CB. Tra le tante forme d’arte legate al mondo del cinema, Lei ha scelto il documentario. Cosa la spinge a raccontare al grande pubblico la realtà della vita piuttosto che la finzione?
A me piace la trasformazione della realtà. C’è una parte di osservazione della realtà che si fa con la porta aperta, ma poi mi piace chiudere questa porta piano piano e, una volta che la porta è chiusa, guardare dal buco della serratura. Credo molto nel lavoro di sottrazione, di trasformazione della realtà, e quindi uso il linguaggio del cinema nel documentario. Questo l’ho sempre fatto, fin dai miei primi film: da Boatman a Below sea level… così come in quest’ultimo. In realtà non ho mai tenuto questa separazione netta tra il documentario la finzione, anche se sono due modi di lavorare molto diversi. Io lavoro da solo, sono un “one man crew”, però poi il linguaggio che mi affascina, che mi tiene vicino a questo mondo, è il linguaggio del cinema. Per questo non ho mai posto una separazione. Quello che è importante veramente è solo la differenza tra il vero e il falso: “true and false”, questa è la domanda che mi faccio, e l’essere stato selezionato a Venezia è stato un punto di arrivo di un percorso durato 20 anni.
CB. Dal Gange di Boatman al Grande Raccordo Anulare, passando per il New Mexico di Below sea level e il luogo segreto di El Sicario room 164: possiamo dire che uno dei fili conduttori dei suoi documentari, e caratteristica della sua “poetica cinematografica”, sia il viaggio in tutte le sue forme: quello esteriore e quello interiore. Cosa significa per lei il viaggio?
Il mio lavoro è un viaggio, un’avventur,a perché quando inizio un film non so mai dove mi porterà. Poi però c’è un percorso che mi porta a dare un linguaggio a questo senso di avventura. Affronto sempre delle incognite, l’ignoto, perché parto da eventi molto piccoli. Non ho mai scritto una sceneggiatura per un mio film, mai un soggetto, forse appena una o due frasi dove poi si condensa tutto il senso del film; un’ immagine. Poi, però, una volta che inizio un film non so mai veramente dove mi porterà, ed è questo che mi tiene attaccato a questa forma di narrazione. Non potrei mai lavorare a un film di finzione, forse perché il film di finzione lo devi raccontare a troppe persone prima di iniziare, e arrivato quel momento sarei già troppo annoiato, sarei già in un’altra storia. Non mi è proprio congeniale il modo di lavorare della finzione.
CB. Sacro Gra è stato il primo documentario a vincere il Leone d’oro a Venezia e, inoltre, riporta l’Italia dopo 15 anni a riguadagnare il premio più ambito. Un segnale importante che indica un cambiamento. Cosa sta cambiando nel panorama del cinema italiano?
CB. Ascoltando le storie di vita dalla bocca degli stessi protagonisti dei suoi documentari, spesso ci si dimentica che quello che si sta guardando e ascoltando è vita reale. Qual è l’alchimia che le permette di trasformare la realtà in poesia?
Intanto penso che sia la scelta di questi personaggi che hanno una dimensione poetica propria nella vita, un
CB. Dietro Sacro Gra ci sono tre anni di ricerca e lavoro nel corso dei quali ha girato in lungo e in largo i 68 km del Raccordo e ha incontrato persone, storie e veri e propri microcosmi diversi, di cui le vicende che ha scelto sono una testimonianza. Cosa le ha insegnato questa esperienza?
CB. Possiamo dire che con questo documentario, Sacro Gra, lei ha fatto vacillare ulteriormente il concetto di “non luogo” che secondo l’antropologo francese Marc Augé contraddistinguerebbe quei grandi spazi di transito nei quali non si stabiliscono legami duraturi tra gli individui che li frequentano?
Sì… dopo però Augé ha scritto un libro in cui dice che il “non luogo” non esiste… Dopo che abbiamo usato questa parola per anni, ci siamo innamorati tutti di questa parola, lui ci ha negato il piacere di usarla ancora. Io avevo già letto il suo secondo libro, però mi sono avvicinato al GRA, a questo luogo quasi invisibile, in fondo così come faccio sempre, e cioè solo come a un pretesto per trovare storie. Era importante che anche Roma stessa diventasse invisibile e quindi, più che da Augé, sono stato ispirato dal libro di Calvino Le città invisibili nel creare un senso di astrazione di un luogo e di trasformazione. E poi da questa mappa fitta: piena di quartieri, di 3 milioni di persone… Ho dovuto creare un vuoto, aprire questo cerchio per renderlo come una retta infinita e creare una mappa mentale. Alla fine il film è semplicemente una strada dove c’è un’ambulanza, un ospedale, un castello, un palazzo, un aeroporto… c’è un ponte, c’è un fiume, c’è un pescatore, c’è un’oasi con delle palme… e quindi è diventata una psico-geografia, un luogo mentale che perde il connotato stesso di circolarità propria del Raccordo.
CB. La critica ha accolto Sacro Gra in modo ambivalente: una parte ne è stata subito entusiasta, un’altra l’ha accettato con una certa reticenza. Anche El sicario, room 164 era stato molto criticato. Come risponde alle critiche mosse a Sacro Gra?
Come si è sentito quando ha saputo della vittoria di Sacro Gra?
È stata una sorpresa totale. Era già stata una grande sorpresa sapere che il film era stato selezionato alla competizione. Già quella è stata una grande vittoria. Mai e poi mai avrei pensato che potesse vincere un premio, soprattutto così importante. Il venerdì mi avevano detto che il film aveva vinto il Leoncino d’Oro – che è il premio della critica dei giovani- quindi io ero a posto così! Appagatissimo da tutto questo: le critiche erano state ottime, il pubblico pure, il film aveva avuto una “standing ovation” di mezz’ora… Ma non mi aspettavo sicuramente un premio, e quando mi hanno detto di non partire perché un premio c’era, visto che ci sono quattro premi ero convinto di aver preso il premio speciale della giuria. Poi durante la premiazione, quando il premio non arrivava: uno… due…tre… Al terzo premio ho pensato che fossi lì solo perché dovevano ufficializzare il premio degli studenti. Sicuramente non per il Leone d’Oro; sarebbe una follia. Invece poi Bertolucci… È stata veramente una sorpresa, come aver vinto una lotteria. Nel cinema non sai mai quali sono gli elementi che fanno sì che vinca un film piuttosto che un altro. Io sono stato in giuria varie volte e il lavoro è molto complesso. Non sei Bolt che deve correre i 100 m. sapendo che lì vincerà il migliore. Ci sono tanti di quegli elementi… Chissà che cosa aveva mangiato la giuria il giorno prima; in che circostanze vedono il film… Ci sono troppi elementi che fanno sì che sia veramente tutto legato al caso. Poi, però, un personaggio come Bertolucci è anche un rivoluzionario, quindi questo ha sicuramente aiutato molto il film. Mi hanno detto che la giuria si è espressa all’unanimità, che è stato il premio meno discusso.