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La ragione dell’incanto. Conversazione con Antonio Moresco

 Questa conversazione risale all’estate del 2006. Dopo aver accompagnato la mia tesi di laurea triennale, è rimasta sostanzialmente inedita. Se nella prima domanda Moresco si sofferma in particolare su Misery è perché nel mio lavoro citavo proprio questo libro come termine di paragone rispetto al suo Canti del caos, di cui all’epoca erano uscite soltanto le prime due parti (la pubblicazione dell’opera nella sua versione completa risale al 2009).

 

Luca Cristiano

 

  Cominciamo da una cosa che abbiamo in comune. So che anche tu, a volte, leggi Stephen King. Cosa ti spinge verso di lui e verso quel tipo di letteratura, spesso considerata solo commerciale, ‘di genere’?

 

 

– King è uno scrittore che conosco abbastanza, che leggo volentieri. Mi sembra che dica mores61delle cose grosse con la sua macchina narrativa se vuoi anche riconoscibile, semplice, a volte con degli aspetti telefilmici. Però, pur all’interno di certi schemi, mi sembra che riesca a far passare anche delle cose significative sulla nostra epoca. Ci sono a volte degli scrittori che riescono a fare questo anche dall’interno dei cosiddetti “generi”, che sono spesso anche ingiustamente disprezzati, considerati minori. Eppure succede ancora, come è successo anche nel passato, penso ad esempio a libri come Il conte di Montecristo di Dumas, questo libro di cui tutti parlano, di cui tutti ricordano l’inizio e la fine, la prigionia, la segregazione eccetera, dimenticando tutta la parte centrale, che è in realtà un attraversamento crudele della vita nel mondo moderno, dove si prepara, in maniera lentissima, una sorta di vendetta, l’ottanta per cento di questo libro. Perchè questo non è un libro sulla vendetta, ma un libro sull’impossibilità della vendetta e sul meccanismo del male, in cui si sviluppano delle riflessioni che in qualche caso sono quasi al livello di Shakespeare. Questo per dire che a volte anche all’interno di una letteratura che sta su un terreno più facile, più riconoscibile, possono passare delle cose importanti. Anche per King vale questo discorso. Questo scrittore discontinuo e bulimico riesce a dirci delle cose molto forti e molto inquietanti sulla nostra epoca e sul nostro mondo, a farci scorgere la natura maligna degli oggetti che ci circondano e la paura che sta dietro la facciata del mondo. Ci dice che la specie umana, in questa epoca, si è circondata di mille oggetti e feticci pensando di mettersi al sicuro, invece sono diventati essi stessi una minaccia. Perciò ci dice una cosa grossa, importante, al di là della discutibilità e a volte della mancanza di radicalità che ci può essere nei suoi libri. Questo accade anche in altri scrittori cosiddetti di genere, primo fra tutti Philip Dick: cosa non riesce a fare attraverso la fantascienza, cosa non riesce a dirci sulla nostra condizione di uomini attraverso il nesso della fantascienza! Insomma non ho difficoltà a esprimere la mia passione anche per questo tipo di letture. Io sono venuto su come una bestiolina, in un ambiente in cui vivevo spaesato. Quando ho cominciato a leggere, ho letto di tutto, voracemente, da Dovstoevskij ai romanzi sentimentali di mia sorella, ai gialli, ai romanzi italiani che uscivano in quegli anni. Ma, tornando a King e in particolare a Misery, questo libro secondo me mette in mostra rapporti strumentali e spietati evidenziati da uno scrittore imprigionato, vittima e carnefice nello stesso tempo, nel meccanismo della letteratura di mercato, della letteratura di intrattenimento. Nel romanzo vediamo in opera un doppio movimento interno che crea questa macchina di colpevolizzazione che è Misery. Anche se, a mio parere, King non porta la cosa alle sue estreme conseguenze, non può farlo, perché ne è anche lui parte in causa. Ciò nonostante ci dice molto del meccanismo di conflitto e di complicità che vive lo scrittore di questa epoca.

