Quella nostra primavera d’Europa. Di Růžena Hálová
La Redazione
In questo mio testo-lettera, destinato al pubblico italiano, ho cercato di unire i miei ricordi di giovane degli anni successivi alla rivoluzione di velluto del 1989 con le riflessioni di una persona ormai adulta, nel venticinquesimo anniversario della nostra primavera, quella che ebbe inizio, appunto, l’11 novembre di un quarto di secolo fa. Dopo varie presentazioni organizzate in luoghi bellissimi in Italia (Palermo in primis, poi Napoli, Caserta e, prossimamente, a Roma e a Tivoli nelle sale affrescate di Villa d’Este) ho avuto il grandissimo piacere di poter presentare il libro “Vaclav Havel. Cinque discorsi sull’Europa” nella mia Praga, presso l’Istituto Italiano di Cultura diretto dal dott. Giovanni Sciola, che questo progetto aveva accolto con grande entusiasmo. In questa occasione, volendo naturalmente rivolgermi anche ai miei connazionali, ho tradotto il mio testo in ceco. Avevo molto timore del loro giudizio, cioè delle persone a cui i fatti, i sentimenti da me esposti erano familiari; persone che quei fatti avevano vissuto insieme a me, ma le cui considerazioni a distanza di anni avrebbero potuto essere anche assai diverse. Così non è stato, anzi abbiamo vissuto insieme una serata di condivisione e di memoria viva. Il mio augurio è che tutto questo possa ripetersi anche con i lettori in questa sede.
Nella metà degli anni ‘90 avevo poco più di vent’anni, l’età in cui si hanno speranze e aspettative dalla vita forse più grandi, più aperte e ampie, e che in me erano potenziate dal momento storico che attraversava il mio paese, la Repubblica Ceca. Da poco avevamo potuto oltrepassare la cortina, abbattendola nel modo che più corrispondeva a noi cechi, senza rompere neanche una vetrina, e che fu così prontamente ribattezzato la rivoluzione di velluto. Ci sentivamo ammirati dal mondo e ne andavamo molto orgogliosi, facendoci forti del nostro passato, di un popolo che non ha mai cercato la guerra o di sottomettere nessuno. Eravamo orgogliosi di appartenere a un popolo che è riuscito a sopravvivere alla dominazione asburgica, durata secoli con la predominante lingua tedesca, costruendo due volte il monumento al nostro sentirci cechi dal profondo, il Teatro Nazionale, raccogliendo solo il contributo volontario della gente, contribuendo ad arricchire il sottosuolo culturale di entrambe le lingue per creare personaggi di lingua tedesca ma di residenza praghese come Franz Kafka, Max Brod, Rainer Maria Rilke e tanti altri. E tutto questo conservando la profonda vena del “pensiero ceco”, così chiaramente percepibile nelle opere di Jan Neruda, Jaroslav Hašek, Karel Čapek, e più tardi di Bohumil Hrabal, per ricordare solo alcuni del mondo letterario.
Vorrei citare, a proposito, le parole di Roman Jakobson da un discorso tenuto nel 1969 a Praga, che sentiva come la sua vera patria: “…questo paese era unico nell’accoglienza di popoli perseguitati (…) dove la cultura era di casa più che da qualsiasi parte del mondo (…), questo focolare dell’Europa dove l’occidente incontra l’oriente, su una superficie così piccola e conservando la propria particolarità, ha dato al mondo idee così grandi come l’idea di Costantino dell’uguaglianza e sovranità di tutti i paesi, l’idea riformatrice di Jan Hus e quella grandiosa concezione del sapere democratizzato di Jan Komenský! Non conosco una nazione al mondo che abbia tanto radicata in sé la democrazia.”
I primi anni’90 sono però anche gli anni in cui la mia generazione, affacciandosi al mondo, ha dovuto confrontarsi con una percezione del nostro paese che non si aspettava, cioè abbastanza riduttiva e certo non gratificante da parte del mondo occidentale, di una nazione definita come una delle tante del blocco sovietico, di un popolo sottomesso e umiliato, senza identità propria nella mente di molti che avevano vissuto oltre quella cortina. Era come sbattere la testa contro un altro muro. Abbiamo dovuto fare i conti con uno spostamento dei confini europei, abbiamo scoperto che, pur essendo definiti più volte il cuore dell’Europa, di fatto non le appartenevamo, che i confini creati dalla cortina di ferro continuavano ad esistere incarnandosi nei confini della Comunità Europea. E noi, insieme agli altri paesi dal destino simile al nostro, continuavamo a starne fuori. Al crollo di una barriera politica resistevano altre barriere, quelle dell’economia e della burocrazia, quelle dei pregiudizi e della paura dell’altro, del diverso.
