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Intervista a Gianfranco Rosi, regista di “Sacro Gra”, vincitore a Venezia del Leone d’Oro 2013.

Sacro-Gra-comingsoon.it_Il 5 maggio scorso, presso la sala del cinema Světozor di Praga, si è tenuta la prima nazionale in Repubblica Ceca del documentario Sacro GRA, vincitore del Leone d’Oro come miglior film alla 70ª edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Alla proiezione del documentario, che ha visto la partecipazione dello stesso regista Gianfranco Rosi arrivato a Praga per l’occasione, erano presenti molte personalità del mondo della cultura ceca e numerosi membri della comunità italiana a Praga, tra cui l’Ambasciatore d’Italia Pasquale D’Avino e il Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura, Giovanni Sciola, tra i promotori dell’evento. Café Boheme ha incontrato Rosi nella suggestiva ed elegante cornice dell’Hotel Alchymist per fargli qualche domanda sul suo ultimo lavoro.

 

CB. Tra le tante forme d’arte legate al mondo del cinema, Lei ha scelto il documentario. Cosa la spinge a raccontare al grande pubblico la realtà della vita piuttosto che la finzione?

 A me piace la trasformazione della realtà. C’è una parte di osservazione della realtà che si fa con la porta aperta, ma poi mi piace chiudere questa porta piano piano e, una volta che la porta è chiusa, guardare dal buco della serratura. Credo molto nel lavoro di sottrazione, di trasformazione della realtà, e quindi uso il linguaggio del cinema nel documentario. Questo l’ho sempre fatto, fin dai miei primi film: da  Boatman a Below sea level…  così come in quest’ultimo. In realtà non ho mai tenuto questa separazione netta tra il documentario la finzione, anche se sono due modi di lavorare molto diversi. Io lavoro da solo, sono un “one man crew”, però poi il linguaggio che mi affascina, che mi tiene vicino a questo mondo, è il linguaggio del cinema. Per questo non ho mai posto una separazione. Quello che è importante veramente è solo la differenza tra il vero e il falso: “true and false”, questa è la domanda che mi faccio, e l’essere stato selezionato a Venezia è stato un punto di arrivo di un percorso durato 20 anni.

 

CB. Dal Gange di Boatman al Grande Raccordo Anulare, passando per il New Mexico di Below sea level  e il luogo segreto di El Sicario room 164: possiamo dire che uno dei fili conduttori dei suoi documentari, e caratteristica della sua “poetica cinematografica”, sia il viaggio in tutte le sue forme: quello esteriore e quello interiore. Cosa significa per lei il viaggio?

 Il mio lavoro è un viaggio, un’avventur,a perché quando inizio un film non so mai dove mi porterà. Poi però c’è un percorso che mi porta a dare un linguaggio a questo senso di avventura. Affronto sempre delle incognite, l’ignoto, perché parto da eventi molto piccoli. Non ho mai scritto una sceneggiatura per un mio film, mai un soggetto, forse appena una o due frasi dove poi si condensa tutto il senso del film; un’ immagine. Poi, però, una volta che inizio un film non so mai veramente  dove mi porterà, ed è questo che mi tiene attaccato a questa forma di narrazione. Non potrei mai lavorare a un film di finzione, forse perché il film di finzione lo devi raccontare a troppe persone prima di iniziare, e arrivato quel momento sarei già troppo annoiato, sarei già in un’altra storia. Non mi è proprio congeniale il modo di lavorare della finzione.

 

CB.  Sacro Gra è stato il primo documentario a vincere il Leone d’oro a Venezia e, inoltre, riporta l’Italia dopo 15 anni a riguadagnare il premio più ambito. Un segnale importante che indica un cambiamento. Cosa sta cambiando nel panorama del cinema italiano?