 

 

– Il protagonista di Misery, Paul Sheldon, è un autore di romanzi e riflette per tutto il libro sulla natura dell’invenzione letteraria e sul suo carattere masturbatorio, che dà per scontato e inevitabile. Più di una volta, però, precisa che non bisogna mai sconfinare nell’autocannibalismo, cioè ‘divorare’ metaforicamente la propria identità facendola aderire al movimento creativo, perdere la propria distinzione dagli oggetti di cui si scrive. Proprio ciò che tu fai costantemente in Canti del caos. Pensi di aver spostato il limite, di averlo infranto?

 

 

 

-Posso solo dirti che questo libro ha avuto una genesi particolare, che me ne è venuta inmores4 mente la prima anticipazione più di vent’anni fa, nel momento stesso in cui ho avuto l’idea da cui sono nati Gli esordi, che ancora dovevo scrivere. Nella mia testa, anche se non avevo in mente in modo preciso il carattere di questi due libri, in qualche modo li ho percepiti insieme, anche se sono apparentemente due opposti: uno è la bolla, l’altro è l’esplosione di questa bolla con tutti i materiali della vita che ci entrano dentro e la invadono, uno è l’immobilità, l’altro il movimento, uno è l’illusione dell’immobilità, l’altro l’illusione del movimento.

 

 – Sì, del movimento, che negli Esordi è tutto rallentato, mentre in Canti del Caos…

 

 – …Canti del Caos ha questa potenza centrifuga ininterrotta. Li ho in qualche modo percepiti insieme, ma li ho scritti in una condizione psicologica non identica, nel senso che Gli esordi è un libro che ho scritto sottoterra, mentre ero uno scrittore inedito, e sottoterra sono rimasto, poi, ancora per anni dopo averlo scritto, per un arco di tempo che ha superato i dieci anni. Canti del Caos, la sua prima parte, ho cominciato a scriverlo nel ’94, quando avevo appena pubblicato il mio primo libro, Clandestinità, quindi ero ancora proprio agli inizi, è vero, ma avevo comunque rotto questo muro di silenzio che mi circondava.

 

 – Questo muro contro il quale dici di esserti scagliato come un topolino scemo di laboratorio…

 

 – Sì, nel senso che se uno deve superare un muro, cerca di scavalcarlo, di aggirarlo, allearsi mores3con altri, non continua a sbatterci la testa contro. Quando ho cominciato a scrivere Canti del caos, avevo sì una qualche idea di questo libro, ma molto relativa. Credo lo capisca anche il lettore che è un libro completamente senza rete nel suo movimento di creazione. Ed è senza rete persino a livello editoriale perché le varie parti sono uscite in tempo reale, neppure presso lo stesso editore. Quindi un’orbita iniziata quando ancora non ha la percezione di essere un’orbita. Quando ho cominciato questo romanzo, le prime cento pagine le ho scritte senza partire da stratagemmi narrativi o cose simili. In qualche modo sentivo tutta la difficoltà e l’insicurezza di cominciare un’opera in questo modo, eppure, nello stesso tempo, mi sembrava onesto privarmi in partenza di questo tipo di consolazione, di consuetudini che mi avrebbero in qualche modo sostenuto e protetto lungo la strada.  Dopo un po’ – anche se scrivo a mano e quindi prima di battere, di decifrare, di avere un’idea precisa di quello che ho scritto passa molto tempo, anche se non so bene in che territorio mi sto addentrando, in cosa sto sprofondando – ho percepito la violenza di quanto stavo facendo, che mi tornava indietro. Questo libro è una sorta di apparente opposto rispetto agli Esordi, perché tanto Gli esordi è castissimo, quanto Canti del caos è un libro dove avviene uno scatenamento di tutte le forze, compresa quella della sessualità, che è presente anche nel primo, ma in modo del tutto diverso.

