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Quando la musica è rivoluzione. Intervista ai 99 Posse

Fin dalla loro comparsa sulla scena musicale italiana, il 9 ottobre del 1991, non hanno mai smesso – nel bene o nel male – di far parlare di loro.

Probabilmente il gruppo italiano più controverso, sia per le vicende personali dei suoi componenti, sia per il suo stile non proprio politically correct, i 99 Posse sono stati l’energia generante quell’ onda rap e raggamuffin che ha segnato una svolta epocale nella musica popolare italiana.

Luca Persico (in arte O Zulù), voce, e Massimo Jovine (JRM), basso, dopo più di dieci anni intensi iniziati con i singoli: “Rafaniello” e “Salario Garantito”, nati nel centro sociale occupato autogestito: Officina 99; l’uscita di molti singoli e album come: “Curre Curre Guagliò” (1993), “Incredibile opposizione tour 94″,”Guai a chi ci tocca” (1995), “Cerco tiempo” (1996), “Corto circuito” (1998), “La vida que vendrà” (2000)  che li hanno portati al successo con vendite a sei cifre, si sciolgono nel 2001 per continuare su strade diverse la loro avventura musicale che per altri 10 anni li porterà a sperimentare nuove sonorità e a realizzare progetti separati, per poi ritrovarsi nuovamente insieme, con la stessa energia di prima, per iniziare un nuovo capitolo della band, il 18 luglio del 2009. Il 12 settembre di quell’anno, i 99 Posse ufficializzano la loro reunion con un concerto nella storica piazza Mercato di Napoli al quale ne seguono altri 85 in giro per l’Italia e all’estero. Nel 2010 esce il singolo “Antifa” che, in coerenza con la filosofia della band che ha sempre voluto – contro la speculazione delle case discografiche – un prezzo imposto per i suoi prodotti musicali, è liberamente scaricabile dal sito di XL Repubblica. Il singolo farà da preludio a “Cattivi Guagliuni” il nuovo album uscito nel mese di ottobre del 2011.

Pochi mesi prima dell’uscita dell’album, noi di Café Boheme abbiamo incontrato i “Cattivi Guagliuni” – Persico e Jovine –  in Spagna, a Barcellona, nel corso di una serata presso l’associazione “Cova de les cultures” e gli abbiamo fatto qualche domanda.

 

 

Le vostre sonorità si ispirano a vari generi, principalmente al reggae, all’hip hop e al rap, ma combinati in uno stile peculiare, con molti influssi “mediterranei”. Qual è il genere musicale secondo voi più adatto a veicolare la protesta che esprimete nei testi delle vostre canzoni?

Zulù: Credo che qualsiasi tipo di musica possa essere buona per veicolare dei contenuti, così come ogni tipo può essere buona per annientarli. Il rap e tutte le sue sfumature, compreso il raggamuffin è un modo più privilegiato per farlo perché basato principalmente sulle parole. Se usi il Canto mitico, su quattro battute ci puoi mettere quattro parole. Se fai rap, e magari sei bravo, in quattro battute ci puoi mettere anche trentacinque parole e trentacinque parole possono essere trentacinque schiaffi se le vuoi usare per far male o trentacinque carezze. Non c’è, secondo me, un genere che si adatta di più o di meno. La scelta delle musiche che noi di volta in volta utilizziamo per accompagnare le parole non nasce dalla necessità delle parole stesse, ma nasce più che altro dal gusto e noi abbiamo gusti molto variegati all’interno della band e anche molto aperti.

JRM: L’unico stile è avere qualcosa da dire. Molti fanno musica e dicono molto poco, noi invece abbiamo usato sempre questo mezzo per dire innanzitutto quello che vivevamo nella nostra città e poi, piano piano, nel nostro paese.

La vostra musica è ed è nata come una forma di protesta spesso per dare voce a chi voce non ne ha. Secondo voi la musica  può solo esprimere un disagio o ha la capacità di veicolare un messaggio capace di far “svegliare” le coscienze e spingerle ad un’azione politica concreta?

