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Intervista a Sebastiano Riso, regista di “Più buio di mezzanotte”.

Clipboard01In occasione del MittelCinemaFest, rassegna di cinema italiano organizzata dall’Istituto Italiano di Cultura di Praga, dall’Ambasciata d’Italia e l’Istituto Luce Cinecittà, che si è svolta nella capitale boema dal 10 al 14 dicembre 2014, abbiamo avuto modo di incontrare Sebastiano Riso (Catania, 1983), regista di “Più buio di mezzanotte” (2014). Sebastiano ha iniziato a occuparsi di rappresentazioni in Sicilia, con il teatro, poi ha studiato a San Francisco (U.S.A.) e si è infine laureato in “Cinema” a Roma, dove ha lavorato in diversi film prima come assistente alla regia e poi come aiuto regista.

CB. Prima teatro, poi cinema; ma sul piano artistico quale dei due ambienti preferisci?

SR. Il teatro è stato una palestra fondamentale: quello che ho avuto modo di fare io, era un tipo di teatro che aveva molto a che fare con il cinema. A Catania c’erano tantissimi teatri, che rappresentavano l’inizio di tutta una serie di sperimentazioni. Era una città con una grande attenzione per il palcoscenico.

Il cinema, invece, è il suo fratello minore (o maggiore, visto che comprende, oltre alla recitazione, moltissime altre arti).

Per quanto riguarda il teatro io ho lavorato da ragazzino con Emma Dante, che fa un teatro forte, d’impatto, che non lascia mai indifferenti ; per quanto riguarda il cinema, lo ho coltivato come passione sin da piccolo, grazie a mio padre, con il quale vedevo un film a settimana per poi dibattere insieme sui contenuti. Il rapporto con il cinema e quello con mio padre, psichiatra, è molto stretto.

Il cinema è stata per me una passione libera, ma da un certo punto di vista è stato anche un salto nel vuoto: è una carriera che spesso non dà sbocchi, basta guardare il numero di tagli che ogni anno vengono inferti al cinema in particolare a al mondo della cultura e dello spettacolo in generale.

Ho lavorato anche dietro le quinte di alcune serie televisive per mettere da parte qualche soldo: anche quella devo considerarla un’esperienza formativa, perché nonostante abbia sostanziali differenze con il cinema, mi ha insegnato varie dinamiche e modi di lavorare che poi tornano anche sul set dei film.

Infine, direi che anche ora che per me il cinema è un lavoro, non mi risulta mai pesante, proprio perché per me è una passione.

CB. Un regista deve sapere anche recitare?

SR. Ho avuto un’esperienza brutta con un regista italiano, del quale non farò il nome, proprio perché trattava male gli attori: lui non voleva averne niente a che fare; ma come si fa? Gli attori sono il volto del film… il rapporto con loro è fondamentale!

Per converso, io credo fermamente nell’educazione e nel rispetto per chi lavora, chiunque sia: anche quando lavoro con gente non professionista (e anche in quest’ultimo film ho coinvolto attori non professionisti). Spesso mettere insieme attori di professione con altri completamente esordienti crea delle vie di incontro inaspettate, che migliorano di gran lunga la qualità delle scene. In un team serve “simpatia”, nel senso greco del termine.

CB. “Più buio di mezzanotte” è la tua opera prima e hai cominciato a girarla a soli 29 anni: qual è stato il tuo percorso? Quali i tuoi modelli? E chi ti ha dato fiducia, appoggiando il tuo progetto nonostante la tua giovane età?

SR. Abbiamo bisogno di persone che ci diano fiducia; tante persone mi hanno detto “lascia perdere, questa storia non interessa, non piacerà”, ma credo che ognuno di noi abbia dentro di sé un termometro interno al quale dobbiamo tenere fede senza ascoltare gli altri.

Certo, io non avevo il know-how per produrre un film, dunque mi sono affidato a Claudio Saraceni, un produttore settantunenne che mi ha promesso che avremmo fatto il film: lui avrebbe apportato la sua esperienza, io il mio entusiasmo. La conferma che entrambi abbiamo avuto ragione a credere in questo progetto è stata la partecipazione del film al Festival di Cannes.

CB. Il film racconta il dramma di un adolescente che non riesce a fare accettare alla società in generale e al padre in particolare (contro il quale arriva a una vera e propria ribellione) la propria omosessualità. Da cosa nasce l’esigenza di proporre questo tema? E come è stato accolto?

SR. L’omosessualità era soltanto un pretesto: se avessimo parlato di un emigrato, un handicappato o uno zingaro, sarebbe stata la stessa cosa per il messaggio che si voleva veicolare. Si voleva parlare di identità e libertà. Davide, il protagonista, adolescente effemminato, cerca di far accettare la propria identità a una società… ed è questo l’unico modo per affermare la propria libertà. Ecco perché il film comincia con una corsa. Poi, naturalmente, toccando nello specifico il tema dell’omosessualità (e quindi una questione “sociale”) era inevitabile attirare attenzioni anche sul piano politico.