 

 – Negli Esordi trovo più una sorta di dilatazione parossistica, nel senso della continua esasperazione delle tensioni, mentre in Canti del caos ogni movimento giunge al massimo grado di esplosività possibile.

 

 – Sì, è così. Per cui quando mi sono reso conto dei materiali che si stavano formando, ne ho avuto io per primo il contraccolpo. Mi è successo – l’ho già raccontato da qualche parte – che dopo un centinaio di pagine, quando ha cominciato a venire fuori la natura reale del libro, mi sono sentito male, ho avuto problemi cardiaci, al punto che sono finito al pronto soccorso. Il medico che mi ha visitato e mi ha fatto le analisi, alla fine mi ha detto: «Io non so chi è lei, non so cosa stia facendo. Però qualsiasi cosa lei stia facendo, la interrompa per un mese». E io ho fatto così, e dopo questo mese, piano piano, ho ripreso in mano il libro e sono andato avanti fino alla fine. Questo per dire che era un’esperienza inaspettata anche per me, e che non avevo preventivato che si liberassero queste possibilità e queste forze, anche nei confronti di me stesso, che ne ero il tramite.

 

 – Autocannibalismo.

 

 – Eh…chiamalo come vuoi!

 

 – Per lo meno nel senso in cui lo definisce King.

 

 – Se tu scrivi in uno stato di profondo abbandono… in genere si equivoca questa cosa, simores5 pensa che negli scrittori di un certo tipo ci sia un io ipertrofico che si espanda attraverso il libro e lo saturi tutto. È vero il contrario, perché è proprio se tu mentre scrivi accetti di essere invaso, non solo di invadere, che ti succede di andare incontro a una vera e propria esperienza che non avevi calcolato e preventivato. Se tu ti fai infinitamente piccolo e ti fai invadere profondamente, se non opponi le paratie ipertrofiche dell’io che in qualche modo governa, controlla, determina e si difende anche dalla materia stessa che viene fuori dentro di te, allora può succedere di venire presi da un contraccolpo molto, molto violento. Ciò che è uscito da te, ti si ripresenta come un elemento alieno incontrollabile, addirittura spaventoso. A me almeno è successo questo. Così ho dovuto interrompere per un po’ prima di riprendere a scrivere e di andare avanti fino alla fine. Si vede che lo spiazzamento era stato forte e che avevo bisogno di un po’ di tempo per creare dentro di me gli anticorpi che mi difendessero da quello che io stesso andavo scrivendo.

 

 – Hai detto che nella scrittura di questo libro ti sei consapevolmente disarmato, posto senza rete, eppure io trovo che Canti del Caos sia a suo modo rigorosissimo, nel senso della riproposizione di movimenti costanti, che sono poi gli stessi movimenti generativi della materia. In questo senso anche la forma, che non è un contenitore precostituito ma una scansione nella dizione di eventi che paiono indicibili, può essere stato l’elemento di salvezza che ti ha portato alla conclusione di questo libro?

 

 – Quello che dici può essere vero. Perché in realtà che cosa succede? Come si forma la materia? Come si forma un organismo, come lavorano le cellule, come si è formata la materia che poi ha trovato una sua configurazione precisa? Come si sono formati gli elementi che hanno dato origine alla vita sul nostro pianeta, partendo da elementi chimici minimi, pirite di ferro, ecc…?  Evidentemente la vita ha lavorato su quello che c’era, su quello che aveva, su quel poco che aveva, e non su quello che non c’era e che non aveva, anche se non sapeva dove sarebbe andata a parare questa dinamica biologica. Anch’io, in questo libro, sono dovuto partire dal cerchio più piccolo, più meschino, addirittura apparentemente metaletterario, così è stato letto, secondo me in maniera superficiale. Quell’elemento minimo che poi tra l’altro era l’esperienza minima della mia vita di scrittore: l’incontro tra lo scrittore e l’editore. Una partenza minima che poteva dar vita a una sorta di libro-gioco, come ce ne sono molti. Era molto, molto meschino e basso come giro di partenza del libro, però era l’unico modo, mi sembrava, per tirare via il tappeto da sotto, per mettere le cose al loro livello elementare, per accettare la sfida dal punto in cui te la lancia la tua epoca, con lo sbarramento della sua lettura del mondo e le sue ideologie.

