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La poesia non ha mai contemplato una prigione

Le prove di esilio“ di Michele Caccamo e Franz Krauspenhaar è una raccolta letteraria a quattro mani. Michele Caccamo vive per molti mesi la temporanea privazione della libertà personale, in custodia cautelare in carcere; Franz Krauspenhaar è rinchiuso nella stallo temporaneo di un momentaneo avvilimento. Quattro mani che si impastano, coeve, in una lirica, in prosa e poesia; un sordo e straziante urlo incapsulato in una dimensione asfittica, surreale e tragicamente vera: la prigionia, diversamente penetrata sotto pelle. Gli autori riescono, grazie ad un isolamento purificatorio nella Poesia, a delineare un quadro preciso, perfettamente nitido e lucido della loro consimile condizione di emarginati, esiliati dalla società, e ci aiutano nell’elevazione con questa opera letteraria. Quasi fosse un trattato di sopravvivenza o un esperimento umano di kafkiana memoria in cui calarci, veniamo catapultati in segmenti di un tempo, dove c’è un distacco fisico dalla vita, dove sono immobilizzate due preziose menti della nostra letteratura contemporanea, fissate nel blocco dell’impossibile reazione.

Entrambi esercitano senza difesa, nei confronti del lettore, la loro momentanea sorte. E ce la offrono con una straziante autentica umanità. I fiotti di inchiostro dei manoscritti di Michele Caccamo e la polvere del toner di Franz Krauspenhaar si mescolano in un denso medicamento, il cui principio attivo è la dignità.Entrambi sanno che per uscire dalla condizione, in cui sono trattenuti, non devono avere commiserazione di sé come non consentono a nessuno di averne. La verità è cruda e contestualmente prepotente. Un recalcitrante lavoro, un paradigma di stile, non solo letterario, che induce a profonde e spirituali riflessioni. Chi vive in una condizione claustrofobica e coercitiva involontaria non è necessariamente un afflitto, che debba essere consolato e compatito o, nel peggio, aprioristicamente giudicato, ma non deve essere lasciato solo, nell’indifferenza della società, semplicemente.

E’ un poeta, Michele. Per definizione, dato che scrive e pubblica poesie da molto tempo, ma soprattutto perché le sue cronache dal carcere, le sue confessioni, sono di un impatto quasi insopportabile, e insieme risanatore. Sa costeggiare la mortificazione, inabissarcisi dentro, insozzarsi, ma riemergere e anelare ancora alla purezza.

Franz, che è in carcere anche se non c’è, che vive in un mondo a parte e non crede di parlare per altri che per se stesso, è crudelmente e splendidamente “noi”, invece. Non lo sa, ma la chiave nella serratura di quel cosmo che lo angoscia, ha saputo girarla dalla parte giusta. Forse è lui a non comunicare con noi, ma noi troviamo in tutte le sue parole quello che non abbiamo mai avuto il coraggio di essere, provare, domandarci.

dalla prefazione di  Susanna Schimperna.

Di seguito un estratto dal libro “Le prove di esilio”.

Indistinguibili.
Appunti slegati, dal carcere (Michele Caccamo)

foglio uno

  

«Si tolga gli slip e si giri di spalle».

 L’addetto alla mia conservazione aveva appena indossato un paio di guanti di lattice. I movimenti delle sue braccia sembravano agire su di una frequenza diversa, come volessero offrire una liturgia religiosa a quel momento: in forte contrasto con la frenesia che aveva accompagnato il mio trasferimento. Da come lo sentivo sembrava stesse preparando le sue dita per un intervento solenne, musicale. Ma non credo che quell’uomo ne sapesse nulla di delicate partiture; piuttosto, e più probabile, era il testimonio dell’ordine e della durezza.

Non capivo cosa intendesse farmi: penserà io abbia infilata una lima nel culo, pensai.

«Adesso faccia tre piegamenti sulle ginocchia».

Giusto tre. Vuoi anche che dica “Nel nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo, mentre svolgo le operazioni?” mi sarebbe venuto da chiedergli. E poi non è neanche facile, per un Uomo come me abituato a stare seduto per delle ore davanti a un pc, improvvisare, pur volendo- la, un’agilità.

Ma mi domando: anche a quelli più anziani di me richiedono questa penosa e umiliante esibizione? Come cazzo potrebbe un Uomo, che ha superato i sessant’anni piegarsi come fosse una ballerina alla sbarra?

«Bene, adesso si rivesta».

Da come lo dice sembra io abbia superato la prova: sono stato dichiarato abile alla detenzione.

«Svuoti la sua borsa su quel tavolino, adesso».

