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“Un’ intuizione musicale”. Intervista ad Antonio Moresco

IMG_0589Tra il 25 e il 29 novembre 2014, lo scrittore Antonio Moresco è stato a Praga, ospite dell’Istituto Italiano di Cultura, dove ha tenuto un incontro pubblico introdotto dal Direttore Giovanni Sciola, e moderato da Mauro Ruggiero e Luca Cristiano. Durante la sua permanenza, Moresco ha anche incontrato gli studenti e i ricercatori di Italianistica dell’Università Carlo IV, introdotto dalla Prof. Alice Flemrová.

Moresco è un autore difficile da inquadrare, capace di rimettere continuamente in discussione lo statuto e le funzioni della creazione romanzesca. Il suo arrivo a Praga coincide con una fase molto importante del suo percorso creativo, vale a dire il completamento della sua opera principale, L’increato, composta da tre vasti romanzi (Gli esordi, Canti del caos e Gli increati, la cui uscita è prevista per marzo 2015).

La composizione dei tre volumi ha richiesto molti anni di lavoro. La prima fase di questa creazione si è svolta nell’isolamento e nel rifiuto da parte del mondo editoriale italiano. Poi, lentamente, a partire dai primi anni Novanta e dalla raccolta di racconti Clandestinità, la posizione di Moresco si è fatta sempre più centrale nel dibattito culturale del nostro paese. Titoli che per un certo periodo erano oggetto dell’attenzione di pochi appassionati sono diventati familiari a un pubblico via via più largo. La sua prosa, però, resta immune a ogni normalizzazione e continua a scompaginare le griglie interpretative di critici e lettori.

A due mesi dalla pubblicazione dell’ultima parte del suo più misterioso e complesso organismo narrativo, abbiamo provato a discutere con lui di alcune questioni che, adesso più che mai, ci sono sembrate centrali nella sua esperienza di scrittura e di pensiero.

 

CB – Iniziamo parlando dell’Increato, un testo che riunirà sotto un unico titolo Gli esordi, la cui gestazione ha preso più di quindici anni della tua vita, Canti del Caos, la cui concezione totale ha richiesto ancora più di un decennio, e la terza parte, Gli increati, che uscirà, se non sbaglio, a marzo del 2015. Cosa ti ha spinto a scrivere quest’opera monumentale che potremmo definire lirica, visionaria, epica e tragica al tempo stesso, ma soprattutto così diversa dalle altre tue opere e, diciamolo pure, da tutta la letteratura contemporanea?

AM – Non lo so bene, nel senso che io ho cominciato come una persona che si muove a tentoni, non avevo idea che sarebbe stato un libro così vasto e che mi avrebbe preso più di 30 anni di vita, anche perché, se l’avessi saputo, probabilmente ne sarei rimasto schiacciato, viste le pochissime forze che avevo. Diciamo che io mi ricordo due cose: una è questa maniera strana che ho avuto di cominciarlo: “Io invece”, che è uno strano inizio, considerato che la parola “invece” presuppone un discorso precedente che nel libro non esiste; quindi diciamo che è come se questo incipit desse per scontato tutto il resto della letteratura, tutte le altre possibilità del dire, e dicesse “Io invece”, e che cominciasse con questo gesto, con questa effrazione, con questa cosa che anche linguisticamente sembra un non-senso, però era l’unica strada per entrare in quello che volevo cercare di dire. E l’altra cosa che mi ricordo, per cercare una qualche intenzionalità, è il titolo. Il titolo a cui avevo pensato all’inizio era Circoncisione, perché c’è un capitolo che si chiama così.

CB – Per Gli esordi, non per l’intero libro.

