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“Legal-mente”. La parola all’avvocato. (n.3). Diffamazione e calunnia nel diritto ceco.

Diffamazione e calunnia

Il reato di diffamazione è previsto dall’art. 184 del codice penale della Repubblica Ceca, il quale stabilisce che “Chiunque comunica circa altrui persona dati falsi e idonei a comprometterne in modo notevole la buona reputazione presso i concittadini, in particolare danneggiandolo a lavoro, turbando i rapporti familiari, o causando a costui un grave danno, è punito con la reclusione fino ad un anno.”  Se il fatto è compiuto a mezzo stampa, film, radio, televisione, internet, o altro mezzo analogo, la pena è aumentata a due anni, oppure consiste dell’interdizione.

Come in molti altri Paesi, la vittima della diffamazione può essere solo un cittadino, non un ente, società o persona giuridica. Inoltre, non diffama chi riferisce un fatto realmente accaduto, per quanto possa comportare una grave offesa alla reputazione della persona.

Nemmeno diffama chi esprime un’opinione basata su fatti veritieri, come stabilito da un’importante decisione della Corte Suprema della Repubblica Ceca riguardante un candidato politico che aveva insegnato alla Scuola Superiore di Economia (VŠE) durante il periodo socialista. In campagna elettorale 2004 fu accusato di aver insegnato “marxismo-leninismo”, mentre in realtà fu docente di economia politica.  Avviò causa contro l’autore dell’affermazione, esigendo che pubblicasse una lettera di scusa a mezzo web.  Ritenuto che la disciplina in questione fosse in sé parte dell’ideologia marxista, la corte d’appello stabilì che l’affermazione era “sostanzialmente veritiera”, confermando la sconfitta giudiziale del candidato in secondo grado.

(Il caso riguardava la responsabilità civile, non penale, del diffamante.)

Giudici e avvocati definiscono la diffamazione ‘reato di pericolo’. In altre parole, non è necessario, ai fini della responsabilità, che la reputazione della vittima sia stata effettivamente compromessa; basta che ve ne sia il pericolo. Perciò se Tizio dice ai suoi amici che Caio fa l’avvocato senza averne il titolo, Tizio commette diffamazione anche se nessuno gli crede e la clientela di Caio, anziché diminuire, aumenta. Peraltro, Tizio è colpevole anche se dimostra di non aver voluto causare danno a Caio; ai fini della responsabilità penale è sufficiente che Tizio sia solo consapevole che quanto detto sia idoneo a nuocere alla reputazione di quest’ultimo.

D’altra parte, a dire della Corte Suprema, se Tizio non sa, o non ha ragione di credere, che Caio ha davvero il titolo di avvocato, non c’è diffamazione. In altre parole, il diffamante deve essere consapevole di aver comunicato un falso. Se non lo è, non commette reato. Ne è esempio una decisione della Corte Suprema nel 2003, riguardante il caso di J.V., accusato di aver scritto su un settimanale di Přibram che un tale A.P. era “probabilmente” un agente della polizia segreta StB. Fra i motivi dell’assoluzione, l’accusa non riuscì a dimostrare che J.V. fosse effettivamente consapevole di aver riportato un falso (NS 5 Tdo 83/2003).

Sottospecie della diffamazione è la calunnia, disciplinata dall’art. 354 del codice penale. Se Tizio anziché dire che Caio è un ex agente StB, dice che è un assassino, sapendo che non lo è, Tizio commette calunnia e non diffamazione. Se lo fa allo scopo di far partire un’azione penale contro Caio, la pena è leggermente più alta, e lo è ancora di più (fino a 8 anni) in altre ipotesi, ad esempio se la diffamazione avviene a mezzo radio, stampa, televisione, internet e analoghi. Non si richiede che si faccia nome e cognome del diffamato, basta che sia possibile dedurne, in modo “affidabile”, l’identità. D’altra parte, però, se Tizio esprime il mero sospetto che Caio sia un assassino, non c’è calunnia.

Massimiliano Pastore
https://massimilianopastore.wordpress.com/

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