Avevo portato con me la solita borsa; la stessa che da anni mi accompagna, in giro per l’Italia, per le mie letture poetiche. Una compagna fedele. Io lì dentro ci nascondevo le confidenze, le premure, le speranze, i fogli della mia intera vita. Svuotarla, per me, significava violarla. Non l’ho mai svuotata, per evitare sentisse l’abbandono: cambiavo solo il contenuto; toglievo dei libri per sistemarne degli altri; cambiavo il blocco degli appunti; controllavo funzionassero le penne.

Mai io l’ho lasciata vuota: neanche fosse vedova. «E questi a cosa le servono?»

Oddio non li avevo considerati: i libri. Giusta osservazione. A cosa mai potrebbero servire dei libri qui dentro? “Per farci un aero- plano” mi sarebbe piaciuto rispondergli “li ho comprati apposta. Più tardi strapperò le pagine: con le prime dieci, le più leggere, ci farò le ali; con le altre la carlinga e la coda. Non servirà il motore, la carta volteggia di solo vento. Poi ci monterò sopra e volerò, via da qui, Appuntato. Farebbe bene anche a lei vedere quanto sono bello riempito di vocaboli. Le parole di un libro sì che sanno come trattare la mia vita. Non hanno bisogno di vedermi a culo nudo per sapere chi sono”.

«Questo no, non può portarlo dentro».

L’evidenziatore. A ben ragionarci ecco a cosa serve questo aggeggio: a tracciare le vie di fuga; a ricordare i percorsi fondamentali, i ragionamenti utili per il futuro; a collegare e creare una cosca del pensiero. Credo sarà molto presto: io scriverò un trattato sulla pericolosità dell’evidenziatore.

«Le penne sono trasparenti e vanno bene».

Già, questo lo sanno tutti: la trasparenza è rivelatrice di ogni cosa, non nasconde nulla. E l’inchiostro è inchiostro, non tritolo diluito.

Ma anche in questo ci sarà una logica, ne sono certo, altrimenti riterrei ancora più insignificanti questi controlli di accesso.

«Metta tutto in quel sacco nero. Lasci sul tavolo la sua borsa. Le verrà restituita quando andrà via da qui».

Immondizia. I miei libri le mie penne le mie mutande, calati in un sacco nero dell’immondizia.

«Cos’altro ha addosso?» «La carta di identità, un ricordino dei miei genitori».

«Li consegni, anche questi le verranno restituiti quando andrà via da qui».

I miei genitori sono morti. E stupidamente vorrei dirgli “stia tranquillo, Appuntato, che loro, da lassù, non potranno organizzarmi alcuna evasione, se non nella Preghiera”. Me li ha considerati pericolosi: morti, stampati, ma pericolosi. Se li è presi.

«Mi segua, le è stato assegnato il cubicolo numero quattro».

Da come lo pronuncia sembra quasi una concessione d’onore. Mi viene adesso in mente l’accoglienza che ricevevo negli alberghi: “Benvenuto Signore, le abbiamo riservato una delle nostre stanze migliori”. Oggi un cubicolo. Le celle hanno anche questo nome. Ancora più lugubre. Un cubicolo ti dà già il senso di cosa ti tocchi: un confezionamento sigillato, un’aria a pacchetti. A vederlo è molto peggio. Un cubicolo è una cappella mortuaria con tre cripte dentro; si misura in centimetri. Tre persone insieme, qui dentro, si ostacolano anche solo a stare in piedi, senza muoversi. Abbiamo neanche due metri cubi d’aria a testa.

Mi dicono che sono fortunato, in altre celle le cripte sono nove. Li chiamano camerotti; lì dentro la convivenza è molto più complessa e spesso precaria. Guardo il bagno: una tazza, quasi attaccata al muro di fronte. A stento riuscirò a stare seduto senza che le ginocchia tocchino la parete.

C’è un buco, di osservazione dall’esterno, chiuso con un piatto di plastica. Non c’è una doccia né un bidet. Sarà un problema per me, soffro di emorroidi: saltano fuori come rametti di ribes spruzzando sangue. Ed è da un paio di giorni che sono asservito alla loro esplosione dolorosa. Ho l’impressione di averle nelle viscere, rintanate nel mio patrimonio intestinale. Dovrei andare in bagno.

Sono sveglio dalle cinque, da quando mi hanno sequestrato. Devo an- dare in bagno. Ed ecco che le sento, mentre rovesciano il mio bisogno fisiologico; sono già tutte in assetto demoniaco. È una guerra: stringo i pugni, come ogni vittima, per cercare di contenere il dolore.