AM – Per Gli esordi, sì. Ma quando ho scritto Gli esordi non sapevo neanche lontanamente che poi avrei scritto i Canti del caos, e tantomeno quello che c’è stato dopo. Avevo pensato a questo titolo, Circoncisione. Poi però l’ho rifiutato, perché ho capito che aveva un surplus di simbolico, di intenzionale, che non ci doveva essere; la prateria doveva essere completamente sgombra per me, per poter cominciare. E quindi ho scelto Gli esordi, un titolo che è tutto e non è nulla, è come dire “sto cominciando”, punto e basta. E queste sono le due cose un pochettino, diciamo così, ‘di sostanza’ che posso dire per questo mio inizio. Piano piano mi rendo conto, col senno di poi, che fin da allora il libro era disseminato di tracce che inserivo quasi a mia insaputa e che presupponevano uno sviluppo futuro che non era per me concepibile. Quindi è un libro in cui le cose avvengono in una maniera del tutto anomala anche rispetto ai grossi libri ciclici, dove magari la agnizione, chiamiamola così, avviene attraverso il processo della memoria, del disseppellimento del passato, di ciò che rimane sotteso all’interno del passato, oppure attraverso altre forme di conquista di un sapere, di una conoscenza del mondo. Mi sembra che negli Esordi avviene tutto attraverso dei successivi smottamenti di faglia, che liberano via via un qualcosa che è magneticamente annidato fin dall’inizio all’interno del libro, il quale io stesso sono tenuto a capire, a scoprire, a conquistare via via; quindi probabilmente mi hanno mosso tante cose.

Un’ultima cosa che posso dire è questa: mi ricordo che quando ancora non avevo cominciato a scrivere Gli esordi, ma stavo muovendomi, stavo raccogliendo tanti appunti, una volta – lo racconto anche nell’ultimo di questi libri, Gli increati – mi trovavo in un posto, mi pare fosse in Calabria, d’estate, ed ero seduto su un gradino di pietra, e c’era il sole, e mi ricordo che mi sono seduto lì sopra, e per un attimo ho avuto la percezione che stavo entrando in qualcosa di vastissimo, che andava molto al di là di quello che pensavo fosse Gli esordi, ed è durato un istante, non so neanche dire cosa fosse, non so come definirla, un’intuizione musicale. Però ho avuto quasi un’idea plastica di tutto quello che sarebbe successo, anche se non aveva nessuna forma. Perché poi proprio quella è la parte del tormento, arrivare a renderla dicibile trovandole una forma; quella è la parte del dolore che devi attraversare. E quindi, quello che ho cercato di dire, credo che lo capirà il lettore, non meno di me, quando avrà completato la lettura di tutti e tre i libri. Ho la percezione di essere stato veramente l’asino della situazione, quello che doveva tirare un carretto e non sapeva cosa conteneva, cosa portava.

CB – La concezione linguistica dell’opera e le categorie spazio-temporali che ne formano la struttura fanno dell’Increato un’opera unica e, possiamo dirlo, fuori da ogni genere; rispecchia una visione della realtà vicina a quella forse della fisica relativistica, addirittura della meccanica quantistica. Perché hai sentito l’esigenza di usare simili forme e contenuti?

AM – Io non so mai bene non solo che forma prenderà un libro, ma non so neanche in quale modo io mi ci posso avvicinare. A volte quando scrivo, parlo soprattutto dei libri più impegnativi, mi rendo conto che mi devo inventare anche un modo di avvicinarmici che per me non era scontato. Anzi, capisco quando mi avvicino a qualcosa dal fatto che comincio a fare delle cose che mi appaiono strane, fuori da un mio controllo razionale. E quindi Gli esordi ha assunto quella forma iniziale lenta, lentissima, perché dovevo in qualche modo immobilizzare lo spazio, anche lo spazio narrativo, rompere la consequenzialità di causa-effetto che è la forma dicibile, ma anche la prigione dove sono chiuse le persone, gli uomini e la nostra idea di conoscenza. Lì avviene un enorme rallentamento del mondo e, forse – l’ho pensato col senno di poi, quando scrivevo Canti del caos – forse dovevo immobilizzare il mondo perché poi dovevo aprirlo. Con Canti del caos ho provato a squarciarlo, e allora sono venuti fuori tutti i materiali del mondo, hanno fatto irruzione scatenandosi in maniera violenta, intollerabile. Però non avrebbero avuto quella forza, se non avessi prima fronteggiato il mondo immobilizzato. Per quanto riguarda invece Gli increati, è un libro per me talmente al limite dell’indicibile, dell’inconoscibile, che non riesco neanche a parlarne in maniera concettuale, esterna al libro stesso, perché quando lo scrivevo ero dentro qualcosa che mi rendeva possibile avvicinarmi a dire queste cose che sembravano indicibili; se invece ne parlo adesso, in modo concettuale, scontornato, separato, direi solo delle banalità e delle sciocchezze.

