Paolo Giordano (1982), fisico e scrittore, è tra gli autori contemporanei italiani più noti. Vince giovanissimo, nel 2008, il Premio Strega con il suo romanzo d’esordio: “La solitudine dei numeri primi” che diventa subito un best-seller tradotto in venti lingue. Nel 2012 pubblica il suo secondo romanzo: “Il corpo umano” ambientato tra i soldati italiani in missione in Afghanistan, e nel 2014 “Il nero e l’argento”. In occasione della pubblicazione in lingua ceca di questo terzo romanzo, l’Istituto Italiano di Cultura di Praga, diretto da Giovanni Sciola, e la casa editrice Odeon hanno invitato lo scrittore italiano nella capitale ceca per una serie di eventi culturali che si sono svolti tra il 3 e il 5 marzo 2016. Cafeboheme.cz lo ha incontrato per fargli qualche domanda
CB. Paolo, benvenuto a Praga e benvenuto all’Istituto Italiano di Cultura. Un aforista filosofo e biologo francese, Jean Rostand, una volta ha scritto che se si sapesse perché si scrive allora a quel punto si comprenderebbe allo stesso tempo perché si vive. Paolo Giordano perché scrive?
PG. Ho sempre pensato che se non lo facessi sarei più disperato di così e quindi mi sembra una motivazione sufficiente.
CB. Nel tuo primo libro, “La solitudine dei numeri primi”, scienze esatte e letteratura, che per alcuni sono ancora oggi due cose inconciliabili, si incontrano. Come sei riuscito a trovare questa alchimia creativa e cosa ti ha ispirato, oltre ai tuoi studi di fisica?
PG. Penso in realtà di non esserci riuscito, però ogni mio libro è stato un po’ un tentativo di accordare parti di quei due mondi che poi, dentro di me, non sono in contraddizione tra loro, nel senso che il passaggio da una visione all’altra mi è sempre stato abbastanza naturale, però ci sono sicuramente due visioni diverse del mondo che si contrappongono e che io ho sentito in me da sempre in modo molto personale. Sono sempre stato diviso tra il mondo di mio padre, che ha una impostazione molto razionale, scientifica della realtà, e il mondo materno invece più sentimentale, quindi più aperto anche a delle interpretazioni diverse. È solo verso il periodo dell’università che ho cominciato a sentire una tensione fra questi due mondi presenti in me. Credo che la scrittura, il racconto, siano un bel modo per tentare di conciliare questi due mondi, mettendoli in contrapposizione uno mostra che spesso si tratta solo di linguaggi diversi, anche quello scientifico, alla fine, è soprattutto una bellissima costruzione di un linguaggio che ti permette di dire bene delle cose, meno bene delle altre, ma in questo modo illumina dei lati della realtà che altrimenti resterebbero nell’oscurità. La lingua, la scrittura, la letteratura fanno la stessa cosa su un altro piano. Quindi non so se è stata una conciliazione o se è il tentativo continuo di riproporre sempre questa tensione che c’è in me.
CB. Quando hai iniziato a scrivere “La solitudine dei numeri primi” hai pensato anche solo per un attimo che potesse avere il successo che ha avuto?
PG. No.
CB. E secondo te, invece, perché ha riscosso tanto successo?
PG. È una domanda che cerco di non farmi troppo perché rischia di diventare poi un po’ ricattatoria per me. Credo ci siano dei libri che per qualche motivo catturano qualcosa che è nell’aria e non ha neanche troppo a che fare con la bravura dello scrittore, è il fatto di essere stati in un certo momento di apertura, forse anche nell’età giusta, in quel momento, unito a tutta un’altra serie di elementi in parte cercati ma in gran parte fortuiti. C’è una taglia su quel libro che secondo me arriva anche per merito, ma quando qualcosa eccede così tanto come è successo con quel romanzo in realtà entrano dentro una serie di concause enormi; so che magari la stessa cosa non si sarebbe ripetuta semplicemente due anni dopo, quindi cerco di fare molta pace con questo e di accettare il mistero che lo ha avvolto.