Zulù: Esprimere un disagio è già svegliare le coscienze, in qualche maniera, e anche questo fatto di svegliare le coscienze penso che non sia il fine ultimo della musica politica. Può anche essere sufficiente dirla dal punto di vista dell’auto-rappresentazione. Nel momento in cui una persona invece di scegliere tra il destino di guardia o di ladro che di solito viene pensato per certe categorie sociali, si inventa di scrivere un libro, oppure di disegnare un quadro, oppure di scrivere una canzone e la canta per esprimersi e per autorappresentarsi in un mondo in cui altrimenti non viene neanche rappresentato, questo fatto è già un fatto rivoluzionario: serve a lui e a tutti quelli che lo ascolteranno e ci si riconosceranno per sapere che non sono dei pazzi, dei malati o persone che hanno subito un trauma infantile, ma sono delle persone che cercano altri, come te, e quindi li spinge magari a ricercare questi altri e a creare un movimento. Ma questo non è l’obbiettivo delle canzoni. Le canzoni, per quanto mi riguarda, mi servono a scaricare tutto il veleno che accumulo dentro. Io ho un tatuaggio che dice “Quod me Nutrit Me Destruit” che in latino significa: “Ciò che mi nutre mi distrugge”. Allora ogni tanto ho bisogno di espellere il veleno che accumulo e lo faccio attraverso la scrittura di parole. È lo stesso meccanismo della musica popolare, della danza fatta per espellere  un veleno. Anche le parole hanno la stessa funzione. Poi ho scoperto, magari non di aver cambiato il mondo, ma di aver cambiato la vita a un sacco di persone che mi dicono: “Da quando ho sentito una  tua canzone, ho iniziato un percorso”. Sono centinaia e quindi devo ammettere che la musica può magicamente cambiare delle cose.

JRM: Per me sicuramente! Io ho iniziato ascoltando il rock nei primi anni ’80, anni in cui la dance era l’unica forma di comunicazione tra i giovani della mia età. E io schifavo sia i Duran Duran che gli Spandau Ballet, non appartenevo a nessuno dei due schieramenti. Questa per me era musica commerciale. Mi sono perso quindi anche delle cose belle negli anni ’80 che adesso sto recuperando. Sentivo il rock. Provavo ad ascoltare il rock italiano ma c’era pochissimo perché tutti i cantanti italiani si esprimevano in lingua inglese. Però capivo che c’era una forza dietro a quella musica che era differente dall’atmosfera generale evocata dalla dance e quindi ho cominciato a metterla. Avevo dei dischi di Gaber vecchissimi in cui lui faceva dei monologhi, e io mi dilettavo a fare dei loop ante litteram, perché non avevo lo strumento per farli, per cui andavo avanti e indietro con la cassetta e sopra ci mettevo le parole di Giorgio Gaber. A un certo punto, mentre io mi lambiccavo a fare queste cose assurde, mi trovai insieme ai compagni del nostro centro sociale ad un corteo dei sindacati a Roma. Noi eravamo andati a contestare i sindacati. Stavamo andando verso il palco, alla fine del corteo, dove dovevano sfilare i leader dei sindacati e, a un certo punto, abbiamo notato di essere stati preceduti dai compagni romani che avevano già circondato il palco, avevo cacciato il servizio d’ordine della CGIL e si erano impossessati del palco. Sono saliti in quindici, tutti col volto coperto. Tre avevano in mano i microfoni e hanno iniziato a cantare “Batti il tuo tempo”, sul palco del sindacato. Poi, appena finita l’ultima nota, hanno buttato i microfoni, sono scesi, e sono andati via, e il sindacato, vergognandosi di esistere ha potuto continuare. Era tra il 1990 e il 1991, e io praticamente sono ancora là, con la bocca aperta, davanti a quel palco a subire la potenza della scoperta del rap, della parola, del modo di potersi esprimere con la parola magari senza neanche avere nozioni di canto, anche essendo stonati, ma semplicemente avendo qualcosa da dire, e un minimo di cognizione del ritmo. E così, tornati a Napoli da quell’evento, ci siamo recati nel nostro negozio di dischi di fiducia e abbiamo chiesto per la prima volta non il metal, hard rock, punk, trash core e quant’altro, ma: “Hai qualcosa di rap?” E lui ci consigliò un disco, e qui il “colpo di culo”, perché ci vuole anche quello  nella vita! Mi fu dato il disco di MacKa B che è probabilmente l’unico toaster giamaicano che dice cose che hanno un senso, non solo per me. Quel disco mi colpì molto e una canzone in particolare “Coconut” che era una canzone che lui dedicava ai neri che “ce l’hanno fatta”, che sono andati via dalla Giamaica e che hanno trovato non solo una collocazione nel mondo dei bianchi, ma ne hanno assunto anche in qualche maniera gli atteggiamenti, e quando tornano in Giamaica guardano gli altri giamaicani dall’alto in basso, fingono di non comprendere lo slang… E lui in questa canzone dice: ”Non siete altro che noci di cocco, neri fuori e bianchi dentro” e a me veniva in mente lo slogan dell’Autonomia Operaia degli anni’70, che definiva quelli del PC “rafanielli” rossi fuori e bianchi dentro. E siccome volevo confermare questo mito che si dice che a  Napoli  “simm’ tutt’mariuol’ ” – tutti non lo so, ma io sicuramente sì – allora di questa canzone non rubai solo l’idea, ma proprio tutto! E così cominciammo a giocare con la musica e con le parole. Scrissi “rafaniello” e quando suonavamo nel centro sociale alcuni ci guardavano con stupore e ci dicevano: ” Ma c’ata fa’ cu ‘sta musica! Leggitev’ o Capitale!”. Non l’ho ancora letto, tra l’altro, anche se so che dovrei.

