Uno strumento per orientarsi nel grande spread che c’è tra le forme e i contenuti dei messaggi politici.
Umberto Galimberti ha recentemente visitato Praga, dove ha presentato il suo ultimo libro (L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, ed. Feltrinelli) presso l’Istituto Italiano di Cultura. Giunto il momento delle domande, la prima mano che si alzata è stata quella di un ragazzo che, visibilmente commosso, dopo essersi detto d’accordo con l’analisi del professore sulla Società moderna e su un sistema che non considera i giovani come una risorsa bensì come consumatori finali per un mercato privo di qualsiasi morale che non sia quella della domanda e dell’offerta, gli ha chiesto una soluzione. Soluzione al malessere. Risposta alla domanda “dove stiamo andando”. E perché.
Galimberti, che non è certo un inguaribile ottimista, è una persona molto sensibile e perfettamente cosciente di quanto sia importante rispondere a tale questione. Lui lo fa da maestro, da professore, da uomo di cultura e consiglia di far proprie le parole dell’oracolo di Delfi (prima “conosci te stesso”, poi “realizzati secondo misura”). Chi dovrebbe offrire un futuro, un orizzonte, un punto d’arrivo a un’intera generazione, però, è naturalmente la politica. I maestri possono educare e formare i singoli cittadini, ma sono i capi popolo che devono guidarli.
Negli ultimi anni la nostra classe dirigente ha spesso dimostrato di non aver compreso l’importanza di dare risposte ai giovani; non dico coi fatti, ma nemmeno sul piano delle parole, basti ricordare quell’infelice uscita di Padoa Schioppa: “mandiamo i bamboccioni fuori di casa”, o quella più recente di Martone: “Laurearsi dopo i 28 anni è da sfigati.”
Quando Grillo era ancora un profeta, dai teatri inquadrava il problema del “dove andiamo” fornendo un dato così schiacciante (come è nel suo stile) da annichilire ogni speranza: “Tra vent’anni noi avremo quaranta milioni di settantenni con una prostata così, mentre i cinesi saranno un miliardo e mezzo di quindicenni; come vogliamo competere?”
Competere.
La generazione del dopoguerra doveva “ricostruire”. Quella degli anni sessanta “sviluppare”, settanta “lottare”, ottanta e novanta “far carriera”, oggi “competere”.
E come competiamo?
Con la qualità.
Non c’è politico che non lo dica. E tutti, fondamentalmente, ne siamo convinti: la nostra arma è la qualità.
In cosa consista la nostra qualità, però, è meno chiaro; invece, è chiarissimo ciò che comporta. Sei mesi di stage non retribuito, poi contratto di tre mesi a due euro l’ora più premio in caso di evidente successo, poi rinnovo per altri tre mesi, poi sei, poi sei, poi a casa: “Non sei più entusiasta come quando eri arrivato e noi abbiamo bisogno di entusiasmo per fare un prodotto di qualità”.
Certo, si parla di qualità del prodotto, non della vita.
La qualità della vita non può che scendere: è il mercato che lo impone… e poi suvvia “il posto fisso è monotono”. Cosa volete?
Del resto, la prossima generazione, sarà quella del “sopravvivere”; non ve lo avevamo detto?
È in quella direzione che stiamo andando. Perché jobs act suona terribilmente Antani.
Foto di copertina: www.iconfronti.it
Situazione spread 30 marzo 2014