Però, anche attraverso delle letture scientifiche che ho fatto in questi anni, ho ricavato un’idea che viene in parte dalla fisica: che noi siamo dentro a qualcosa di più grosso. Alcuni fisici ci dicono che il mondo che noi conosciamo è un residuo piccolissimo, che noi non possiamo conoscere l’intero del mare, della materia e dell’energia, chiamata oscura proprio perché inconoscibile. Quando ho letto questa cosa sono rimasto profondamente colpito. La materia che noi percepiamo è solo il tre, il quattro per cento della materia che compone l’universo. Il resto non lo possiamo conoscere perché non emette radiazioni. Invece gli uomini con la loro arroganza parlano di realismo, parlano di materialismo… Io ho fatto uno scritto dove dico questo è sì realismo, ma solo del quattro per cento. E non solo queste letture hanno spostato la mia visione, ma in qualche modo mi hanno anche confermato delle cose che pensavo, che intuivo, che sentivo; e invece sembra che queste cose non lascino traccia nel sapere… Ho letto in una biografia di Kleist che quando lui ha letto Kant è rimasto sconvolto, ha avuto una crisi profondissima, uno sconvolgimento del suo modo di concepire il mondo. Ma queste cose, nei confronti del pensiero critico di Kant, sono mille volte di più, eppure non sembrano avere lasciato traccia nella letteratura, negli scrittori, nelle persone, qualunque sia il campo in cui operino, e questa è una delle cose credo più impressionanti di questa epoca che si vorrebbe tesa al sapere scientifico, ma che rimuove una cosa di implicazioni enormi, sul piano non solo personale e individuale, ma anche sul piano politico, sociale, artistico, insomma in tutti i campi. Poi è venuta fuori una forma che io non avevo previsto, perché Gli esordi ho cominciato a scriverlo in una forma strana, poi gli editori mi hanno detto che non bisognava scrivere così, che non è così che si racconta il mondo, ma a me sembrava di raccontarlo nell’unico modo in cui si potesse farlo. In Canti del caos invece ha assunto questa forma dei canti che non era prevista quando ho cominciato, è nata solo dopo un centinaio di pagine con un primo canto dove, non so perché, ho capito che dovevo fare cantare direttamente il libro. Per cui questo libro che inizialmente aveva un altro titolo, Il caos, è diventato Canti del caos, perché non aveva più nulla della descrizione del caos, della vita, del mondo come caos, ma era il caos stesso che cominciava a cantare, che cominciava a esprimersi all’interno di un’opera letteraria. E questo mio libro di adesso forse è apparentemente più “semplice”, ma perché deve contenere l’ostrica che a sua volta contiene la perla di tutto il libro, proprio perché quello che sta più vicino all’indicibile dev’essere il più trasparente a livello formale.

CB – Nei personaggi dei tuoi romanzi non c’è mai un’analisi psicologica-introspettiva, possiamo dire invece che sono sempre funzionali al discorso, delle vere e proprie funzioni operative. Tutti però manifestano una dimensione tragica e conflittuale dell’esistenza, e una solitudine che ha una portata cosmica. Cosa hai voluto esprimere con queste figure così lontane dalla tradizione romanzesca degli ultimi secoli?

