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L’italiano parlato nell’insegnamento universitario all’estero

Uno sguardo generale

Nell’insegnamento all’estero delle lingue letterarie o nazionali altrui, predomina un modello definito, il c.d. ‘standard’, cioè quelle forme codificate, talvolta persino con interventi legislativi, che prevedono un’ortografia, una morfologia, un lessico, strutture sintattiche e un’ortoepia sottoposti a norme rigide, che solo in certi casi, peraltro espressamente previsti, ammettono delle eccezioni. La lingua letteraria fino a poco fa definita serbocroata o croatoserba nella variante štokavo-ijekava, inizia la sua storia a Vienna il 28 marzo del 1850, con un preciso accordo tra letterati serbi (il più famoso è certo Vuk Karadžić), croati (come Ivan Kukuljević e Ivan Mažuranić), ai quali si aggiunge il noto filologo sloveno Franc Miklošić. Ancora più recente la codificazione del macedone standard.

Questo complesso sistema di norme è prodotto relativamente tardo, che nei vari Paesi ha avuto storia diversa: evoluzione più lenta e pacifica per le nazionalità già da secoli organizzate in una compagine statale indipendente (Francia, Gran Bretagna, Spagna), più rapida e talvolta turbinosa, spesso generata da movimenti storico-politici e culturali in Paesi di recente costituzione.

Nella nascita delle lingue nazionali ottocentesche, sempre sorte in un contesto di rinascita  culturale, politica e nazionale, non mancano curiose contraddizioni. Vogliono essere unitarie e nello stesso tempo popolari, ma il popolo non ha una lingua unitaria, perché parla solo dialetti locali, spesso decisamente diversi. Impongono il principio di scrivere come si parla, piši kao što govoriš,  è il citatissimo credo di Karadžić, ma, ed è rimprovero coevo, non c’era proprio nessuno che parlasse come Vuk scriveva. Non è solo storia serba: nella sua Gramatyka języka polskiego, edita a Varsavia nel 1817, Onufry Kopczyński prescrive piszemy, jak mówimy, mówimy, jak piszemy; inutile dire che anche qui si tratta di duža najwność, o grande ingenuità, come precisa Zenon Klemensiewicz, il noto storico della lingua polacca[i]. In altri termini, queste lingue popolari, nazionali, sono piuttosto artificiose, e non rispecchiano esattamente nessuna variante linguistica realmente parlata[ii].

Qualunque sia l’origine, la scolarizzazione generale, che si basa appunto sui modelli standardizzati, ottiene grandi successi e questi ‘prodotti di bottega’ si diffondono a tappeto in tutti gli stati moderni, ma con qualche limite consistente. In generale basta un normale iter scolastico, neppure universitario, perché i parlanti nativi conseguano sufficiente padronanza di ortografia, morfologia, lessico della loro lingua scritta. Altro discorso però si deve fare per il parlato, e anche qui è questione che interessa tutti gli stati, come dimostrano le realtà note come Umgangssprache in zona tedesca o colloquial English in area anglosassone[iii]. In altri termini, se lo scritto si lascia in qualche modo disciplinare e regolare, il parlato rimane indocile  di legge, e ciò vale soprattutto per l’ortoepia, argomento sul quale mi soffermo in modo particolare.

Se l’ortografia corretta è bene da supermercato, accessibile a tutte le tasche, l’ortoepia è in effetti gioiello prezioso e raro; la sua codificazione è spesso ancora più tarda di quella dell’ortografia. Ovviamente, anche prima si aveva un’idea del parlare ‘bene’ o del parlare ‘male’, ma non era chiaro dove risiedesse questo ‘bene’ e questo ‘male’. Nel 1780, alla corte di Vienna, una contessa austriaca rimprovera una pari grado bavarese perché parla un ‘cattivo’ tedesco: dice infatti koaserin, mentre tutte le persone civili sanno che si deve dire kaaserin; si parla ovviamente dell’imperatrice, che per noi modesti proletari è inequivocabilmente kaiserin[iv]. Come ben risulta da questo divertente aneddoto, si aveva un’idea della pronuncia buona o cattiva, ma la norma era quanto mai capricciosa, anche negli strati sociali più aristocratici. E’ noto d’altra parte che la RP (Received Pronuciation) inglese si stabilisce nel corso dell’Ottocento nelle c.d. public schools[v]; in Germania o in Polonia bisogna giungere agli inizi del ‘900 e la norma viene largamente modellata sulla pronuncia in uso nei maggiori teatri di tradizione, tanto è vero che in area tedesca all’inizio si parla  esattamente di Bühnensprache, lingua del palcoscenico, di fatto già da tempo adottata motu proprio dai maggiori teatri berlinesi. Come accade anche in altri settori della lingua, questa pronuncia è altamente artificiosa e per così dire, inesistente nella realtà: in Germania la regola era che si doveva scrivere come nel sud, ma pronunciare come nel nord[vi]; in Italia valeva il principio ‘lingua toscana in bocca romana’[vii]. Va da sé che simili pronunce erano e sono rarissime: la RP è usata normalmente da non più del 3% della popolazione; in Italia o in Germania nessuno apprende la pronuncia standard dalle labbra materne.