 

 – Fare spazio alla vita vivente?

 

 – Fare spazio a tutte le possibilità, partendo da questo giro piccolo. Poi una cosa generalucina un’altra, poi ne genera un’altra, poi ne genera un’altra. Si crea un organismo via via sempre più complesso che appare alla fine del primo volume, ancora di più alla fine del secondo volume, ancora di più alla fine del terzo volume. Questo libro è articolato come un organismo che ha una sua complessità, proprie dinamiche biologiche, insomma, una sua orbita, molte orbite, molto forti, estremamente vincolanti proprio perché generate in assenza di un qualunque tipo di schema prefissato. Se io invece fossi partito con uno schema, un’idea, una griglia paradigmatica, come in genere succede, mi sarei ritrovato a pensare: «Che libro faccio? Mi metto a fare un libro “di genere”, faccio un giallo, faccio un thriller, faccio questo, faccio quest’altro. Oppure faccio un libro di genere “letteratura”…». Avrei tenuto conto di una serie di imput, di possibili criteri di riconoscibilità. Invece sono partito come un microrganismo, come una sintesi chimica minima che deve costruire lavorando per moltiplicazione interna. Mentre scrivevo questo libro, all’inizio, mi dicevo: «ma che cazzo sto facendo?». Vedevo la materia crescermi attorno secondo i propri movimenti costanti ma ingovernabili. Avevo bisogno di ripartire da più indietro ancora rispetto a quella sorta di zero che era la partenza degli Esordi, era questa l’unica strada.

 

 – Infatti entrambi i libri hanno movimenti iniziali simili, quelli del risveglio, l’inconsapevolezza…

 

 – Uno è quello del risveglio, che crea un senso di vuoto. L’altro mette in moto un senso di attesa nel lettore, che si ritrova di fronte al sorgere dei personaggi. Nell’Invocazione alla Musa che apre la seconda parte del libro, in qualche modo si rilancia, si rivitalizza lo stesso atteggiamento. In Italia, e non solo in Italia, ci sono come delle circoscrizioni: uno scrittore, prendiamo Moravia – senza nessuna disistima nei suoi confronti – inizia a scrivere ciò che gli è più congeniale e poi fa dieci libri, quindici libri uguali, solo con variazioni interne, riaggiornamenti, ecc.. è come in pittura, un pittore fa un certo tipo di cose, poi ha bisogno di spingersi più in là, ma il gallerista gli dice: «No, adesso devi fare sempre quello, perché sei conosciuto e quotato nelle aste, tu sei quella cosa lì, stai in quella casella lì, da te si aspettano quello. Va a pallino l’immagine che ti sei costruito, che abbiamo costruito…». Molto spesso succede la stessa cosa anche agli scrittori: quando hai trovato, hai inventato la tua forma, o la tua formina, e questo ti rende riconoscibile all’esterno, allora tu la devi perpetuare, devi continuare a essere riconoscibile.

 

 – Riconoscibile sta anche per vendibile?

 