AM – Sì, è vero, io non mi sono basato sul meccanismo psicologico, che è, secondo me, la vera peste della letteratura moderna; da un certo punto in poi gli scrittori hanno pensato che armati di quella forma di conoscenza sarebbero stati capaci di avvicinarsi alla verità. E’ stata un’abdicazione molto grande da parte della letteratura credere questo. Perché la letteratura e la poesia dei secoli precedenti, non usando questa sorta di semplificazione del mondo, della psicologia, non hanno certo espresso meno della letteratura che è entrata in questo tunnel semplificato della psicologia. Io ho sempre avuto un grande urto nei confronti della psicologia… Sembra sempre che ti avvicini a qualcosa, ma al prezzo di allontanarti da qualcos’altro di infinitamente più importante. Non è che io disprezzi tutto questo, però io ho capito, “io invece”, appunto, che non faccio così; non so ancora come faccio, però, io comincio e non faccio così. E quindi forse anche l’assenza di queste cose, che sono dei piccoli appigli che rendono decifrabile un quadro già assodato, ha reso così difficile da parte degli editori accettarmi e accogliermi. Poi io so che nei mei libri non ci sono quasi nomi; i nomi di persona li hanno gli animali, che sono gli unici che ne hanno, secondo me, il diritto e la concisione interiore; allora c’è, nella Buca, una cagnetta che si chiama Isabel, per esempio. È vero che negli Esordi c’è un “Rosa”, che è un nome, ma anche un nome di un fiore. Io avevo avuto proprio un rifiuto di questa cosa, e lo avevo anche raccontato in un romanzo che poi non ho pubblicato, si chiamava Romanzo di fuga, dove a un certo punto il protagonista si trovava in una camera in affitto, ed erano arrivate le guide telefoniche nuove. Le trova giù in portineria e le porta su, e lui sta scrivendo questa cosa, ma gli mancano i nomi. Allora dice, oh, guarda, posso usare l’elenco telefonico, come fanno a volte gli scrittori. Comincia a sfogliare, a sfogliare, poi alla fine dice: “ma questi non sono nomi!” E così io ho cominciato a dare nomi che indicano funzioni, anche infantili. Poi i nomi delle persone sono nati con una forte inerenza con quello che erano: il mestiere che facevano, la città da dove venivano, alcune loro caratteristiche anche scellerate, che poi i discendenti si sono portati sulle spalle per generazioni… Adesso i nomi si sono staccati quasi completamente da quest’aspetto, quindi bisogna rinominare il mondo. E allora istintivamente ho tirato via i nomi, ho tirato via la psicologia, ho tirato via anche i rapporti familiari, che nei miei libri non compaiono; negli Esordi, ad esempio, non si dice questa è la mamma, questo è il papà, questa è la sorella. Perché, se lo dico, canalizzo, semplifico, spingo il lettore e me stesso a dare delle spiegazioni che non spiegano nulla, che sono delle semplificazioni di convenzioni che mi nascondono quello che c’è di più grosso, ciò che sta intorno ai personaggi e alla vita dei personaggi. Secondo me questa era l’effrazione di partenza che è sotto gli occhi di tutti, solo chi non vuol vedere pensa che si possa nominare e conoscere il mondo così, ma non si può, diventerebbe un mondo di convenzioni, un ologramma, un qualcosa che non c’è più.

CB – “Oltrepassamento” e “accelerazione” sono temi e termini frequenti sia negli Esordi che nei Canti, potresti parlare di questa necessità di andare sempre oltre, di sfondare, di superare, che la tua opera continuamente esprime?

AM – Mah, sai… Perché uno scrive? Sembra osceno che uno scriva per dire a delle altre persone “ecco, io ti riconfermo la tua immagine illusoria del mondo e sulla base di questa cosa cerco la complicità al ribasso, con te lettore…”, mi sembra vergognoso, ignobile, lo scrittore collabora col male se fa un a cosa di questo genere! E allora il fatto di sfondare, di oltrepassare, ma anche di traboccamento torna nelle cose che scrivo. È l’unico modo per far sì che attraverso la cruna della letteratura possa passare qualcosa di grosso. Ora mi rendo conto che la complicità che lo scrittore chiede al lettore è proprio il fatto di dire “io ti metto dentro a una scatolina, sono anch’io dentro quella scatolina, siamo tutti e due dentro quella scatolina, e sulla base di questo io ricevo da te il premio di averti dato questa idea rassicurante del fatto che siamo tutti e due prigionieri di una scatolina”. Io, se sono prigioniero, non sono prigioniero di una scatolina. E, se sono prigioniero, mi voglio liberare, e quindi nei miei libri devo lacerare continuamente lo spazio che tende a chiudersi, anche lo spazio di conoscenza che tende continuamente a chiudere le proprie pareti attorno a te, e non riesco a immaginare un altro modo. Quello che abbiamo detto come specie umana è tutto il dicibile? Ma è una cosa che fa ridere! E allora io perché scrivo? Devo scrivere per riconfermare le persone nella loro paurosa idea del mondo, oppure devo accettare anche il dramma, la lacerazione di andare verso qualcosa che mi oltrepassa e che magari mi porta alla catastrofe? Se no non me ne sarebbe fregato niente di scrivere, non avrei scritto niente… E poi, se a uno che scrive dicono “bravo” perché mette insieme le paroline in un certo modo mi sembra una cosa schifosa, sia per lui che la fa che per gli altri che stanno lì a guardare. Mi sembrano quelle cose che c’erano nei romanzi cinesi, giapponesi di mille anni fa, dove le persone si scambiavano messaggi, e tutto stava nel vedere come avevano tracciato il carattere, come avevano annodato col cordino, col nastro… Ma anzi, quello era già più in là, perché lì passavano cose forse anche superiori rispetto alle cose di cui stiamo parlando. Insomma, io ho avuto una grande ribellione nei confronti di questa maniera di leggere il mondo e di questa funzione dello scrittore che diventa un piccolo, povero cane da guardia dell’esistente, o meglio della convenzione dell’esistente, e non son riuscito a starci dentro.

