Site icon Café Boheme

Kafka di Steven Soderbergh

Kafka (1991) di Steven Soderbergh (1963) non è un film su Kafka. Kafka di Steven Soderbergh non è un film tratto, basato o ispirato da un romanzo/racconto/qualsiasi scritto di Kafka. Cos’è Kafka? Kafka è il film di un cinefilo che raccoglie anni di visioni di vecchi film europei e li concentra in un’opera strana, difficilmente definibile, non completamente riuscita, comunque generosa, affascinante, impietosamente maltrattata da (quasi) tutta la critica.

Il titolo italiano del film è Delitti e Segreti: ok, i delitti ci sono, e pure i segreti. Poteva intitolarsi chessò Un’indagine pericolosa o Mistero a Praga. Ancor più efficacemente avrebbe potuto chiamarsi Ombre e nebbia, ma quel titolo lo avrebbe usato Woody Allen, nello stesso anno (!!!), con un altro film in bianco e nero di ambientazione mitteleuropea e concepito, esattamente come quello di Soderbergh, come un omaggio al cinema espressionista (aggiungiamo che a Woody invece è andata bene, le accuse piovute su Soderbergh gli sono state risparmiate e il suo film è stato osannato…mah…)

La Rivoluzione di Velluto era passata da pochi anni. Praga città che da sempre abita nell’immaginazione di artisti e viaggiatori, era tornata ad essere un luogo possibile, e non più una città invisibile, lontana. Si poteva dunque finalmente girare in una città che si presenta come un set naturale, una specie di paese dei balocchi per ogni regista.

Soderbergh dopo il successo di Sex, lies and videotapes (film invecchiato malissimo, ma comunque profetico e anticipatore di tante cose che stiamo vivendo) cerca di non sbattere la testa contro la maledizione dell’opera seconda e s’inventa Kafka.

Dunque, benvenuti a Praga. Anzi, bentornati a Praga. Guida in questo viaggio allucinante per la città boema sarà il suo scrittore simbolo, uno dei suoi tanti scrittori simbolo. Franz Kafka. Soderbergh decide che Kafka deve avere il volto e l’aplomb britannico di uno degli attori più britannici di sempre, in quegli anni peraltro divo amatissimo in tutto il mondo, Jeremy Irons.

La trama è un Frankenstein creato incollando insieme Lang, Murnau, May, i noir inglesi di Carol Reed, quelli della Archer, insomma c’è davvero un po’ di tutto. Direi che alla quindicesima citazione, possiamo smettere di contarle.

Kafka è un impiegato, timido e vessato da colleghi psicotici, che decide di mettersi alla ricerca di un collega scomparso. Finirà per scoprire un orrendo complotto gestito da un infame scienziato pazzo che fa perfino esperimenti su cavie umane. La Cultura e la Sensibilità avranno la meglio sul Male. Evviva.

La trama è un pretesto per una riflessione onesta e partecipe su quel cinema e su come è arrivato alla nostra sensibilità, sulla percezione che noi oggi abbiamo di quei film meravigliosi che Lotte Eisner ha descritto (per le anime curiose che vorrebbero saperne di più) nel bellissimo saggio Lo Schermo Demoniaco. Ma è anche un film di atmosfere, di…sì, appunto, di ombre, di nebbia, di passeggiate notturne nei vicoli di Mala Strana senza sapere se siamo inseguitori o inseguiti, di improvvise visioni demoniache, un compendio di luoghi e prospettive che ci ricordano quanto sia difficile, se non impossibile, sfuggire all’eredità dei grandi (e quanto bella sia Praga, ma questa è un’altra storia). Dopo un film che fu salutato, con forse troppa velocità, come l’inizio di una nuova era, Soderbergh fa un passo indietro e si ricollega alla lezione dei maestri (e anche oggi, ormai regista mainstream, Soderbergh crea ogni tanto questi film-omaggio). Come per dire: io non sono il futuro. Questo, amici cari, è il futuro.  E di questi film non potremo mai liberarcene.

Senza avere la maturità e la consapevolezza di Traffic o del recentissimo, straordinario Che, senza avere la leggerezza dell’allegra zingarata di Ocean’s 11,12 e 13, Soderbergh fa un film costruito quasi esclusivamente su volti e atmosfere, meravigliosamente fotografato da Walt Lloyd, altrettanto splendidamente interpretato, ingiustamente vilipeso e sbertucciato e che invece va visto quantomeno con affetto. Per chi scrive, uno dei suoi film migliori. È inoltre il penultimo film interpretato da un uomo il cui nome va pronunciato sempre con rispetto: Sir Alec Guinness.

Sono già passati vent’anni da quando è uscito. I film ci aiutano a misurare il tempo meglio di qualsiasi orologio.

 

Foto di curiousyellow

Exit mobile version