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“Pakistan, impressioni di viaggio”

Islamabad era sempre lì, quasi immobile, ad aspettare noi, le sue figlie occidentali, con il suo smog ed io suo odore di fumo e spezie, il suo frastuono, le sue grida lontane di genti in preghiera. Ero di nuovo stretta tra le sue braccia austere, di nuovo avvolta nei suoi veli in segno di rispetto. In questa città puoi dimenticare chi eri e tornare ad essere chi sei, dopo un anno che sembrava un giorno, dove il tempo qui si annulla e passano solo gli istanti del presente, un presente denso come cera, che assorbe e asciuga tutto ciò che è superfluo in me, in noi, non necessario ai giorni che ci attendono di emozione e di realtà. Come può essere differente una realtà da un’altra. Islamabad è sempre il punto di sosta e orientamento verso tutto ciò che ci aspetta, uno spazio di bilancio e organizzazione del lavoro che ci prepara sempre con lentezza a ciò che verrà dopo, al dolore di altri luoghi dove non c’è sosta né conforto, dove l’ovest si allontana come un sogno lontano. Islamabad è una madre che ti accarezza prima di un addio, che lascia andare le sue figlie con la speranza pakistan2del ritorno, nel suo mutare lento ho sempre sentito che qui potevo non aver paura e sentirmi a casa. Sono qui con la mia “boss” ed il lavoro da fare é molto. Avevamo già in programma numerose visite ufficiali e così, come da protocollo, abbiamo subito incontrato i responsabili di Erra, una sezione del Ministero dell’Interno. La mia mente è già altrove mentre stringo e saluto una mano intatta e liscia, le mani che conosco dei nostri bambini di strada, delle madri disperate nel nostro centro in Sukkur, quelle mani non sono mai state così perfette e morbide. Il piccolo Obaid e la sua famiglia ci accolgono con grande amore nella loro casa a Rawalpindi, una città non molto distante da Islamabad con piú di 3 milioni di abitanti che nel 1959 fu addirittura capitale, perdendo però in seguito questa funzione a vantaggio di Islamabad. Percorriamo Rawalpindi in un dedalo di strade strette e affollatissime per arrivare da questo piccolo bimbo a metá, sembra un piccolo ramo spezzato, al tormento di una famiglia paralizzata da una immagine atroce e dal suo ricordo ancora vivo e presente. Obaid è un piccolo sole. Obaid come tutti i bambini ha la vita dentro, una vita che non si è mai arresa nonostante tutto, che ha già trovato piccole strade alternative per potersi esprimere, i suoi piedini sanno già fare alcune cose, stanno imparando a muoversi con agilità, ovviando una mancanza, loro hanno imparato a gioire almeno un po’. Obaid le sue braccine le ha perse lasciandole appese ad un cavo da 11.000 Watt, mentre giocava con i suoi cugini, per lanciare una palla. Qui è normale uscire di casa e perdere la vita. Qui si muore in un giorno qualsiasi, si perde un arto, si resta sfigurati, o in coma per cose da niente. Mai, in nessun altro luogo da me vissuto, ho sentito la vita e la morte così vicine, camminare accanto a me e sfiorarsi sempre, ricordarmi improvvisamente il privilegio di una vita altrove, lontanissima dai pericoli di un mondo sinistro dove esistere è un gioco alla roulette russa e una madre può solo pregare affinché ogni giorno suo figlio torni a casa sano e salvo. Dovremmo sempre riuscire a percepire la nostra esistenza come un dono immenso e mai certo. Sopra la mia testa tralicci giganti e tanti cavi dell’alta tensione si intrecciano e passano da un balcone all’altro, nodi enormi si aggrovigliano e attraversano minacciosamente strade e terrazze, muri e giardini, beffando la vita come demoni crudeli, aspettando ancora un’imprudenza dell’umanità, un salto troppo alto per una partita entusiasmante, una palla rincorsa, un braccio teso al vento tra le risa giocose dei bambini. Il viaggio aereo per il sud del paese è stato già prenotato, la poverissima città di Sukkur mi accoglie che