CB – Tu sei una persona molto sensibile anche a problemi di amplissima portata, alla condizione umana della nostra epoca. In molte interviste fai riferimento ai grandi problemi che attanagliano la contemporaneità. A questo proposito potresti spiegare il concetto di “emergenza di specie” che più volte hai citato?

AM – Mah, io ho da tempo l’idea che siamo dentro un passaggio di specie; noi siamo una specie recentissima, con una capacità e una furia distruttiva e anche suicida sconosciuta a qualsiasi altra. Siamo su questo piccolo pianeta e invece pensiamo a tutto meno che a quello, e facciamo come se la nostra situazione fosse completamente diversa rispetto a quella che è. Perché, se noi ci pensassimo, avverrebbe un terremoto nella nostra maniera di organizzare la vita, la società, la politica, l’economia e tutto quanto. Nei Canti del caos, per dare una giustificazione a quella sorta di fottitoio che c’è in certe parti (sia pure un fottitoio lirico), c’è un personaggio che dice che a un certo punto gli animali, gli insetti o le specie continuano ad accoppiarsi, ma poi si arriva a un momento in cui non generano più la continuazione, la riproduzione della stessa specie, perché avviene una divaricazione… E quindi viene data una spiegazione vertiginosa a questa attività copulatoria fortissima che avviene nei Canti del caos, come un tentativo di ritardare questa divaricazione di specie, che però è già in atto. Negli Increati invece viene data un’altra idea, un’altra immagine di tutto quello di cui stiamo parlando e anche della nostra specie. Però diciamo che io sono sbalordito dal fatto che questa cosa è accantonata. Quando si parla, si spingono le persone a dividersi, a scontrarsi su delle cazzate che non contano niente, ad esempio le diatribe sull’economia, con posizioni diverse, che sono tutte dentro lo stesso cerchio che non ha più nessun rapporto con quello che ci sta succedendo; e le persone stanno lì a scontrarsi su delle cose che non hanno nessuna rilevanza, se noi guardiamo le cose da un punto di vista più ampio. Ma non viene detto, perché, se venisse detto, creerebbe un terremoto! Tutto crollerebbe, capiremmo che non possiamo più permetterci una situazione di questo genere, non so che meccanismi si innescherebbero. Però è un fatto che questa maniera di intendere il mondo è una lenta morte a cui si portano le persone addormentate, addomesticate. Io devo cercare di dirlo, devo cercare di dire che bisogna svegliarsi, che sta succedendo qualcosa. Allora io questa cosa devo dirla attraverso la liberazione dalla prigione delle voci, delle storie, delle figure, dei nomi. Ed è quello che sto cercando di fare attraverso i miei libri, soprattutto attraverso L’increato. Non so se son riuscito a spiegarmi, però queste cose le dico infinitamente di più e meglio nel libro nuovo che è ancora inedito.

CB – Adesso puoi avere per la prima volta uno sguardo retrospettivo completo su quarant’anni di scrittura in cui, se lasciamo fuori le opere teatrali, i saggi e gli interventi più estemporanei, si distinguono due grandi filoni, che ora si stanno fondendo nell’Increato. Uno è quello delle Lettere a nessuno, l’altro è quello della narrativa, che a sua volta si divide in narrativa breve e narrativa lunga. In quella breve, ci sono, più o meno sempre, due personaggi fissi: l’uomo isolato e il bambino, che si riuniscono nella Lucina. La narrativa lunga, invece, attraversa, secondo me, tre grandi fasi. Grazie al fatto che mi hai concesso di leggere il manoscritto degli Increati ho anch’io un quadro totale. Queste tre grandi fasi sono: un’enorme espansione lirica, a partire dal punto di vista del narratore degli Esordi; poi quello che hai definito “chiamare a raccolta tutti i materiali del mondo”, dentro i Canti del caos; e, infine, una specie di immensa sintesi quasi dantesca, o forse più che dantesca, nel senso che, come Dante, negli Increati tu metti insieme tutto ciò che hai fatto, creando una forma di narrazione che prima non esisteva. Ti volevo chiedere di questa seconda fase, di questo movimento epico dei Canti del caos: come lo valuti adesso, retrospettivamente, sia rispetto agli Esordi, sia come avvicinamento agli Increati.

