Perché la spiritualità, le domande a carattere escatologico, e diciamo anche Dio, tutto questo appare anacronistico al giorno d’oggi? Questo tempo sembra aver decretato in maniera definitiva l’oblio rispetto agli interrogativi sul senso e sul destino della vita, sovrapponendo al concetto di Scienza reale le dottrine legate allo sviluppo sbrigliato dei mezzi tecnologici. Quando le distanze diventano tanto considerevoli e la sensazione è quella della discontinuità rispetto (anche) ai processi storici, è bene fermarsi e chiedersi le ragioni, quantomeno provare a farsi delle domande. Ad esempio, cos’era la religione in principio, all’alba di questo tempo?
Non abbiamo la Risposta, eppure a tal proposito – mi dico – un utile esercizio potrebbe essere ricorrere all’etimo, che in questo caso particolare fornisce della religione stessa una neutra enucleazione del senso primigenio: in latino, il supposto verbo religere è composto della particella re– che accenna al carattere periodico dell’azione (ripetitorio e non ripetitivo, potremmo dire) e del verbo legere ossia scegliere, dunque in senso figurato “cercare e guardare con attenzione, con cura riguardevole”. È chiaro ora, per quanto si è appena detto, che nella stessa radice della parola è apparentemente celata già una certa controintutiva eresia, un certo clinamen rispetto alla fama, alla dottrina, al dogma. Basti questa breve digressione a carattere linguistico a fornire al lettore la posologia, in scala, delle variazioni nel corso della Storia di concetti che al principio erano qualcos’altro. Gli uomini sono, malgré eux, prodotti del processo storico e la storia attuale sembra essere una storia di deriva riduzionista, di divisione in compartimenti stagni. L’uomo sembra aver perduto per sempre quella connessione con Religione (nell’accezione etimologica di cui sopra, sia chiaro), Arte e Scienza che fa dello stesso un Uomo. Dove è finito Leonardo?
Permanendo in questa forma di separatismo dal Tutto, l’uomo – miope – ha indotto l’apoptosi terrestre (trattasi, dunque, di un vero e proprio suicidio inconsapevolmente programmato). Ecco, in “Poco meno degli Angeli” Mauro Ruggiero, vestitosi dei suoi personaggi, insinua con una prosa semplice e ritmata il batterio di questo Dubbio (va da sé la citazione di cartesiana memoria a preambolo del romanzo). Nella sua scrittura coesistono la conversazione –improntata alla gnoseologia ma al contempo incastonata in motivi stilistici divaganti e frammentari – e il racconto, in cui gli eventi autobiografici si combinano euritmicamente alla creazione letteraria. Ciò nonostante, la trama, a un livello più profondo, diventa diafana, pressoché inconsistente lasciando a buon diritto il passo alla tensione dialogica. Centrale, dunque, risulta essere il tema dell’incontro – nell’accezione dialettica, quasi sempre platonico – che fa da basso continuo, non concedendo quasi mai un cambio di passo (se non nel finale). Eppure, pressoché ciascun capitolo può essere letto a mo’ di
racconto a se stante, in quanto in ciascuno si concentra, localmente, il seme del libro stesso (parte del Tutto e Tutto nella parte). Nel loro insieme, i capitoli dispiegano le vele del dialogo al pensiero del lettore inducendolo alla riflessione. Il lettore, interrogandosi, è al contempo inchiodato al terreno e proiettato in dimensioni pressoché oniriche, dove sembra risuonare impercettibile “Ambient 1: Music for Airports” di Brian Eno. Possiamo anche aggiungere una nota sulla fluidità con la quale lo scrittore sembra accedere a territori inaccessi se non quasi vietati alla totalità, pur tenendo velato il lavoro di trasduzione.
Ci stiamo trasferendo in massa in un mondo parallelo a quello degli albori, dove la dimensione spirituale non comunica col vero? Un mondo dove l’uomo è prodotto in fabbrica, in scala di grigi, senza alcuna tensione verso l’Assoluto? Dura lex, sed lex: necessitiamo del concetto di infinito, eppure non possiamo fare a meno della Fine.
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