Se Dio la smettesse di contare le sue Anime; se riavesse la parola io credo mi raggiungerebbe con un urlo di pietà. Non è un momento estatico, e nemmeno ho le stimmate. Solo sangue sparso, sporco. Sembro arrivato a una conclusione vittimaria. È un’emorragia implacabile; una rappresentazione della vampa che non mi dà pace. Ho il culo impiantato nelle fiamme; non mi stupirei mi finisse in cenere dentro alla tazza del cesso. Il sangue, sputato dappertutto, definisce la capacità spettacolare delle emorroidi. Non riesco a dominarne una sola: è un’aggressione collettiva; credo di avere sintomi di offuscamento. Ho un bacile infilato sotto il culo. Sono creature vive e, come in ogni impero totalizzante, mi stanno terrorizzando. Avrei bisogno di acqua corrente, di una fiumara, di una cazzo di crema lenitiva, di un antidoto. Il palmo della mano e le dita sono però l’unico intervento farmaceutico a mia disposizione. Li farò rientrare uno a uno, questi prolungamenti di carne: chiudo gli occhi e spingo, verso dentro, sofferente.

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Le prove di esilio di Franz Krauspenhaar

“Agli uomini liberi”

LE GIORNATE ESTIVE

Esagerato, esasperato, come la gelosia,

come il vento storto, tramontato,

e l’efferato luglio, in bilico sul nulla di agosto,

la calura insensata, e ogni freddo ha un perché,

il caldo no, è l’assassino, o la galera della casa

che brilla, al sole della cera tirata a specchio.

Sei un morto nel sole, e l’ora è d’aria, pieghi,

e laggiù il cimitero, lì troverai le anime svuotate

da un clistere assoluto. Un Martini Dry, e un

Americano, e poi, leggermente spumosi e brilli,

ci dirigeremo verso l’orto e i fiori, mentre l’alba

scenderà, come un tramonto. Saremo morti

d’occasione, prima d’inventare nuove maniere

di tirare giù le giornate, lunghe, interminabili.

Come saracinesche su tutta una vita.

 

LA CITTA’ DEI POVERI

Mi oppongo vostro onore a questo muro di mattoni,

e di calce. Vivo qui dentro con un senso di pace

agguerrita, come un liscio guanto di ferro

nero, come preso nei bastioni dei popoli, dei ministri

della guerra. Non ho chiesto l’esilio, signore, è stato

l’esilio a entrare in me, un budello di carne,

un nuovo organo digestivo, l’imbuto che s’usa per l’oca,

a farle immenso il fegato. E’ venuto il nostro male

a trovarmi, con un colpo di scure, come il condannato

si piega alle ginocchia sul palco della vittima.

M’è venuta la prigione dell’anima a prendere, insolita,

senza legami con la mia vita; è stata una saetta

senza richiesta, e dentro il mio corpo è cresciuta una città

intera, una periferia del mondo, con poca acqua, servizi,

tetti sopra le teste. Una favela ho dentro il mio corpo,

e l’anima s’attacca a quella sfatta mammella, e così sugge

ogni latte scaduto. Io sono la città dei poveri, e ancora vivo

come posso, ogni giorno, dentro di me soltanto,

come posso, nel mondo che m’è dato guardare, una striscia,

nel limite estremo e spoglio, nell’addio, nel cunicolo

 

NELL’ORGASMO

Pensavo di guardare la stella più alta che trovo nelle orecchie

di te, donna, che ti abbassi sul sedile di dietro per farmi passare

sulle tue natiche serie. Io pensavo di essere astronomico con te,

ma la delusione di mille tramonti inutili e di notte sconce,

mi guardano dal tempo. E’ passato, triturato, sgommato, senza cerchi per giocarci.

Amore mio, tienimi questo appellativo sgradevole per oggi e per ieri,

soprattutto; come una fionda lanciavi la rupe dentro il castello delle

mie gole arse, per il troppo urlare. Mi sfamavi con i capezzoli, la schiena,

ogni porto franco della tua femminilità all’esplodere.

Sei stata lanciata da paracaduti sopraffini, alleati, NATO, mediterranei;

sei bruna, la tua pelle brucia; mi scanso al forno a legna della tua torta di donna

che mi concuoce come verdura e carne, l’uomo del nord si fonde.

Sarei volentieri un piatto unico con te. Mangiato da altri e da noi,

insieme, alla ricerca del piacere alto, che fa impazzire te, donna,

più di me, uomo. Saresti a me come una fionda, lanciando quell’acqua

ferrosa e calda a ogni orgasmo, mi faresti il bagno nel tuo piacere e io, certo,

non ti potrei mai più lasciare, né potrei più, da allora, respirare da solo.

 

VOGLIE

Ho voglia di abbracciarti,

di perderti e ritrovarti,

di non darti nulla, poi

nessuno merita niente

e nemmeno le ore e i minuti

di una resa. Dunque ho voglia

di abbracciarti, di ritrovarti,

di perderti, come uno scontrino,

un lusso regalato, un buco nero

nel taschino della giacca.

Dove contare, forse nel nulla

obliquo del filo di una riparazione,

o nel tutto di un motore potenziato.

Non sappiamo se perderci o trovarci,

non sappiamo se abbracciare cosa,

se essere, se sparire, se fingere.

 

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