AM – La bolla si rompe con Canti del caos e vi fanno irruzione, appunto, tutti i materiali del mondo. Però dentro a quel caos avvengono anche una percezione e una fondazione. Di queste cose, ripeto, faccio fatica a parlare al di fuori del libro, perché per riuscire a dirle ho dovuto passare attraverso lo squarcio e il dolore delle forme, degli sprazzi di narrazione. E la filosofia ci ha insegnato, nel suo sacerdozio di questa nuova religione chiamata “verità”, che si può spiegare tutto attraverso la forma controllata della concatenazione del ragionamento. Ma non è assolutamente così, uno non può dire: “tu non ce la fai, non sei capace, e io invece sono un filosofone e ce la faccio” è una menzogna! Questo per dire che io davvero non son capace di parlare di questa cosa al di fuori di ciò che ne ho scritto negli Increati. Invece per quanto riguarda quello che dicevi prima, delle due strade, quello è vero. Quando ho scritto Gli esordi, scrivevo su un quaderno quello che poi è diventato Lettere a nessuno. Scrivevo, combattevo, tiravo pugni nell’aria, e all’interno di questa cosa piano piano si precisava un pochettino qualcosa che è poi diventato quello che mi ha permesso di scrivere Gli esordi. Ma ho tenuto le due cose separate, e istintivamente pensavo che dovevano stare separate: io dovevo avere questo ricettacolo del mio furore, della mia rabbia, della mia disperazione, della mia tenerezza, di tutte quelle cose che se no mi avrebbero impedito di scrivere Gli esordi. Ero così debole che dovevo tenere le due cose separate. E la maniera per scrivere Gli esordi era che quei materiali li mettevo da parte, così ho potuto cominciare a fare un passo in un’altra direzione. Adesso non so se è perché sono più forte, o per quale altra ragione, ma non ho più quella paura che mi costringeva a tenere separate le due cose. E allora nell’ultimo libro diventano una cosa sola, perché succede qualcosa di infinitamente diverso, e forse inaspettato anche per quelli che hanno letto attentamente gli altri libri e che, magari, hanno anche visto tutti questi segnali che soltanto nel libro nuovo, però, si precisano in una maniera intollerabile.

CB – Però, come nel finale degli Esordi ci sono dei segnali di Canti del caos, così ci sono degli avvisi anche della fusione tra i due filoni, quello di Lettere a nessuno e quello dei romanzi. Questo raccordo si può registrare già all’altezza della stesura di Canti del caos. Perché tu, nei Canti, nella terza parte soprattutto, sviluppi una tensione al superamento del tempo cronologico, cronometrico, lineare. Inventi delle forme verbali in cui il passato diventa futuro e il futuro è la cosa preliminare a ciò che sta succedendo adesso, si crea un vortice. Ora, mentre tu scrivi Lettere a nessuno, racconti un episodio di cronaca autobiografica, personale. Scrivi di una camminata a Pavia nella quale, guardando le strade, a un certo punto ti accorgi di trovarti in una città che non riconosci, e dici: “in quella città diversa, che non c’era più, che non c’è ancora”, come se nel racconto della tua vita privata usassi uno schema di percezione che invece era stato elaborato per il romanzo.

AM – Esatto, anche le Lettere a nessuno cominciano a gettare qualcosa dentro Gli increati; si vede che io non è che governi l’opera con una lucidità separata, che sembra essere l’unica lucidità o sapienza possibile; forse ce n’è un’altra ed è quella che agisce. Adesso tutto viene concepito attraverso l’orizzonte e l’orizzontalità delle cose: la conoscenza della nostra vita, l’economia, il rapporto tra le persone, è tutto giocato al livello dell’orizzonte, come se non ci fosse altro movimento, perché niente deve più fare diaframma alle nuove potenze, alle nuove tirannidi che sono dispiegate oggi nel mondo, e questa cosa fa sì che anche le persone si conformino, anche i rapporti personali e interpersonali diventano di tipo finanziario, di mercato. Io cerco semplicemente di fare diaframma a questa cosa e di testimoniare che c’è un altro movimento possibile che attraversa i vari strati di orizzontalità che si sono sedimentati nella storia, sul mondo e sulla conoscenza del mondo, e c’è una possibilità di passarli da parte a parte attraverso un movimento che spacca gli strati orizzontali. Comunque anche nel passato c’erano altre forme di orizzontalità che si esprimevano attraverso le macchine di condizionamento sul mondo, sugli uomini; magari avevano un’altra natura, ma avevano anche un andamento orizzontale. Però in qualche caso persino quelle macchine avevano bisogno di salvare qualche elemento di verticalità, mentre adesso no, non c’è neanche più bisogno di quello.