Il film, però, va oltre questi dibattiti e, parlando di adolescenza, si fa portatore di un messaggio universale: tutti noi siamo stati adolescenti, tutti noi conosciamo le difficoltà, le paure e le instabilità di quel periodo della vita. A questa universalità, va aggiunto il tema dell’omosessualità e quindi un’instabilità di genere che si affianca all’instabilità della crescita.

Il film è stato accolto bene dai maestri: Marco Bellocchio, Nanni Moretti e soprattutto Bernardo Bertolucci, persona talvolta dura, che ha fatto senz’altro la storia del cinema, ha visto e apprezzato il film, invitandomi addirittura a casa sua per vederlo. In quell’occasione lo fece rivedere a tutti i suoi invitati e sottolineò la differenza tra un film che funziona e un film furbo.

Poi sono arrivate anche diverse critiche. Di un certo tipo di critiche non parliamo neanche: sono quelli che ritengono il film inutile, perché questi temi non esistono… idioti di regime insomma, pagati per nascondere la realtà. La critica della quale val pena far menzione è quella arrivata da alcuni giornalisti omosessuali, dai quale mi sono sentito dire che il film mostrava una serie di stereotipi degradanti . Il mondo omosessuale è, paradossalmente, molto razzista: gli uomini omosessuali “maschili” discriminano i “meno maschili”, i “meno maschili” discriminano gli effeminati, gli effemminati discriminano le travestite, le travestite le trans, le trans le donne operate. Insomma, quanto più si è capaci di dare un’immagine di sessualità vicina all’eterosessualità, quanto più ci si sente in diritto di criticare il prossimo. In realtà è una mancata emancipazione, è un escalation verso il basso, qualcosa di tremendo: anziché coalizzarsi e capirsi nelle differenze, ci si divide, si critica la soluzione che hanno trovato gli altri al proprio stesso problema, anziché farne tesoro. Nel mondo omosessuale gli effeminati sono molto discriminati, quindi fare un film dove l’eroe è un piccolo travestito effeminato siciliano ha portato tanti omosessuali a rabbrividire.

CB. Ritieni che gli italiani siano pronti ad affrontare questo tema?

SR. Quando si parla di “italiani” è sempre difficile rispondere. Chi sono gli italiani? Sono quelli che hanno votato per vent’anni Berlusconi o quelli che fanno del giornalismo militante e appassionato? Sono quelli della Uno Bianca o sono i grandi ricercatori riconosciuti all’estero?

Purtroppo la maggioranza è condizionabile e condizionata… è una maggioranza che crede ancora che l’omosessualità sia un difetto o che la accetta finché non si parla dei propri figli. Perché nel Nord Europa questi discorsi sono stati del tutto sdoganati e invece da noi rappresentano ancora un tabù? Naturalmente per il dominio del cattolicesimo: io faccio parte della cultura cristiana, ma non posso non dissentire quando sento un papa (come quello precedente) dire che l’omosessualità è un peccato.

A un certo punto bisognerà fare una scelta: gli italiani devono imparare a investire sulla cultura, a viaggiare per rendersi conto che noi non siamo il centro del mondo (non a Sharmen Shake o Ibiza, ma in posti dove si possa entrare a contatto con realtà diverse e culture magnifiche). Il Berlusconismo è stata una macchina terribile: ha bloccato e distrutto la cultura… e ora cominciano a vedersene i veri effetti! Se vuoi sopravvivere devi essere furbo: non c’è interesse per la cultura, non c’è interesse per l’arte e per tutto ciò che non dà un ritorno. Ecco, dunque, arrivare tagli su tagli, corruzione su corruzione, raccomandazione su raccomandazione, incompetenza su incompetenza.

CB. Tu fai attivismo omosessuale?

SR. No, perché io mi sento, prima di tutto e solamente, una persona (a prescindere dalla mia omosessualità). Non appartengo a nessun mondo e non mi sento rappresentato dai gruppi omosessuali.

Naturalmente, se pago le tasse, voglio dei diritti: quindi il matrimonio, l’adozione, eccetera. Non capisco perché tanti miei amici debbano andare ad adottare i figli all’estero, come se in Italia non ci fossero tanti bambini in orfanotrofio.

CB. Infine, cosa è secondo te la “normalità” e cosa la “diversità”?

SR. La “normalità” è lo spettro di possibilità che fa parte di ogni persona e specie animale, è uno spazio vastissimo limitato dalla parola “rispetto”: tutto ciò che è possibile fare, si può fare se non danneggia il prossimo.

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