CB. Passando invece a “Il corpo umano” cosa ti ha spinto e cosa ti ha fatto capire che andava descritta la realtà dei soldati in Afghanistan nella loro quotidianità e i loro percorsi psicologici; cosa ti ha convinto a scrivere su questo tema?
PG. Ma in realtà nessuna ambizione di realismo o di documentazione giornalistica. Direi delle motivazioni molto più eccentriche di così: la prima sicuramente data dal fatto che non riuscivo a capire perché io fossi così attratto dai libri, dai racconti e dai film che parlavano di guerra, quindi la prima motivazione in realtà nasce più dalla parte artistica che non dalla realtà. Volevo capire perché ne fossi così attratto. Poi sicuramente il luogo dove ho trovato questi soldati mi ha condizionato molto, si è imposto nel mio immaginario perché era molto bello e al tempo stesso pericoloso e assurdo, quindi questa contraddizione mi sembrava interessante. E poi sicuramente mi interessava capire cosa per dei ragazzi giovani, dei ragazzi come me, a un certo punto li avessi portati a fare scelte e vivere in mondi così diversi in così poco tempo, e questo per me era affascinante da studiare.
CB. Se nel primo libro è la solitudine chiaramente uno degli elementi e delle chiavi di lettura principali, invece, ne “Il corpo umano” un elemento fondamentale è il dubbio: solitudine e dubbio, è un caso o c’è una relazione particolare tra questi due elementi nella tua scrittura?
PG. Sicuramente. Il corpo umano per la natura del luogo e della situazione, ossia questa piccola base militare nel deserto (c’è qualcosa che ha veramente a che fare con Il deserto dei Tartari che è stato peraltro un libro della mia adolescenza) credo che la semplice ambientazione mi abbia portato in modo naturale verso domande anche un po’ più… -la parola suona sinistra -però diciamo “metafisiche” di quelle cui io sono abituato; c’è un’aurea di dubbio attorno a questi personaggi che è dovuta molto anche alla suggestione del luogo e della situazione. Sicuramente so che il dubbio, ma questo lo sapevo già anche quando studiavo fisica, è per me il confine ultimo. Con la scrittura riesco ad arrivare fino a lì, quasi mai poi allo scioglimento del dubbio e quindi se il personaggio arriva a suscitare una domanda interessante per me ha già svolto in pieno il suo ruolo di personaggio.
CB. Tutti quanti credo ti chiedano quali siano state le letture letterarie che ti hanno portato poi a intraprendere la carriera di scrittore; io invece ti chiedo quali sono state le letture scientifiche che invece ti hanno condizionato di più.
PG. In realtà nessuna, nel senso che io, è strano, ma non ho mai frequentato la letteratura scientifica, cioè la divulgazione, ho frequentato la letteratura scientifica da un punto di vista tecnico. Comincio forse a farlo soltanto adesso perché sto perdendo ovviamente la presa sull’aspetto tecnico, anche sugli aggiornamenti, e quindi mi aggrappo di più alla divulgazione e ho anche ampliato molto i miei interessi: mentre prima erano esclusivamente sulla fisica e la matematica adesso posso permettermi di essere superficiale e quindi di interessarmi a tutto quanto, che è una grande libertà credo. Sono tutte letture in realtà molto recenti e non ero neanche, come molti miei ex-colleghi fisici, un appassionato di fantascienza o di generi che ibridassero la scienza.
CB. Rimanendo su questo tema: recentemente è stata fatta la scoperta delle famose onde gravitazionali, chiaramente se ne è parlato principalmente in modo divulgativo e non tecnico. Quanto o quando secondo te queste nuove scoperte della fisica, della meccanica quantistica, della Relatività Generale… entreranno anche nell’immaginario dello scrittore e quindi entreranno a far parte del modo di scrivere?
PG. In realtà ci sono già esempi, credo. Ne parliamo oggi come se parlassimo di una frontiera di quel campo, in realtà stiamo parlando di fisica vecchia di cento anni, troviamo oggi le onde gravitazionali che Einstein era quasi sicuro esistessero cento anni fa. La meccanica quantistica ha già compiuto cento anni, quindi credo che intanto tutte queste scoperte hanno ormai delle ricadute di cui non teniamo nemmeno conto ma sono costanti nella nostra vita.