è già notte. Domani respirerò di nuovo la sua estrema povertà, il suo vento caldo e umido ed i suoi burka colorati, le mucche ossute addobbate a festa in cerca di cibo tra i cumuli di immondizia, i sorrisi gentili dei suoi abitanti, la fatica di vivere in un luogo in cui tu sai di non potere niente. L’ospedale civile dove abbiamo il nostro reparto per bimbi gravemente malnutriti è pieno di pazienti dentro e fuori le sue mura. La situazione generale ci appare sempre gravissima, molti piccoli versano in serie condizioni, altri se ne stanno andando, come se nulla fosse, nel silenzio di un luogo dove perdere un figlio fa parte di un destino ineluttabile e dove i limiti delle differenze culturali mettono a dura prova la nostra capacità di accettazione e comprensione verso ciò che non possiamo cambiare interamente, ma solamente migliorare e rispettare. La costernazione di quelle madri e la loro impotenza, il dolore e la fede, l’abbandono e la dignità di quegli sguardi, i volti e i corpi senza vivacità di tutti quei bambini allettati ci richiamano con forza ancora piú grande verso ciò che è necessario fare. C’è di tutto qua dentro, sembra un mercato di carni ferite e inferme, bancarelle colme di pance gonfie e di occhi chiusi, alcuni bambini sembrano già morti, sento l’odore di corpi malati, vedo uno sputo di sangue in terra. Vedo un bimbo. Il suo nome è Ali Roza. Nulla di quello che potrei descrivere con le parole racconterebbe meglio dei suo occhi e del suo scheletrico corpicino la sofferenza di una lotta così faticosa per la vita, lui che ha solo due mesi, che non può nemmeno piangere le sue lacrime, che apre la sua piccola bocca come un uccellino affamato che aspetta il suo cibo, un lamento muto che fa male al cuore, stretto a mani adulte che non possono abbastanza, aggrappato ad una esistenza che sta scivolando via troppo presto, una esistenza già segnata, iniziata male solo per errore, per inconsapevolezza umana, per una cosa da niente, per i mezzi e soldi che non ci sono, per solitudine e ignoranza, per inadeguatezza e miseria. Questo bambino resterà per me il simbolo di un dolore inascoltato ed inespresso, lui una immagine di disperazione e dolore che mai dovrebbe lasciarci dormire tranquilli. La nostra misura di quanto in noi è ancora vivo e buono, del nostro cuore e dei suoi moti, per non morire di indifferenza di fronte ad un piccolo essere umano che non ha mai potuto scegliere, che silenziosamente soffre e lotta e ci mostra l’ineguaglianza di un mondo ancora molto lontano dalla parola amore. Quando lascio l’ospedale sento un vuoto che so essere colpevolezza, ancora una volta sento che tutti noi siamo in debito verso questi bambini, verso queste piccole anime, loro come i nostri bambini, come i nostri stessi figli, sono tutti uguali i bambini del mondo, ancora una volta dovremmo sforzarci di percepire appartenenza al di là della distanza culturale, religiosa, fisica e dei vincoli di sangue. Il Sukkur é sempre intenso, è un pugno al cuore, e nel bene e nel male sa mostrare tutti i colori di una umanità che dà e toglie senza tregua e che imparo ad amare ogni volta in modo nuovo. Oggi conoscerò finalmente Abid e suo padre, arrivano da Karachi, trasportati da un vecchio pullman, dopo un viaggio lungo una intera notte. Karachi é una delle metropoli piú popolose al mondo, con circa 15 milioni di abitanti, nel sud del Pakistan, affacciata sul Mar Arabico. Abid e suo padre hanno affrontato questo interminabile viaggio solo per vedere la mia boss poche ore, poche ore per sentire ancora la sua voce e respirare insieme a lei la stessa aria, erano molti anni che lo aveva desiderato, che aspettava questo incontro con impazienza e gioia. Lo vedo abbracciarla stanco ed emozionato, può parlare con lei ora che ha imparato l’inglese. Abid è cieco, Sylvia lo ha aiutato dopo la sua disgrazia, un “incidente” come tanti altri qui in Pakistan, aveva 14 anni