 Non ho vissuto molto in Italia in questi ultimi anni, ma soprattutto negli ultimi mesi ho incontrato alcuni documentaristi di grande livello, e anche nella finzione devo dire che ho incontrato tantissimi giovani che lavorano a tanti linguaggi individuali. Quello che mi piace molto del cinema italiano è che non c’è qualcosa che accomuna tutti -come invece accade nel cinema francese, inglese o americano che è molto più facile da omologare-. Il cinema italiano è legato molto a degli individui, a dei punti di vista molto precisi e io trovo che sia molto ricco in questo momento. Ci sono grandissimi registi, giovanissimi, anche bellissime opere prime che stanno venendo fuori. Quello che ha portato e porterà Venezia si vedrà negli anni. Sicuramente c’è stata un’apertura, adesso spero che anche quest’anno sia selezionato almeno un documentario nella competizione, il che dimostrerebbe che c’è veramente un cambiamento in atto. Altrimenti vuol dire che è stata solo una rondinella che è passata. Speriamo che non sia così.

                                                                      

CB. Ascoltando le storie di vita dalla bocca degli stessi protagonisti dei suoi documentari, spesso ci si dimentica che quello che si sta guardando e ascoltando è vita reale. Qual è l’alchimia che le permette di trasformare la realtà in poesia?

 Intanto penso che sia la scelta di questi personaggi che hanno una dimensione poetica propria nella vita, un linguaggio proprio… Ed è proprio questo che mi fa avvicinare a questo tipo di storie. C’è un lungo lavoro di avvicinamento per me: prima sono persone poi, eventualmente, diventano personaggi nel film, ma solo in un secondo tempo. C’è sempre una lunga frequentazione, un lungo periodo di avvicinamento per costruire anche un rapporto di amicizia, di fiducia reciproca e di conoscenza della loro vita. E questo vale anche per loro con me. Si è in due, quindi ci si mette in gioco a vicenda. È un lungo processo, a volte passano anche degli anni prima che riesca a capire come filmare una persona con la quale prima c’era solo semplicemente un rapporto… E poi un giorno, invece, succede qualcosa così come è successo col palmologo che in Sacro Gra è diventato l’elemento portante del film.

 

CB. Dietro Sacro Gra ci sono tre anni di ricerca e lavoro nel corso dei quali ha girato in lungo e in largo i 68 km del Raccordo e ha incontrato persone, storie e veri e propri microcosmi diversi, di cui le vicende che ha scelto sono una testimonianza. Cosa le ha insegnato questa esperienza?

 Intanto forse ho imparato ad amare Roma, un’altra Roma. Roma era per me  una città molto distante, non era una città che amavo molto. E quindi ho scoperto questa Roma che vive attorno al Grande Raccordo Anulare. Ci sono 3 milioni di persone che vivono ai margini del Raccordo, 1 milione e mezzo all’interno e 1 milione e mezzo all’esterno, quindi, paradossalmente, il Raccordo Anulare è il centro di Roma; è la nuova Roma, la Roma del futuro. Sicuramente in questo film ho imparato ad amare una città alla quale prima non ero molto legato. Adesso spero che i romani imparino ad amare il Raccordo Anulare -luogo maledetto- attraverso il mio film.

 

CB. Possiamo dire che con questo documentario, Sacro Gra, lei ha fatto vacillare ulteriormente il concetto di “non luogo” che secondo l’antropologo francese Marc Augé contraddistinguerebbe quei grandi spazi di transito nei quali non si stabiliscono legami duraturi tra gli individui che li frequentano?

 Sì… dopo però Augé ha scritto un libro in cui dice che il “non luogo” non esiste… Dopo che abbiamo usato questa parola per anni, ci siamo innamorati tutti di questa parola, lui ci ha negato il piacere di usarla ancora. Io avevo già letto il suo secondo libro, però mi sono avvicinato al GRA, a questo luogo quasi invisibile, in fondo così come faccio sempre, e cioè solo come a un pretesto per trovare storie. Era importante che anche Roma stessa diventasse invisibile e quindi, più che da Augé, sono stato ispirato dal libro di Calvino Le città invisibili nel creare un senso di astrazione di un luogo e di trasformazione. E poi da questa mappa fitta: piena di quartieri, di 3 milioni di persone…  Ho dovuto creare un vuoto,  aprire questo cerchio per renderlo come una retta infinita e creare una mappa mentale. Alla fine il film è semplicemente una strada dove c’è un’ambulanza, un ospedale, un castello, un palazzo, un aeroporto… c’è un ponte, c’è un fiume, c’è un pescatore, c’è un’oasi con delle palme… e quindi  è diventata una psico-geografia, un luogo mentale che perde il connotato stesso di circolarità propria del Raccordo.