 – Sì, nel senso che corrisponde a un segmento di mercato consolidato. Tu stai lì e l’editore fiabadice: «Non spostarti di lì, se no il lettore non ti riconosce più». Per me scrivere – l’ho sempre vissuto così nella mia vita e così continuo a viverlo anche adesso – è un gesto di esplorazione, di avventura, di rischio, qualcosa che mi porta dove io non so. È così che si muove la mia passione, altrimenti non troverei un motivo di verità e d’interesse, sentirei, anche nei confronti di chi mi legge, di fare una cosa brutta, di dargli una cosa inerte, brutta. Voglio partecipare anch’io alla stessa avventura, alla stessa esplorazione. Ad esempio, io sono partito con un paio di libri che contenevano dei racconti lunghi, o romanzi brevi, come La cipolla, eccetera, libri che erano stati anche apprezzati dalla critica. Ora, secondo questa logica, avrei dovuto scrivere otto libri di fila come La cipolla, per cui diventava chiarissimo, accertatissimo chi ero. Invece io ho avuto bisogno di scrivere un libro come Gli esordi, di gettarmi in questa avventura che è durata quindici anni, in questo libro in cui mi sembrava di raccontare le cose così come avvenivano, dentro di noi, nell’insieme della vita cosmica che ci attraversa, ecc… e invece c’era chi mi chiedeva di tornare a quei racconti, perché questa scrittura non la capiva. Tra questo e Canti del Caos c’è una continuità molto forte, e addirittura si ripresentano gli stessi due protagonisti, il Gatto e il Matto, però il secondo è un libro che lacera, squarcia, la bolla dove viveva Gli Esordi. Qui ho avuto bisogno di esplodere. Quando uno cammina, quando uno respira, quando uno lavora sviluppa una combustione col suo stesso muoversi, con la sua respirazione. Il suo spostarsi nello spazio è un movimento che produce una combustione, un bruciare le risorse dell’organismo umano, del mondo che lo circonda. Così io sento che dovrebbe essere anche per lo scrittore, anche per un’opera. Ho risposto a quello che mi hai chiesto o sono partito per la tangente?

 

 – Mah, direi tutte e due le cose, quindi va benissimo. Siamo anche entrati nella questione più propriamente di studio, cioè quella narratologica. Tirando in ballo questi concetti si gira intorno all’idea di orizzonte di attesa, che sembra essere diventato il cardine dei criteri di pubblicazione della letteratura attuale, come tu dicevi poco prima, perché è facilmente intercambiabile il concetto di orizzonte di attesa con quello di target. E insieme al concetto di orizzonte di attesa possiamo tirarne in mezzo un altro, importante per la letteratura moderna e analizzato anche a sproposito dalla narratologia, quello di sospensione dell’incredulità, che può essere spinta, secondo i criteri più istituzionali, fino all’idea di metanarrazione. Mentre Canti del Caos comprime e fa esplodere anche questo piccolo meccanismo meschino, come tu l’hai definito. In Canti del caos non fai balenare questa idea dell’orizzonte di attesa e quella della metanarrazione per poi violarle? E questo non è un modo per spingere anche il lettore oltre la sua abitudine di sospensione dell’incredulità?

 

 mores1– Nei miei libri precedenti questo elemento era pressoché assente. Io anzi ho sempre combattuto contro questa dimensione, questo schiacciamento della letteratura in un’unica dimensione ideologica autoreferenziale che contraddistingue la nostra epoca. A me sembra che, nei Canti del Caos, non solo non ho smesso di farlo, ma che lo faccio nella maniera più piena, tanto da andare ad affrontare e ora attraversare direttamente questo tipo di possibilità che viene data da questa epoca come unica dimensione della letteratura: letteratura di secondo grado, la valle degli echi, la letteratura come eterna citazione e rimando, roba per palati fini… oppure clonazione di generi e forme, puro intrattenimento. Questo è l’orizzonte dato, e quindi, in pratica, non sarebbe possibile altro che quella cosa che è stata chiamata metanarrazione, ideologizzata e teorizzata da scrittori, da saggisti, e che è poi la dimensione della letteratura che ha dominato nella seconda parte Novecento,  il cosiddetto postmoderno, eccetera. Io, nei Canti del caos, affronto a viso aperto questo blocco, non faccio finta che non esista questa sedimentazione culturale che si è andata ispessendo, anche a livello teorico nella mente del lettore, anche del più semplice, del più sprovveduto.