quando fu sessualmente molestato da un suo insegnante, quando fu toccato e spinto a fare atti sessuali contro la sua volontà. Abid però si rifiutò e lo respinse. L’insegnante lo aspettò allora il giorno dopo a scuola con un secchio di acido e glielo gettò sul volto, sfigurandolo per sempre e rendendolo totalmente cieco. Anche questo é il Pakistan. All’epoca Sylvia lo portò, insieme al padre che gli era sempre al fianco, in Grecia, da un chirurgo specialista in trapianti di cornea. Inizialmente tutto sembrò andare nel migliore dei modi ma in seguito ci furono problemi di rigetto e l’intervento non si concluse con un successo. Ormai non é piú possibile fare niente per far sì che Abid possa nuovamente vedere ma lui oggi sta bene ed insieme ad i suoi genitori si è rassegnato, e sta imparando a convivere con il fallimento del trapianto. Sorseggiamo tutti insieme un Chai, il tea nero pakistano con il latte, li ascolto mentre parlano e si raccontano a lungo ed è bello osservarli e scattare delle foto, l’amore arriva anche da un gesto, da una parola appena sussurrata, da due teste unite che sanno di potersi sorreggere a vicenda. Insieme è meno buio, é meno dura questa vita se qualcuno crede in te e ti ricorda quanto sei importante. Il Muezzin intona i suoi canti di preghiera un po’ stonati, l’altoparlante fuori dalla nostra finestra ci sveglia che è già l’alba. Il villaggio di Khairpur ci aspetta in un giorno pieno di sabbia trascinata dal vento, la polizia di scorta è sempre con noi, fanno la staffetta dandosi il cambio da una parte all’altra della città, vedo i loro fucili e i mitra, li mostrano fieri pensando forse di rassicurarci. Vedo tanti vestiti colorati stropicciati e gonfiati dall’aria calda del sud, in una giornata in cui mi sento leggera perché c’è sempre festa quando arriviamo da Waqar, che ora ha 9 anni ma sembra che non possa avere piú di 5 o 6 anni per quanto piccolo è.. Un anno e mezzo fa pesava solamente 6.9 chili e lottava per la sua sopravvivenza. Lui è bello piú che mai ed é dolcissimo, lo vedo camminare per la prima volta e ci racconta tante cose senza dire mai una sola parola. Parlano solo i suoi occhi grandi e neri di kajal, che non smettono mai di sorridere, di ridere, di scherzare, parlano loro al posto di una bocca che non può esprimersi perché Waqar é muto. La madre é una donna esile e meravigliosa che mi emoziona sempre, ci stringiamo le mani, ci abbracciamo e ci baciamo, siamo tre donne con la stessa gioia nel cuore. Altre donne si uniscono a noi, una vecchina dolcissima mi stringe a sé, delle ragazze ci osservano nascoste da un muro sbilenco, i bambini delle case vicine ci raggiungono eccitati e pieni di curiosità. Sono tutti in festa mentre Waqar non lascia mai Sylvia, è sempre in braccio a lei e non vuole allontanarsene, la guarda, la spinge su un letto per giocare, la segue sempre con il suo sguardo amorevole e pieno di incanto. Dopo un anno sembra trascorso un giorno. Waqar è felice ed il suo sorriso vale un intero viaggio, le emozioni di questa gente e i loro cuori pieni di grazia sono un esempio grande per me, un ricordo che non potrà mai svanire e che sostanzia e sostiene le mie azioni, il mio essere lì, riempiendo di significato questa lunga giornata di sabbia e vento. Il mio amato Kashmir è ancora lievemente innevato e l’aria è fresca e pulita, le montagne tutte intorno sono maestose e la vallata dove si estende Muzaffarabad mi appare ancora piú immensa con il grande fiume che corre via veloce, il verde brillante della sua natura rigogliosa, il suo popolo fiero ed i suoi costumi tradizionali, con gli uomini avvolti in lunghe e calde stole per proteggersi dal freddo di un inverno non ancora terminato. I nostri bambini della casa FEHP ci aspettavano ansiosi ed emozionati, con i loro teneri canti di accoglienza, tutti in fila allineati, con i volti trasformati da un anno di vita pulita, nella protezione e nella