CB. Sì, certo, ma anche nella cultura?
PG. Per la cultura la cosa è un po’ più lenta perché, purtroppo, si tratta di argomenti già molto tecnici che richiedono una preparazione al linguaggio molto avanzata e quindi c’è come un gradino. Penso nell’ultimo anno ad un film come “Interstellar”, un film costruito su un paradosso della relatività generale…paradosso, no! Su una realtà della relatività generale. Però sono d’accordo, siamo ancora a livello zero, cioè un livello in cui la suggestione dell’idea diventa motivo di racconto. La trasformazione invece interna dello stile, della struttura, come l’avrebbe intesa Calvino, per esempio, non mi viene ancora in mente un esempio convincente.
CB. Paolo, quando scrivi, nell’atto creativo, quando metti sul foglio le tue idee, pensi già a come quello che scrivi verrà recepito dai lettori oppure la scrittura è prima di tutto una relogificazione del tuo sentire, un pensiero che poi elaborerai?
PG. Non penso specificamente alla sensazione del lettore, però misuro molto quello che scrivo su ciò che invece recepisco io. Prima di arrivare al mio primo lettore, che arriva quasi subito in realtà, e che per me incarna tutti i lettori eventuali del futuro, la misura è sul fatto che io mi senta o meno calato dentro un’atmosfera molto precisa e molto forte. Ecco se sento quello, se sento un livello di smarrimento in ciò che ho scritto, allora può darsi che quello che scrivo sia buono.
CB. Romanzo o racconto breve, in che cosa riesci a esprimerti meglio?
PG. Credo che il romanzo resti per me la forma con cui riesco ad andare in delle pieghe più inaspettate, proprio per il tempo che ti dà.
CB. La figura dello scrittore nella società di oggi che ruolo ha? È un mestiere come un altro o, secondo te, ha ancora la funzione dell’occhio critico sulla realtà, capace di vedere cose, movimenti che gli altri non riescono a vedere?
PG. Secondo me il bravo scrittore questo ce l’ha: cioè sa vedere sfumature, meccanismi e saperli svelare, e avere un rapporto con la verità in generale più schietto, spietato, assiduo anche. Non so se questo sia oggi troppo rappresentato poi nella vita sociale e culturale perché c’è una spinta molto normalizzante anche della figura dello scrittore. Penso ai giornali, alle televisioni… allo scrittore viene riconosciuta questa capacità ma allo tempo stesso viene molto normalizzata, perché gli viene dato quello spazio, per quel tipo di opinione, come se la casella fosse pronta a priori, invece ci si aspetta un potere più dirompente di così forse, noi in Italia abbiamo avuto molti esempi illustri. Non è così facile in questo momento credo, non è così facile neanche scavarsi lo spazio utile e la credibilità per farlo, e quindi è forse più facile ripiegarsi un po’ di più sul proprio e basta.
CB. A proposito della creazione di un’opera letteraria, visto anche il tuo percorso di scienziato, tu approcci il romanzo da un punto di vista matematico? Pensi cioè a una struttura, pensi addirittura a un algoritmo, a un ritmo, a una forma, o semplicemente ti siedi, scrivi e lasci che quell’emozione diventi parola?
PG Faccio entrambe le cose, nel senso che ho una brutta tendenza alla formalizzazione, che è una tendenza puramente difensiva in quel caso, creare delle impalcature ti permette di avere meno paura rispetto al vuoto in cui devi lasciarti andare. E quindi quello che succede è che costruisco strutture e poi puntualmente passo un sacco di tempo a smontarle e le smonto tutte e lascio andare il libro dove deve andare. Alla fine di quelle strutture ne rimane veramente pochissima traccia, di finora è sempre stato così.
CB. Non preoccuparti, non ti chiederò quali sono i tuoi progetti per il futuro!
Foto di: Francesco Bencivenga
Si ringraziano: Riccardo Cantoni e Ascanio Troiani