Non è dunque casuale che una tradizione scolastica antichissima e diffusissima abbia sempre ignorato il parlato. Nella Grecia classica la lingua studiata era quella dei poemi omerici, che nessuno ha mai usato parlato; nell’Europa occidentale, almeno fino al Rinascimento, a scuola si studiava solo il latino; nelle medresé turche annesse alle moschee, si imparava solamente l’arabo coranico, non certo il kaba türkçe di oggi, che venne imposto solo da Atatürk. Per tradizione millenaria, l’insegnamento linguistico è ferocemente normativo, non descrittivo: si insegna come si deve parlare e scrivere, non si descrive come si parla. Questa situazione arriva fino quasi ai nostri giorni: un noto linguista italiano della vecchia generazione criticava i giovani colleghi che si dedicavano al parlato, dicendo “Alcuni linguisti credono che la linguistica consista nell’ascoltare quello che dice il vicino di casa”. Il parlato dunque non esiste assolutamente nella scuola o nella prassi scientifica, con due eccezioni: nella prassi scolastica esso affiora come ‘male’, insomma è quello che non si deve fare; nella prassi scientifica ha invece un suo posto d’onore, a partire dall’epoca romantica, ma solo nei corsi di dialettologia.

La situazione è cambiata gradualmente solo in negli ultimi decenni, soprattutto per l’influsso esercitato da nuove teorie linguistiche, che si aggirano tutte intorno al dato di fatto essenziale che la comunicazione umana avviene essenzialmente perché la gente si parla, non perché si scrive. Grandi linguisti del Novecento come de Saussure, Jakobson, Trubetzkoy,  Chomsky, studiano il parlato, non lo scritto.

Anche qui un paio di curiose stranezze: in primo luogo, l’ossessione dell’insegnamento linguistico moderno sembra essere ora la capacità di comunicare verbalmente, ma è proprio la lingua parlata realmente che non si studia; in secondo luogo, la pronuncia che nessuno usa a casa sua diventa la norma cogente nell’insegnamento delle lingue straniere all’estero. La verità inconfessata è che quanto si studia davvero, in primis et ante omnia, è lo scritto, in seconda battuta, quasi di straforo, si impara poi a leggere in qualche modo quello che si è scritto. Il parlato, se viene preso in considerazione, non costituisce il tema fondamentale del discorso, ma ci entra surrettiziamente, ad esempio in corsi di dialettologia o di sociolinguistica. Tutto questo ha ovviamente ragioni profonde e assolutamente rispettabili: nel nostro mondo le lingue standard hanno assunto un’importanza e una diffusione decisiva e in generale stanno portando alla scomparsa dei dialetti locali; da un iter scolastico ci si attende che produca gente capace anche di scrivere, e non solo di parlare, perché non si possono laureare degli analfabeti;  l’insegnamento richiede necessariamente un insieme di norme chiare e razionali, che possono essere spiegate  e apprese, mentre il parlato è indocile di regole, è soggetto a profonde differenze, diatoniche e diastratiche e insegnarlo imporrebbe scelte a conti fatti immotivate. Perché imparare l’inglese di Edimburgo invece di quello di Londra, o l’italiano di Roma al posto di quello di Milano, o il tedesco di Monaco a scapito di quello di Amburgo? Ecco qui alcuni motivi che chiariscono almeno in parte perché la norma che nessuno segue nella madrepatria diventa l’unico punto di riferimento possibile (e in generale asintotico) all’estero[viii].

L’italiano parlato

Dopo questa fugace panoramica, risulterà più facile seguire il discorso che propriamente dovrebbe costituire il tema dell’intervento, e cioè l’italiano parlato nell’insegnamento all’estero. Ricordiamo rapidamente a questo proposito alcuni fatti universalmente noti.

L’italiano standard è stato per secoli solo lingua scritta e rigorosamente letteraria, ed è per questo che è cambiato pochissimo; l’unica lingua parlata erano infatti i dialetti locali. Ancora nel 1873 il grande linguista polacco Jan Niecisław Baudouin de Courtenay, allora professore all’università di Kazan, giunge a Milano per poi proseguire in territorio sloveno, dove intende studiare i dialetti locali. A Milano segue le lezioni di grammatica comparata e di dialettologia italiana del grande Graziadio Isaia Ascoli e studia il dialetto milanese «na kotorym govorit ne tol´ko mestnoe prostonarodie, no daže samye vysšye klassy milanskago obštestva»[ix], come egli ritiene opportuno spiegare nella sua relazione all’università di appartenenza.