 

 – Del più redento…

 

 Ecco, del più redento, del più disincantato! “Disincantato”. Ecco un’ altra parola che adesso è molto di moda: autoironico, disincantato… Io non sono disincantato, io sono incantato. Io rivendico la ragione dell’incanto, dell’essere incantato, e lo dico proprio dal punto di vista radicalmente cervantesiano del termine. Avevo evidentemente bisogno di fare esplodere anche questa dimensione fittizia dalla quale però ci si è fatti schiacciare. Una cultura che si trova a percepire se stessa come terminale, come non più in grado di creare, e quindi che può solo ibridare, che può solo citare. Tutto è già stato fatto, tutto è già stato detto, tutto è già stato scritto…

 

 – E anche queste ideologie diventano “formine”, come quelle che dicevi prima…

 

 – Diventano delle formine perfettamente riconoscibili da parte di un lettore smaliziato, mores81disilluso, disincantato, che non crede più in niente, non crede nemmeno che attraverso la parola scritta possa venire ancora qualcosa di forte, che sposti qualcosa dentro la sua vita. Tutto questo piace molto a un tipo di lettore colto (o presunto tale), che ha sposato queste ideologie che vanno per la maggiore, quella del labirinto come unica dimensione della vita e quindi anche della letteratura, l’autoironia come unico orizzonte possibile, il fatto di non viversi sul serio. Viene considerato come un grande merito di uno scrittore il fatto che non si prenda sul serio. Scusatemi, ma io mi prendo sul serio. Penso che anche un filo d’erba abbia il diritto di prendersi sul serio. Non è che io mi prendo sul serio perché mi credo chissà cosa, perché mi sono montato la testa. Anche un filo d’erba, anche un insetto si prende sul serio. Allora perché non si devono prendere sul serio gli uomini, perché non si devono prendere sul serio gli scrittori? A forza di non prendersi sul serio hai visto in che situazione siamo arrivati! Siamo di fronte addirittura al pericolo di estinzione di specie, e non nel giro di millenni ma di tempi molto più brevi. Per come abbiamo distrutto l’habitat in cui viviamo, abbiamo offeso ogni cosa che ci circonda. Io non voglio offendere nessuno, io mi prendo sul serio perché prendo sul serio gli altri, non mi presento con una maschera finta nei confronti del lettore dicendogli: «Io non mi prendo sul serio, tu non mi prendi sul serio…». No, cominciamo a prenderci sul serio, a smettere di fingere di non prendersi sul serio, perché, tra l’altro, dietro queste maschere si celano degli Io ipertrofici. Perché questo modo di vedere le cose ci porta anche a una lettura retrospettiva, falsata della letteratura. Basta pensare a Don Chisciotte, che è stato letto, soprattutto in questa epoca, come il libro che apre la strada alla letteratura moderna perché in qualche modo avviene questa separazione interna, ha dentro questo elemento metaletterario, perché Don Chisciotte è contemporaneamente uno che agisce, un folle o quello che vuoi, e allo stesso tempo è già l’argomento di un libro. E quindi viene presentato come l’opera che apre alla letteratura moderna un unico destino di metaletterarietà. Io l’ho letto invece in maniera completamente opposta: è un libro che attraversa anche questa dimensione e arriva a un limite, va a forzare i limiti della letteratura e della possibilità irradiante del sogno della letteratura…

 

 – Quindi, ancora una volta rivendicando la ragione dell’incanto, piuttosto che quella del disincanto.

 

 – Nel Don Chisciotte c’è anche un elemento critico materialistico molto forte, rappresentato da alcune figure, soprattutto da Sancho. Però è un libro in cui la cosa più forte che ti arriva è il bisogno di varcare questo confine, di spaccare questa prigione in cui la vita e la letteratura sono rinchiuse. Quindi il fatto che un libro così, un libro ricchissimo che rimette in gioco tutta una serie di possibilità, sia stato letto unicamente come un libro che apre alla letteratura moderna il terreno della citazione, dall’autoironia…

 

 – Dell’autoreferenzialità…

 