 

CB. La critica ha accolto Sacro Gra  in modo ambivalente: una parte ne è stata subito entusiasta, un’altra l’ha accettato con una certa reticenza. Anche El sicario, room 164 era stato molto criticato. Come risponde alle critiche mosse a Sacro Gra?

 Di critiche ne leggo alcune, altre non le leggo. I giornali importanti hanno tutti sostenuto moltissimo il film, poi c’è tutto un mondo del web che a volte mi fa pensare che molti vogliono prendere volutamente una posizione opposta al “mainstream”. Però devo dire che la maggior parte delle critiche che ho letto su questo film erano quasi tutte positive. Poi il fatto che conta è che il film abbia avuto un successo di pubblico piuttosto importante in Italia, con più di 250.000 biglietti venduti, è stato un record per un documentario l’incasso che ha fatto il film, in Italia e anche all’estero. È stato venduto in 30 paesi, in Francia ha avuto un grosso successo di critica, anche in Inghilterra, in Spagna, in Svizzera. Bene o male il film ha avuto secondo me una critica positiva. La sorpresa invece è stata la critica negli Stati Uniti di El sicario, che all’unanimità ha osannato il film, e questo non me lo sarei mai aspettato. Mi aspettavo un approccio morale dei giornalisti che si chiedessero come si può dar voce a uno che ha ammazzato 500 persone… E invece quella cosa lì non è venuta mai fuori. Il film ha avuto il massimo dei punteggi quando è uscito negli Stati Uniti: il NewYork Times, il Washington Post… Tutti i grandi critici americani hanno osannato il film che ha avuto anche un grande successo di pubblico, mentre in Italia il film non è uscito. Non è stato distribuito.

Come si è sentito quando ha saputo della vittoria di Sacro Gra?

 È stata una sorpresa totale. Era già stata una grande sorpresa sapere che il film era stato selezionato alla competizione. Già quella è stata una grande vittoria. Mai e poi mai avrei pensato che potesse vincere un premio, soprattutto così importante. Il venerdì mi avevano detto che il film aveva vinto il Leoncino d’Oro – che è il premio della critica dei giovani- quindi io ero a posto così! Appagatissimo da tutto questo: le critiche erano state ottime, il pubblico pure, il film aveva avuto una “standing ovation” di mezz’ora… Ma non mi aspettavo sicuramente un premio, e quando mi hanno detto di non partire perché un premio c’era, visto che ci sono quattro premi ero convinto di aver preso il premio speciale della giuria. Poi durante la premiazione, quando il premio non arrivava: uno… due…tre… Al terzo premio ho pensato che fossi lì solo perché dovevano ufficializzare il premio degli studenti. Sicuramente non per il Leone d’Oro; sarebbe una follia. Invece poi Bertolucci… È stata veramente una sorpresa, come aver vinto una lotteria. Nel cinema non sai mai quali sono gli elementi che fanno sì che vinca un film piuttosto che un altro. Io sono stato in giuria varie volte e il lavoro è molto complesso. Non sei Bolt che deve correre i 100 m. sapendo che lì vincerà il migliore. Ci sono tanti di quegli elementi… Chissà che cosa aveva mangiato la giuria il giorno prima; in che circostanze vedono il film… Ci sono troppi elementi che fanno sì che sia veramente tutto legato al caso. Poi, però, un personaggio come Bertolucci è anche un rivoluzionario, quindi questo ha sicuramente aiutato molto il film. Mi hanno detto che la giuria si è espressa all’unanimità, che è stato il premio meno discusso.

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