Ed è proprio in questo momento che riusciamo ad alzare la testa, ad essere noi a gettar via quello stigma di un popolo violentato, cioè quando si fa sempre più forte la voce del nostro presidente, che viene applaudito in piedi dal Congresso americano. Penso che quella diretta l’abbiamo seguita forse tutti. Václav Havel, che poi, in tutta Europa, quella geografica, pronuncia parole che invitano tutti a riflettere sulla vera Europa, sul suo spirito e sulle sue origini. Parole critiche, costruttive.
Insomma, alzando la testa riusciamo a vedere quell’apertura dove passa quel raggio di sole di cui parla Václav Havel in uno dei suoi discorsi che ora vengono pubblicati per la prima volta in Italia, da me raccolti e tradotti, dalla casa editrice di Enna Euno edizioni con il titolo Václav Havel. Cinque discorsi sull’Europa.
E’ stato forse quell’impulso di allora l’origine della mia decisione di tradurre quelle parole, in una lingua che già sapevo sarebbe diventata la mia seconda lingua, nel paese dove avevo incontrato molte affinità. Questa mia intenzione fu accolta con molta disponibilità dall’Ufficio di Presidenza di Havel, che rese disponibili alcuni discorsi per essere tradotti, alcuni ancor prima di essere pronunciati. La stessa disponibilità mi fu espressa da parte di alcuni giornali e riviste italiani per la pubblicazione.
Negli anni ‘90 quelle riflessioni erano più dirette al pensiero dell’integrazione europea, alla piena unificazione, al difficile percorso che oggi diamo per scontato, ma che allora scontato assolutamente non era. E questo, oggi, invita a riflettere sulle vie che ci si aprono davanti, di cui possiamo sceglierne una sola prima che ci si presenti un altro incrocio. Solo la nostra conoscenza dei fatti, la riflessione sullo stato delle cose ci permetterà di incamminarci su quella giusta. Credo che oggi le riflessioni di Václav Havel che ho raccolto nei abbiano ancora molto da dire, forse ancora più di allora, cioè in questo momento in cui l’attenzione viene rivolta solo verso i parametri economici, verso un calcolo puro di convenienza degli aiuti da parte dei paesi più forti, nel momento in cui si cominciano a sentire di nuovo voci dubbiose sul senso dell’Unione Europea, che forse unita non lo è mai stata veramente proprio per la ristrettezza di vedute da parte di chi invece dovrebbe guidarla attraversando il periodo critico che viviamo proprio adesso.
Le riflessioni di Havel, nella forma che assumono in Cinque discorsi sull’Europa, sono presentate per la prima volta ai lettori italiani.
Dei cinque discorsi, solo quelli pronunciati a Dublino e a Varsavia sono stati pubblicati, in versione ridotta e sempre da me tradotti, nel 1996 sulla rivista “Crocevia” (Esi, Napoli) diretta da Corrado Ocone e, nel 1998, sulle pagine de “La Repubblica”.
I discorsi presidenziali di Havel toccano aspetti legati alla città o all’istituzione in cui sono pronunciati, eppure sono attraversati e legati insieme da un medesimo tema: l’Europa.
Sono riflessioni intorno all’idea di Europa, alle sue radici, alla ricchezza di culture che la abitano, al
suo significato e al suo destino per la storia della cultura occidentale.
La centralità di questo aspetto mi ha reso possibile attribuire un titolo a ciascuno dei cinque discorsi
che, nel testo preparato per essere letto, non presentavano titolo. Nell’attribuire questi titoli ho tenuto in considerazione il fatto che Havel riportava interamente la sua esperienza di drammaturgo e il suo passato di dissidente nella sua attività di Presidente; ai suoi discorsi presidenziali, anzi, Havel affidò un compito fondamentale per la comunicazione con i cittadini cechi ed europei, che, in questo modo, continua ad avere luogo anche in forma scritta.