Facendo uno sforzo per evitare letture a posteriori e forzature anacronistiche, potremmo collocare Freaks di Tod Browning alla fine di un percorso, senza considerarlo un punto di partenza (per centinaia di film e registi, ad esempio Tim Burton e soprattutto David Lynch, esplicitamente in The Elephant Man) ma vedendolo in continuità col suo passato: Freaks è la narrativa dell’Ottocento che s’inceppa, si blocca, si coagula e diventa cinema. Dentro ci sono Dostoevskij, Turgenev, il Tolstoj di Resurrezione, Dr Jekyll e Mr Hyde di Stevenson, tutti autori che Browning forse non aveva mai letto, che conosceva per sentito dire, ma che in qualche modo riesce a richiamare grazie alle sue grandi capacità di narratore, narratore essenziale di un piccolo romanzo per immagini.
Sono dell’idea che Browning, che aveva abbandonato la famiglia benestante a sedici anni per unirsi a un circo, abbia effettivamente visto la storia raccontata nel film (tolto il finale!): una donna perduta, una femme fatale che fa innamorare di sé un ricco nano. È una storia noir tipica nel cinema europeo dell’epoca (si pensi alla Dietrich dell’Angelo azzurro, del 1930), rientra già in un “genere”, ma lo scatto è l’aver effettivamente lavorato con uomini che camminano sulle mani, ermafroditi veri o presunti, gemelle siamesi con amanti diversi, bruchi umani con una spiritualità meravigliosa, perché quello che in Freaks si percepisce con grande forza è il senso dell’esperienza vissuta. La sua autenticità, la sua verità sono fondanti rispetto alla materia affrontata, e per mostrare che i freaks, i fenomeni da baraccone, sentono vivono pensano come noi non serve una storia, ma un’immagine, quella in cui – a mo’ di prologo – li vediamo per la prima volta in un bosco che giocano e danzano, poi il bosco si chiude, li fissiamo uno per uno, osservandone la mostruosità. Spaventato, uno di loro accarezza la tutrice, e in quel gesto di unica umanità c’è già tutto: eccoli, sono creature di puro amore, e quello che verrà dopo è solo una storia, un fatto di cronaca. Browning, come il Maupassant della Madre dei mostri, affonda le mani nella realtà che ha visto coi propri occhi, al netto di idealismi e romanticismi. Maupassant, oscillando tra totale pietà e crudeltà, narra come vera la storia del padrone di un circo che paga donne incinte perché partoriscano mostri, deformandosi la pancia con cinture e percosse: tanto maggiore il prezzo quanto più mostruoso è il neonato. Il cinema ci ha mostrato l’altro, il diverso, forse in modo meno profondo della letteratura, ma certo più immediato, diretto.
E pensiamo infatti che nel ’32, quando uscì facendo un enorme flop, Freaks fu comprato da uno di quelli che a Hollywood chiamavano “i quaranta ladroni” e proiettato nei pageants (cinematografi itineranti) come anticoncezionale, come spauracchio per i rapporti sessuali extraconiugali, e lo stesso governo americano comprava o commissionava film del genere: nel ’41, ad esempio, anche un grande regista come John Ford gira Sex Hygiene per l’esercito americano sul Pacifico, perché i soldati evitino i rapporti con prostitute asiatiche. L’America di quegli anni era un postaccio: uno scrittore poteva farcela, un cineasta europeo almeno aveva il cinismo dalla sua, ma i cineasti americani erano messi male nell’America del codice Hays, che prevedeva la censura delle scene scandalose, offensive, volgari, eterodosse, devianti. E tuttavia divenne un vero problema con l’arrivo del sonoro, per cui le sceneggiature venivano lette ed esaminate, e col 1934, quando Breen prese il posto di Hays all’ufficio per la censura dei film, e a Breen il cinema piaceva, si divertiva a leggere le sceneggiature, ad analizzarle e a bloccarne singole parole o intere scene. I grandi registi, in ogni caso, riuscivano a inserire qualche germe all’interno della maglia di norme e divieti, a trovare scappatoie per raccontare le loro storie, anche perché, secondo la definizione di Kubrick, il codice Hays era come «un paio di bretelle indossate troppo a lungo da un ciccione»: diventano slabbrate e non trattengono più niente.