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La dignità del dolore ne l’Albero degli zoccoli di Ermanno Olmi. Un capolavoro senza tempo dal messaggio oggi più attuale che mai.

Tra le brume vaporose della pianura una distesa di granoturco, i salici lungo un canale gorgogliante, i campi coltivati e, in sottofondo, i canti dei contadini. Si apre con queste semplici immagini suggestive “L’albero degli zoccoli”, il capolavoro di Ermanno Olmi che gli valse nel 1978 la Palma d’oro al festival di Cannes e, l’anno successivo, il David di Donatello e 5 Nastri d’Argento. La pellicola è ambientata a Palosco, nella campagna bergamasca, ed è interpretata da contadini e gente del luogo che non avevano mai visto una camera da presa e che si esprimevano solo nel proprio dialetto locale (il film è sottotitolato in italiano). Di fronte alle innumerevoli comodità offerteci dalle tecnologie moderne a volte capita di chiedersi come doveva essere la vita dei nostri avi quando non c’erano il telefono, la televisione, l’elettricità e l’acqua corrente. Ebbene, nel film di Olmi troviamo una descrizione fedele e precisa di una vita che oggi pare lontana anni luce. Eppure, parliamo di poco più di cent’anni fa. Ambientato negli ultimi anni del XIX secolo, il film narra un mondo che si è tramandato immutato di generazione in generazione e che, con qualche minima variazione, potrebbe benissimo descrivere la vita nell’alto medioevo o nell’antica Roma. Il ritmo degli eventi scorre lentamente come le acque del fiume che portano la giovane coppia a Milano dove, nella grande città sconosciuta, rimarranno stupiti di fronte agli scontri e alle proteste popolari scatenati da ragioni che non capiscono. Un mondo fatto di silenzi scanditi dai ritmi naturali del sole e delle stagioni, dove gli unici suoni sono quelli della natura, sono le voci delle persone, degli animali e del duro lavoro quotidiano. Sì, perché la vita descritta da Olmi è una vita di fatiche, di dolori e di incertezza sul futuro. Una vita che da un giorno all’altro può essere sconvolta dalla malattia di una bestia da soma o dal maltempo.

Una vita forse grama ai nostri occhi, abituati come siamo a desiderare sempre più di ciò che abbiamo. Eppure, la vita ritratta da Olmi è piena di una dignità temprata proprio dalle difficoltà, una vita figlia della consapevolezza e dell’accettazione del dolore e dell’insicurezza. La fame, la morte e la mancanza erano perennemente dietro l’angolo, quasi come inevitabili e spiacevoli parenti con cui si è costretti, piacenti o nolenti, a convivere. Da qui possiamo anche percepire l’importanza che allora aveva per le persone il sentimento religioso: la preghiera era vissuta pubblicamente come rito collettivo di socialità e di coesione della famiglia e, privatamente, come ultima istanza di salvezza. L’uomo moderno ripudia Dio, sicuro di poter domare il mondo con la scienza e la tecnologia, ma Olmi ci restituisce, invece, un uomo fragile, la cui esistenza è sempre in bilico tra eventi che non può controllare e dove il sentimento religioso appare come un logico e comprensibile anelito di serenità e di pace. Commovente, in questo senso, la scena della donna che, disperata dalla prospettiva di perdere la sua mucca malata, per salvarla le dà da bere dell’acqua di fiume che ha benedetto in una chiesetta con un rito tra il sacro e il pagano. La mucca guarisce. Non ci è dato di sapere se ciò sia avvenuto per caso o per intercessione divina, ma quel che sappiamo è che per quella donna il sentimento religioso è certamente qualcosa di concreto e tangibile: ella ringrazierà a lungo la Madonna cui si era votata.

È un mondo dove la perenne indigenza ricordava ai contadini che c’era sempre qualcuno che stava peggio di loro e che era cosa buona e giusta condividere qualcosa, anche poco, con gli ultimi degli ultimi, come fanno i protagonisti con il mendicante Giopa. Offrirgli una ciotola con un po’ di polenta è un gesto di vera religiosità, semplice, genuina, sentita come un dovere di umanità, prima ancora che come un obbligo dettato dalla religione.

Toccante anche la scena dell’innamoramento tra Stefano e Maddalena. Tanto è il rispetto per la giovane ragazza che Stefano, la prima volta che si avvicina a lei, le chiederà addirittura il permesso di salutarla. Dopo un lungo e silenzioso corteggiamento fatto di sguardi e di desideri non detti, i due giovani contadini si sposeranno e, altro atto di carità, adotteranno, su richiesta di una parente suora, il piccolo Giovanni Battista. E così, nonostante la povertà e le difficoltà, la vita andrà avanti.

Dall’altra parte del ciclo vitale, il nonno Anselmo, che non può più lavorare nei campi, si rende comunque ancora utile ad una comunità povera che non si può permettere sprechi: aiuta la famiglia tenendo i bambini, che lo amano tantissimo, cui tramanda con filastrocche e proverbi la tradizione e la cultura popolari.

Sentiamo spesso parlare di ritorno alla frugalità e ai valori di un tempo, di vita più semplice e più lenta. Internet e le librerie sono piene di manuali che, più o meno consapevolmente essi stessi complici del medesimo perverso meccanismo consumistico, vorrebbero insegnarci come vivere più felici con meno. Ma sarebbe sin troppo facile e scontato rimpiangere questo mondo antico. Ben pochi di noi, in realtà, avrebbero davvero la forza di tornare, se non vi fossero costretti, a quella vita di fatiche e, d’altra parte, sarebbe da sciocchi e da ingrati non apprezzare tutte le comodità grazie alle quali possiamo vivere una vita più lunga, più sana e intellettualmente più stimolante e appagante.

Questo film, trentacinque anni dopo, sembra, allora, particolarmente appropriato per questi tempi dove l’etica e la moralità dei comportamenti sembrano essersi ridotti a una mera questione di legalità, dove l’enorme arricchimento di pochi, conseguito a scapito di tanti, ci inculca un modello di vita abbagliato dal sogno di una facile ricchezza, dove il lavoro, onesto e faticoso, viene disprezzato e soccombe al gioco d’azzardo elettronico dove si guidano spericolatamente capitali finanziari spietati assunti al ruolo di meta e fine ultime, di successo da lodare e da imitare. In questo mondo, dove giovani ragazze senza speranze vengono trovate con banconote troppo grosse per le loro piccole vite, un film come quello di Olmi pone un freno a questa folle corsa e ci riporta con i piedi per terra. In maniera semplice, umile e con una commovente profondità fatta di emozioni e di speranze silenziose Olmi tocca nel profondo i nostri cuori con la rappresentazione di vite povere ma felici di uomini e donne affaticati da un’esistenza difficile, eppure orgogliosi della propria dignità e delle proprie tradizioni.

Insomma, “L’albero degli zoccoli” è un film di rara bellezza che ho scoperto solo adesso e che ha provocato in me una profonda impressione. Un film importante il cui messaggio senza tempo oggi, quando è grande lo smarrimento della società, andrebbe sicuramente riproposto al grande pubblico nella speranza che induca nelle persone qualche seria riflessione. In fondo, l’Arte, quella che provoca in noi delle emozioni vere, dovrebbe servire anche a questo.

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