La questione della lingua nel corso del Risorgimento è oggetto di lunghi e accaniti dibattiti, e ha rilevante valenza politica[x], esattamente come accade nei Balcani e particolarmente in Grecia, a un di presso nello stesso periodo; la diffusione dell’italiano standard come lingua della comunicazione quotidiana è tuttavia fenomeno tardo, del ‘900. Il prezzo pagato per questa recente espansione è la fortissima connotazione regionale di questo parlato, appunto le c.d. varianti regionali. Ciò vale in modo assoluto per l’ortoepia, che nessuno apprende come pronuncia materna; chi vuole o deve se la studia come disciplina a sé nelle apposite scuole di dizione annesse alle accademie teatrali o cinematografiche; in pratica si sente, anche con un certo piacere, se vogliamo essere sinceri,  solo in alcuni grandi teatri di tradizione (anche in Italia dunque, non solo in Germania o in Polonia!) e talvolta, ma sempre più raramente, alla RAI. Da una parte dunque abbiamo la norma, la regola Le strutture, dall’altra invece la pratica reale, La variante e gli usi, come suonano i sottotitoli dei due volumi costituenti la pregevole Introduzione all’italiano contemporaneo[xi].

La situazione, ma già si è detto, è generalizzata e diffusa anche in altri Paesi: il tedesco di Vienna non è quello di Zurigo o di Amburgo; noti e studiati sono i vari accent di tutta l’area anglosassone; quanto a Skopje, ma qui mi informate voi, non so se tutti dicono zboruva come vuole la norma o se c’è ancora qualcuno che dice zborue, come si diceva in un passato ancora prossimo.

Quanto invece distingue l’Italia dagli altri Paesi è la vasta fioritura e l’alta qualità artistica della letteratura dialettale. Il già citato  Baudouin de Courtenay, linguista di razza, precisa a proposito del milanese «ja bral  častnye uroki i čital sočinenija znamenatago milanskago poeta Karla Porty (Carlo Porta)». Le poesie del milanese Porta e del romano Belli, le commedie del veneziano Goldoni, la canzone napoletana e il teatro di Eduardo De Filippo, per citare solo alcune vette emergenti, sono elementi costitutivi della nostra cultura e non possono essere cancellate senza grave perdita dalla storia della letteratura ‘italiana’, aggettivo qui per forza di cose inserito tra virgolette, solo perché sono opere scritte in un dialetto. E accanto alle opere scritte in dialetto ‘puro’ abbiamo quelle caratterizzate da una sapiente mescolanza dei vari sistemi linguistici: i dialoghi del cinema neorealista, certi romanzi classici del ‘900, scritti da autori quali Moravia, Gadda, Pasolini, per giungere fino all’ultimo autore di successo, Camilleri, ne sono un esempio quanto mai eloquente e autorevole. Mutatis mutandis,  i dialetti e le varianti dell’italiano regionale assumono a un di presso il ruolo svolto dal turco, rispetto al bulgaro, nel classico Baj Ganju di Aleko Konstantinov, con la differenza che in Italia non si tratta di una sola lingua straniera, ma di varianti assolutamente ‘italiane’, per di più particolarmente numerose.

Siamo dunque di fronte a un dilemma di non facile soluzione, meno che mai per i docenti e gli studenti stranieri: l’italiano parlato e i suoi dialetti dovrebbero essere in qualche modo conosciuti, ma si tratta di sistemi linguistici profondamente diversi, spesso incomprensibili per gli stessi italiani di diversa provenienza regionale[xii].  Che cosa si può fare o, tanto per rimanere nel parlato, che pesci pigliare?