 – dell’autoreferenzialità…è sbalorditivo. Perché in quel libro puoi leggere anche tutt’altro. Ma il fatto che sia stato selezionato e scelto solo questo tipo di lettura, che lì si sia inscritto tuttophotographer il destino della letteratura moderna, è una cosa che ti fa capire quello che è successo nella mente degli uomini in questa epoca, che sta avvenendo anche nella letteratura questa percezione della fine.Qualche giorno fa, leggevo su un giornale un’intervista a Hawking, l’astrofisico famoso per i suoi studi sui buchi neri, il quale prevedeva che tra cento anni non si potrà più vivere su questo pianeta: le guerre che ci saranno, probabilmente con armamenti nucleari, lo sviluppo di virus geneticamente modificati, il surriscaldamento del pianeta, la sovrappopolazione, ecc.. insomma queste e altre cose renderanno la vita sulla terra letteralmente impossibile. Per cui bisogna pensare fin da oggi a dove trasferirci. La Luna, Marte, Saturno… ma nessun pianeta del Sistema Solare va bene. Allora bisognerà andare su altri Sistemi, ma sono così lontani che i nostri telescopi più potenti non riescono neppure a fornirci dati per selezionare quale potrebbe essere il pianeta dove la nostra vita sarebbe possibile. Dovremmo, nell’arco del secolo, costruire le prime stazioni fisse sulla Luna, su Marte e poi da lì progettare nuovi viaggi. Il progetto è completamente campato in aria, per via delle distanze cosmiche, perché se sulla Terra ci saranno a quel punto dieci miliardi di persone, sai benissimo che non si potranno caricare tutte sulle navicelle, compresa la vecchina che abita in un villaggio dell’Africa con la sua capretta.  L’unica cosa, assolutamente l’unica che non gli passa per la testa è dire che per un lunghissimo periodo di tempo questo è l’unico posto che abbiamo, quindi cerchiamo di salvarlo. Bisogna rettificare tutto, reinventare tutto il nostro modo di vivere: i nessi, le strutture, gli scopi. Ragazzi, questo è il campanello d’allarme finale. Se un grande scienziato, con la sua intelligenza, la sua preparazione, non prende nemmeno in considerazione questa cosa che è la più evidente, la più realistica e la più immediata… Ho fatto tutto questo discorso perché lo stesso avviene anche nel campo della letteratura e della cultura. C’è questa percezione…

 

 – Questa percezione postapocalittica.

 

mores7 – Sì, questa percezione postapocalittica che contiene l’elemento consolatorio che tanto non si può fare più niente, non possiamo pensare di reinventarci come specie e come uomini, non possiamo reinventare quindi niente nelle nostre creazioni umane, una delle quali è anche la letteratura, o perlomeno quello che a volte può passare dentro la letteratura. È lo stesso orizzonte che domina in tutti i campi: le scienze, la letteratura, l’economia, la politica… invece tu, sì, scrivi, però tocchi qualcosa, o puoi toccare qualcosa che è attaccato a tutto il resto. Perché le cose sono legate. In questo momento la letteratura è uno dei pochi campi dove può ancora passare qualcosa, siccome viene considerata, a ragione o a torto, un’attività che non conta niente. E quindi è meno presidiata delle altre, può ancora arrivare qualcosa, attraverso la prefigurazione artistica e di conoscenza, puoi far arrivare qualcosa che ha a che fare con l’unità psicofisica e mentale dell’uomo. Anche se tu parti da lì, tocchi tutto il resto. È questo che dà senso e dignità alla letteratura. Puoi intrattenere, sì, ma puoi farci anche altro. In Lettere a nessuno, quando ero ancora sotterraneo e sconosciuto come scrittore, pensavo e sognavo già queste cose. Scrivevo che mi trovavo in urto profondo con tutto quello che mi circondava, con le ideologie di questa epoca, che passano anche dentro la letteratura e che vengono accettate acriticamente.

 

 – Ha qualcosa dello scandalo pasoliniano, questa percezione di essere in urto con l’esistente che si ha intorno?

