutto negli ultimi due film, sembra che per voi questa non sia solo, come nella maggior parte del cinema, la colonna sonora di un racconto, ma voi date sempre un valore aggiunto a questo elemento, la musica appunto. Come mai è presente questo fattore dominante soprattutto nelle vostre ultime due opere? C’è un motivo particolare, oppure è venuta da sé questa cosa?
Marco: I motivi che mi vengono in mente sono tre: 1) perché ci piace e siamo innamorati della musica, 2) negli ultimi due film stiamo un po’ facendo il riassunto della nostra storia, e la musica è una cosa che sappiamo gestire molto bene perché abbiamo esperienza, 3) il terzo motivo che è meno centrale sulla musica: pensiamo che un regista debba usare al massimo gli ingredienti che ha.
CB: Nei vostri film sono sempre presenti, in un modo o in un altro, rimandi alle tigri. Da dove nasce la vostra passione per questi stupendi animali?
Marco: Diciamo che nasce da una realtà poco artistica. Siamo tifosi di una squadra di football americano che si chiama “Cincinnati Bengals” che hanno il casco tigrato e quindi la tigre come simbolo. Nel 1981 abbiamo iniziato ad amarli e mettiamo le tigri nei nostri film per dichiarare il nostro amore per questa squadra di football.
CB: Una domanda che in molti vi avranno già fatto: come è il vostro rapporto fratelli-colleghi?
Antonio: Tutto sommato essere fratelli facilita il rapporto di colleghi, grandi scontri si spengono, cerchiamo di evitare rivalità… Proveniamo dalla stessa esperienza, quindi riusciamo a capirci velocemente. Forse il fatto di essere fratelli ci ha aiutati a lavorare insieme per vent’anni, aiuta soprattutto perché non c’è una competizione personale. Quando discutiamo rimaniamo fratelli e dopo poco tempo siamo affiatati come prima. Uno però poi si chiede: Se non fossimo fratelli, lavoreremo lo stesso insieme? Forse no. Il fatto di essere fratelli aiuta tantissimo, è tutto, diciamo.
CB: Diteci un pregio e un difetto l’uno dell’altro.
Antonio: Un pregio di Marco è che non è mai banale. Ha sempre un’idea personale quindi nei nostri film l’impronta di Marco si vede molto. È sempre originale, una caratteristica importante per il nostro cinema. Su questo Marco è più coraggioso devo dire. Il difetto? Ne ha tantissimi, come io del resto! Se devo dirne uno: vuole decidere lui e da lì nasce a volte qualche piccolo scontro.
Marco: Non penso proprio di averlo questo difetto che Antonio mi attribuisce, ce l’ha lui piuttosto! Un difetto di Antonio è anche, poi, un difetto personale: ha fretta nelle decisioni e nelle conclusioni, invece io ci penso venti volte prima di fare una cosa. Per quanto riguarda il pregio: Antonio è il miglior operatore che conosco, un operatore-regista che dà qualità ai nostri film in modo veloce, immediato. Quando ci separiamo e giriamo per velocizzare i tempi, a me manca quell’operatore che non ho al mio fianco. La sua assenza mi fa capire quanto sia importante il suo ruolo per la qualità del film.
CB: Chiedere a un regista i suoi “progetti” per il futuro è un po’ come chiedere a una donna quanti anni abbia, ma volete dirci lo stesso qualcosa sui idee da realizzare?
Marco: Non ce l’abbiamo! Stiamo lavorando su tante piccole idee, una di queste crescerà, ma siamo in un momento di confusione. Personalmente non mi danno fastidio questa domande perché quando abbiamo un progetto siamo felici di parlarne. Abbiamo forse delle idee più chiare e solide su serie TV e non vediamo tutta questa differenza artistica tra fare un film e una serie TV. Fare un film presuppone delle caratteristiche che una serie TV non ha, quella, ad esempio, di concentrarsi a lungo su una sola storia. È più facile fare un film, e invece sotto questo punto di vista siamo nel vuoto più totale e questo nostro ultimo lavoro ha messo insieme in modo non voluto tutto quello che abbiamo fatto negli anni. Abbiamo rotto quest’argine e adesso non sappiamo che fare, c’è un po’ di crisi!
Monica Falaschi, Mauro Ruggiero.
Foto: Danilo Desidera