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Musicafé, suoni dal Mondo, n.10. Te saluto Milano.

 

Già quando si arriva si cerca di mettere i piedi sull’onda, per poi improvvisare un’andatura possente: come non fossero nulla le spine nostalgiche della memoria.

Già quando si arriva sembra che ogni palazzo sia una rosa, ogni piazza un largo di luce. E i navigli un accesso immediato verso il mare.

Ma già quando si arriva le pupille oscurano il bianco sfavillante delle zagare, per poi dare il passo al grigio di un’aria morta: a volte sembra anche a delle lune nere.

E in mezzo a tanti cuori guasti non si trova nessuno che voglia la libertà di essere infiacchito: come fosse sacra l’accelerazione. Nessuno che, in questo infinito campo di deportati, voglia scattare in piedi.

Sembra che ovunque vi sia una coltivazione aperta di anime tristi, di quelle definite irregolari nell’universo.

Per rimanere fuori dalla scia bisognerebbe stare attenti a non ripetere l’abitudine, a non agevolare la tenaglia del consumo, a non oliare la meccanica del pane. A credere in ciò che non è vero.

Ma già quando si arriva si inciampa nelle ombre dei miserabili, che preparano le mani e ci tengono d’occhio. E poi ci scordano e dormono, ovunque. E potessimo scoprirli non troveremmo i nostri stessi pensieri oscuri.

Qui tornano a ripetersi i figli di nessuno. E non ci sono mammelle solidali, portatrici di succhi di limoni e cedro, di acqua d’amore. E le facce diventano verdi e dopo grigie e dopo pallide, e anche la lingua diventa nuvolosa.

Già quando si arriva si capisce che la rilucenza non è nelle stelle, che i fanali hanno la cima illuminata e un manto di paura. Si capisce che questa è una civiltà immatura, per nulla profetica: con i nervi saldati nel metallo, con il coraggio inchiodato ai muri, e la vita, la vita, vietata.

Già quando si arriva il manometro segna il tuo livello, la tua utilità. E c’è la giostra del toro accesso fiammante che ti fa saltare in aria; che ti mette in opera e non per un affanno sportivo. La resa è il battito o la sepoltura.

Qui c’è il tempo del design, così lontano dal richiamo della terra scossa e dagli ambasciatori del mediterraneo. Qui non c’è uno sguardo acutissimo che poi ti sappia soccorrere.

Già da quando si arriva si guarda la cappa del cielo messa al rovescio: come se in quell’alto si potesse entrare dentro a una buca. E tu senti di avere freddo, lì sotto.

E poi c’è il fischio delle sirene che sale, che assale. E tu scappi. E tu pensavi di poter essere un giglio.

Milano è una madre illegittima che non dimentica di farti assaporare l’amaro del mondo, è un’arena che hai nella gola,  un’incudine che ti schiaccia.

Già quando si arriva, qui, non c’è nessuno che voglia battere le mani, che voglia diventare una colomba.

di Michele Caccamo

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