CB – Ti volevo ricordare un’espressione che usasti qualche anno fa, a proposito della posizione che dovrebbe occupare uno scrittore in quel periodo che tu chiamavi “restaurazione”. Dopo una serie di riflessioni sulla storia, la politica, la cultura, questi schiacciamenti, appunto, verso l’orizzontalità, tu dicevi che la posizione ideale per lo scrittore era quella di chi resta fermo nell’occhio del ciclone. Guardando indietro, ancora una volta, all’opera che hai appena completato, senti di aver mantenuto questa posizione? Sei ancora convinto che uno scrittore deve stare con le spalle al muro, così è costretto a muoversi in avanti, non ha altra scelta?

AM – Diciamo che adesso l’ho nominata in un altro modo, e forse anche queste erano forme di avvicinamento; quella delle spalle al muro era per me una cosa forte, e anche quella dell’occhio del ciclone è una cosa che sento molto. L’occhio del ciclone è la zona dove hanno origine o si scaricano, vai a sapere, tutte queste tensioni. Però dove è anche tutto fermo, dove tutto è immobile; e, in qualche modo, credo che ci sia un occhio del ciclone nel mio libro. Negli Increati, anche lì, lo scrittore chi è? Secondo la logica corrente è quello che ti mette davanti uno specchio e che ti fa vedere come sei fatto; non come sei fatto tu, ma come lo specchio ti dice che sei fatto. Oppure lo scrittore è quello che mette uno specchio davanti al mondo e che ti dice come è fatto il mondo, quel poco o niente che lo specchio riesce a vedere delle cose… E quindi lo scrittore dev’essere una sorta di capo scout che porta in giro i lettori con i calzoncini corti e fa vedere i sentieri – senza nessun disprezzo per i ragazzini che vanno a fare gli scout, ma mi è venuta questa sciocca immagine – insomma, è una specie di fratello maggiore un po’ più furbo, spesso anche un po’ più marpione degli altri; e lui stesso sta in una zona protetta, agisce, racconta, descrive da una zona protetta. Ma da quella zona protetta non vedi niente; sì, vedi tutto quello che la gente pensa che sia il visibile… invece non è così: c’è un ciclone, c’è un occhio in questo ciclone, e io ho cercato di andarci dentro.

CB – Ultima domanda: visto che L’increato, il momento della completezza, che più volte hai detto che poteva essere il tuo ultimo libro, è finito, io ti chiedo: e adesso?

AM – Non lo so. Come dico spesso, voglio togliermi dalle palle. Questo è il mio desiderio, ma l’avevo già scritto alla fine di Lettere a nessuno, dove dico che sogno che venga per me il momento in cui mi dimenticherò persino di essere stato, un tempo, uno scrittore. Questo è quello che a me interessa in questo momento. Parla l’asino in questo momento, l’asino che ha tirato il carretto senza sapere cosa c’era sopra; l’asino desidera uscire da questo giro, da questo cerchio così piccolo. E se invece non avverranno le cose così, se dovessi ancora fare qualche piccola cosa, vorrei tenerla il più possibile per me. E come ho detto, vorrei ricongiungermi a quella zona da cui sono partito e da cui sono nato, sotto terra, e congiungermi a quella potenza, a quella libertà e a quella vicinanza, magari dolorosa, ma che io ho vissuto e che è alla base del mio esordio di scrittore. Questo è veramente il mio bisogno più intimo, più profondo, più vero, più sincero. Non riesco a vedere altro in questo momento davanti a me.

Di Luca Cristiano e Mauro Ruggiero.

Si ringrazia Elisa Proh per la collaborazione.

 

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