 

 – Non lo so. Pasolini è uno scrittore che stimo molto, però ci sono anche delle cose che mi dividono da lui. In particolare Pasolini legge molto spesso la realtà attraverso una dimensione storico-politica, sociale, eccetera. Io non disprezzo affatto la contingenza, ci siamo dentro, è il nostro “qui dentro”. Però certe volte questo orizzonte è ingabbiante.

 

 – Psicologico, anche. In Petrolio direi psicanalitico.

 

 – Ma che è solo una parte, una parte addirittura piccola. Perché sono già passati trenta, cantiquaranta anni dai lavori di Pasolini, e siamo di fronte a un limite di specie. La “fine del mondo” di cui lui parlava, perché per lui era la fine di tutto un orizzonte in cui lui vedeva, leggeva la realtà a livello politico, a livello sociale, a livello estetico, ecc… ora la fine del mondo è già avvenuta, nel senso che diceva lui, eppure il mondo c’è ancora. Siamo di fronte alla fine della specie. Cosa succede – per dirla con una battuta – tra la fine del mondo e la fine della specie? Cosa puoi fare? A questo punto devi aprire completamente l’orizzonte della lettura della realtà, fissato solo a quel livello storico-politico come fa Pasolini. A volte trovo una maggiore apertura in questo senso in scrittori anche molto precedenti a Pasolini, addirittura di secoli prima. In Pasolini, secondo me, agiva una doppia forza: da una parte aveva una sensibilità e un coraggio molto grandi, dall’altra era anche una sorta di intellettuale-chierico vissuto in una determinata epoca, quella del crollo delle ideologie moderniste, sociali, politiche, artistiche, che lo ha strutturato molto nella sua lettura del mondo. Nei suoi libri migliori, come “Petrolio”… ma perché sono migliori? Perché si vedono tutte e due, queste forze. In “Petrolio” c’è, da una parte, questa sua lettura del mondo che ha queste componenti che ti dicevo, che io sento in parte come un limite, ma dall’altra parte c’è tutto questo bisogno di lacerare queste stesse gabbie, letture, strutture, dentro le quali lui si dibatte, è lacerato. In quel momento, soprattutto negli ultimi libri, diventa straordinariamente interessante. A me piacciono molto anche i primi, ma proprio i primi, dove entrambe queste forze si vedono prendere forma ed agire.

 

 – Per chiudere, ti vorrei chiedere come ci si sente a passare da scrittore sotterraneo e oggetto alieno della letteratura a oggetto di tesi di laurea?

 

 – È una cosa paradossale, tanto più che non è la prima volta che succede. E c’è un’altraesordi cosa paradossale: ci sono ormai, in giro per l’Italia, ragazzi e ragazze che sono diventati “dottori in lettere” prendendo come oggetto delle loro tesi di laurea libri scritti da una persona che è stata buttata fuori dalla scuola in seguito a continue bocciature, che ha frequentato una scuola di recupero per asini e che non ha fatto neppure l’università. Si vede che, ancora adesso, possono succedere delle cose impossibili, imprevedibili, che la letteratura è ancora – a dispetto di tutto – qualcosa di incontrollabile. Così alla fine, da un paese della Basilicata, è venuto a trovarmi a Milano un ragazzo di nome Luca Cristiano, sconosciuto fino a un momento prima, abbiamo mangiato una pizza insieme, abbiamo parlato per un po’ davanti a un registratore e adesso un’altra persona a me sconosciuta sta leggendo quello che ci siamo detti. Il tutto per le cose scritte sotto terra da un uomo su cui nessuno avrebbe scommesso un soldo bucato, che molti editori e letterati loro consulenti per quindici anni hanno respinto come impubblicabili…c’è un legame segreto tra tutto questo o è solo una configurazione del caos? Però anche tu…cosa ti è saltato in mente, tra tutti gli scrittori che ci sono in Italia, di scegliertene uno così?

 

 incen

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