Che rapporto c’è tra arte e rivoluzione?

Zulù: Dal mio punto di vista di artista rivoluzionario posso dire che io di arte non me ne intendo. Se mi dicono “Maestro”, io mi offendo. Se mi dicono “Artista” io rispondo: “Ma perché?”. Io mi considero un rivoluzionario che utilizza tutti i mezzi a sua disposizione per fare la rivoluzione. Ho scoperto di avere alcune capacità liriche e le utilizzo per i miei scopi privati che poi ho scoperto coincidere con quelli dei 2/3 dell’umanità che insieme a me non sono previsti da questo modello di sviluppo e ogni mattina dobbiamo capire come fare a farci un po’ di spazio, per crearci un habitat che ci venga congeniale. È tutta una resistenza nel pianeta, ma c’è poca consapevolezza di essere tutti partigiani che stanno combattendo la stessa resistenza e spesso ci sono anche delle diffidenze. In tutti i posti che ho girato e che ho visto, ho incontrato gente che faceva la Resistenza. Ho incontrato gente che faceva la Resistenza votando a destra e gente che la faceva lavorando nei campi nel profondo Sud della Sicilia o della Puglia; gente che faceva la Resistenza in quegli stessi campi cercando di sindacalizzare i contadini; chi la faceva accettando ogni tipo di lavoro possibile per sostenere la famiglia, e ho visto anche gente che faceva la Resistenza riempiendosi di esplosivo e facendosi esplodere negli autobus o nei mercati in Israele. Penso che siano tutti, nonostante le loro differenze e a prescindere da quanto loro pensano di pensare, che sono tutti quanti militanti di una grande Resistenza, ognuno sulla sua prima linea. Noi di un certo Occidente ci godiamo ancora, per quello che possiamo, il privilegio di poterci vivere la nostra Resistenza in una fase organizzativa di parole, di dibattiti, non siamo stati costretti dalle vicissitudini che ci circondano a dover scegliere di essere imprigionati o a dover imbracciare il fucile. Ma ci sono altri posti sul pianete dove invece questa scelta si deve fare. Sapendo questo io non me ne vado certo in giro a dire che con le mie canzoni cambierò il mondo, ma sicuramente, siccome canzoni so fare e sparare non è proprio arte mia, almeno per il momento, le faccio e in questo modo do il mio contributo alla cosa.

Com’è cambiato il pubblico dei vostri concerti negli ultimi vent’anni?

JRM: Prima della reunion, dopo dieci anni che non eravamo più insieme, ci siamo chiesti chi sarebbe venuto ai concerti. Tutti quelli coi capelli bianchi come me? E invece la maggior parte sono ragazzi e questo ci fa molto piacere. In Italia la televisione ci bombarda e questo è un bombardamento mediatico schifosissimo. Ci sono pochissime cose che si riescono a guardare in televisione e che “si salvano”, tra virgolette. Vedere allora ai concerti così tanti ragazzi è per noi una boccata d’aria. Evidentemente, sia noi che loro abbiamo qualche esigenza in comune, e questa cosa ci fa molto piacere, è un segnale di speranza.

 

     

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