serenità di una casa che è sempre lí per loro, un punto di riferimento e di sicurezza che sta tirando fuori il meglio delle loro capacitá, della loro natura candida di anime belle, di bambini che possono tornare oggi a sentirsi tali, giocare e studiare, ridere e correre liberi, completamente trasfigurati dalle cure e dall’amore ricevuto. L’emozione é immensa ogni volta che li vediamo ridere di felicità, ci hanno regalato sorrisi diversi quest’anno, sorrisi veri, pieni di luce, una luce che non c’era, che non sapevano di avere. Lo scorso anno al posto di questi sorrisi c’erano bocche che si storcevano senza provare niente, tutto piangeva in loro mentre si sforzavano di fare qualcosa di assolutamente innaturale come sorridere, loro come molti altri bambini di strada non sono capaci di scambiare un sorriso. In Pakistan molti bambini non sanno sorridere.. Non potrei mai immaginare mia figlia in una perenne malinconia, in un sguardo che è già rimprovero, piena di rabbia nei giorni di una infanzia negata, negata da noi adulti. Quanto male hanno fatto a questi bambini. Ma oggi, questi piccoli ex bambini dell’immondizia hanno avuto la loro riscossa, sono stati il miracolo piú vivo e straordinario, con i loro sorrisi incantevoli, il loro impegno e la loro allegria. Ognuno di loro si è messo in gioco preparando con grande impegno e orgoglio lo spettacolo per festeggiare il primo anno di apertura della casa FEHP, le canzoni e i balletti, scendendo ogni giorno giù in città, puntuali, lasciando le loro tende o le baracche sparse per le montagne intorno al centro urbano, tutti i giorni fieri di essere a scuola, applicandosi e credendo che questo futuro possibile non è piú solo una parola, uno slogan gridato o una falsa promessa, una una bellissima realtà in cui credere per cambiare le loro storie ed esserne finalmente protagonisti. Loro, i nostri bimbi di Muzaffarabad hanno già vinto. Anche Zeeshan, che ora ha 14 anni, ha vinto. Arriva accompagnato dal papá in un giorno tiepido e di sole. Zeeshan perse un braccio ed il suo fratellino nel terribile terremoto dell’ottobre del 2005. Dopo aver visto una sua foto su un giornale Sylvia lo portò in Italia per mettere una protesi al braccio sinistro. Questo fu l’inizio di un cammino che continua ancora oggi, ora che Zeeshan sembra già un piccolo uomo, timido e sensibile, un bellissimo giovane pieno di fiducia in un domani meno nero e dove tutto ancora può essere possibile. Ho sempre creduto che ci sarà speranza se riusciremo ancora a sentire il loro dolore come fosse nostro, il loro pianto piangere dentro di noi, quando gli occhi di quelle madri addolorate e piegate da prove troppo grandi riusciranno a rispecchiarsi nei nostri occhi e sentiremo male, sentiremo quel dolore che segna una appartenenza oltre lo spazio e il tempo, oltre le barriere culturali e religiose, oltre tutto. Sentire quella vicinanza dello spirito, una relazione umana che annulla qualsiasi estraneità e differenza e ci fa percepire l’altro per quello che realmente é, un nostro figlio lontano che soffre o una sorella persa e ritrovata che ha bisogno di aiuto. Il pakistan non è poi così lontano se lo pensiamo così, non è poi così importante il paese, siamo tutti esseri umani e siamo tutti uguali di fronte alle miserie di un mondo che non garantisce gli stessi diritti per tutti i suoi abitanti.. In Pakistan la vita a volte é un lusso. Dentro di me sento e ho sempre sentito che bisogna restituire parte di un lusso non egualmente distribuito, anche la fortuna va meritata in questa esistenza, tutto dovrebbe essere in equilibrio e siamo noi che dobbiamo aiutare la vita. Alimentare così la speranza di un padre che ha preso tutto, vedere rifiorire un bimbo già vecchio a 6 anni, ricambiare tutta la purezza d’animo che questi bambini straordinari ci donano, sempre qui ed in ogni luogo del mondo.

 

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