La situazione attuale, così come si presenta ora, non può e non deve essere cambiata, almeno nella sua struttura fondamentale. E’ in ogni caso indispensabile conoscere la lingua standard, saper leggere e scrivere, ed avere una buona padronanza del lessico, non solo di quello usato dal parlato quotidiano, ma anche di quello ‘tecnico’. Sull’altro versante, non è ‘scientifico’, tanto per ricorrere a un termine che nelle università è proprio di casa, ignorare nelle facoltà di filologia una realtà tanto massiccia e invadente quale è il parlato italiano di oggi. La soluzione potrebbe essere l’introduzione nel curriculum studiorum di due insegnamenti che forniscano alle giovani generazioni almeno alcune nozioni basilari sull’italiano parlato da una parte, e sulla dialettologia italiana dall’altra. Nel primo caso l’argomento principale dovrebbero essere le c.d. ‘varianti regionali’, cioè quelle forme linguistiche che dominano nella comunicazione quotidiana e sono ben definibili sul piano sia diatonico, sia diastratico e diafasico. Per i dialetti italiani, a una presentazione generale introduttiva dovrebbe seguire una trattazione più articolata di quelli che maggiormente hanno contribuito, con opere di alto livello, alla formazione della letteratura ‘italiana’. E’ anche opportuno aggiungere qui che entrambi gli argomenti sono ora di notevole interesse scientifico per il considerevole numero di studi, non solo italiani, in generale di ottimo livello, che vengono dedicati ai vari e complessi aspetti della lingua parlata; tra l’altro, anche il vasto pubblico sembra attratto da queste tematiche, come dimostra l’insperato successo di un recente manuale dedicato alla dialettologia italiana, giunto in breve tempo alla sua seconda edizione[xiii].

Il presente intervento del Dott. Umberto Rinaldi, ex Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Praga, è pubblicato negli Atti del Convegno: “STUDI ITALIANI E SISTEMA UNIVERSITARIO EUROPEO” che si è tenuto presso l’ Università Ss. Cirillo e Metodio di Skopje. Facoltà di Filologia, nel mese di febbraio 2007



[i] Zenon Klemensiewicz, Historia języka polskiego, WNP, Warszawa 1999, p. 661.

[ii] Michael Metzeltin, Nationalstaatlichkeit und Identität. Ein Essay über die Erfindung von Nationalstaaten, mit einem Epilog von Benita Ferraro-Waldner, Bundesministerin für Auswärtige Angelegenheiten,  3 Eidechsen Verlag, Wien 2000, è un saggio brillante e intelligentemente provocatorio sulla Erfindung, dunque ‘invenzione’ di lingue e nazionalità.

[iii] Una buona sintesi sull’inglese parlato è Tom McArthur, Oxford Guide to World English, OUP, Oxford 2003.

[iv] Prendo la notizia da Manfred Renn/Werner König, Kleiner Bayerischer Sprachatlas, dtv, München 2006, p.17.

[v] Non è male ricordare che il classico dizionario di riferimento, il c.d. EPD, English Pronouncing Dictionary del Jones, viene pubblicato da Dent solo nel 1917, dunque meno di un secolo fa.

[vi] L’ortografia tedesca usa da sempre grafemi per le occlusive sorde (<k,p,t>) e sonore (<g, b, d>), che tuttavia solo la pronuncia del nord tiene distinte, mentre i dialetti meridionali, essenzialmente alemanno e bavarese, conoscono solo occlusive sorde, forti e leni, e aspirazione piú o meno marcata.

[vii] I dialetti toscani sono tutti caratterizzati dall’aspirazione o ‘gorgia’, non ammessa dallo standard.

[viii] V. A. Vassillev, English Phonetics. A theoretical course, Vysšaja škola, Moskva 1970, pp. 57 sgg. Presenta un’interessante discussione sul perché nel sistema scolastico dell’URSS, paese progressista per antonomasia, si studi l’inglese secondo la RP, pronuncia sicuramente classista.

[ix] Vedi Jan Niecisław Baudouin de Courtenay, Dzieła wybrane, t.III, PWN, Warszawa 1989, p. 42; il volume è preceduto da un’introduzione di Zuzanna Topolińska.

[x] Brillante e un po’ eterodosso come sempre è l’intervento Identità nazionale e testualità di Michael Metzeltin, che riguarda essenzialmente il Carducci e le sue Odi barbare, pubblicato in Michael Metzeltin/ Margit Thir/Donata Giovanella, Testualità. Teoria e pratica, 3 Eidechsen Verlag, Wien 2005, pp. 175-195.

[xi] Si tratta di Alberto A. Sobrero (ed.), Introduzione all’italiano contemporaneo, I, Le strutture; II, La variazione e gli usi, Laterza, Roma-Bari 1993.

[xii] Paradossalmente, due lingue nazionali standard, autonome e di gloriosa tradizione come l’italiano e lo spagnolo sono molto più simili tra di loro di quanto non lo siano i dialetti italiani del nord e del sud; lo stesso discorso, a ben vedere, vale anche per il serbo e il croato standard, ben distinto dai suoi dialetti čakavi e kajkavi, anch’essi con significativa tradizione letteraria.

[xiii] Corrado Grassi/ Alberto A. Sobrero/ Tullio Telmon, Fondamenti di dialettologia italiana, Laterza, Roma-Bari 1997.

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