Incontro con l’autore Ruggero Cappuccio. Di Carmela Lucia
Carmen Lucia
Ruggero Cappuccio (Torre del Greco,1964), drammaturgo e regista di cinema e teatro di origini napoletane, è un artista multanime, che ha un percorso creativo molto originale: nel 1997 cura per il Teatro di Roma, diretto da Luca Ronconi, la riscrittura e la regia del Tieste di Seneca e delle Bacchidi di Plauto; la regia di Nina pazza per amore nel 1999 e nel 2001 del Falstaff, con la direzione musicale di Riccardo Muti. È finalista al Premio Strega 2008 con La notte dei due silenzi (2007) e vince il Premio Napoli 2011 con Fuoco su Napoli; ha prodotto anche film insieme alla regista Nadia Baldi (si ricorda qui il più recente intitolato Veleni) ed è curatore del Festival Segreti d’Autore, Festival dell’Ambiente, delle Scienze e delle Arti. Dal Novembre 2016, è anche Direttore artistico del “Napoli Teatro Festival”, un Festival Internazionale che seleziona, promuove e commissiona spettacoli teatrali, mostre e performance artistiche nella città di Napoli. Il suo ultimo romanzo, intitolato La prima luce di Neruda (Feltrinelli, 2016) sta riscuotendo in Italia notevoli successi: è un’istantanea tragica e insieme romantica dell’esilio a Capri di Pablo Neruda, nel 1952 per un ordine di arresto del dittatore Gonzáles Videla. Nelle pagine, scritte in una prosa connotata da grandi suggestioni metaforiche e sonore, domina l’incanto della poesia civile e militante, l’amore intenso e libero per la cantante lirica Matilde Ulrutia e l’alterna vicenda delle speranze e dello sgomento, dell’amore e della morte.
Ruggero Cappuccio è noto soprattutto per il suo teatro capace di affrancarsi dalla koiné della drammaturgia napoletana, ispirato al lirismo, alla forza epica di una rêveire di nostalgica elegia. La sua è una scrittura raffinatissima in cui, insieme alla forza “euritmica” della musicalità della parola, domina spesso la letterarietà, la storia, il mito, ma anche la cronaca e l’umorismo più sapido (come nell’ultima commedia Spaccanapoli Times, 2015). Tutte queste infinite componenti evocate sulla scena sembrano come sospese tra presenze oniriche e spasmi di memorie, poiché prendono corpo in partiture sonore originalissime, in cui si agglutinano la ricerca di linguaggi mitici e primigeni, mutuati dalla memoria letteraria o dalla lingua di Basile, con l’interferenza di altri registri anche distanti cronologicamente e sempre in tensione, come per esempio in Delirio Marginale (Premio IDI 1993, Desideri mortali, oratorio profano per Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1996), Tieste (1997), Il sorriso di San Giovanni (Premio Ubu Migliore Novità Italiana 1998). Da qui la grande varietà di toni, di stili anche distanti dal punto di vista diatopico e diacronico (con l’accostamento del siciliano al napoletano, dell’uso della lingua del Seicento e dell’inglese), e soprattutto la grande varietà anche dei generi per una drammaturgia, che appare per questo difficilmente riconducibile ad un’unica cifra stilistica. Si pensi solo al composito quadro di suggestioni e di echi che affiorano nell’atto unico Desideri mortali (1996), il suo “debito d’amore”, insieme a Lighea, nei confronti dell’opera di Tomasi di Lampedusa; o alla classicità deformata e contaminata dalla phoné del dialetto napoletano e siciliano dell’Edipo a Colono (1997); alla tensione emotiva di tragedie metafisiche, come quella rievocata nel monologo Paolo Borsellino, Essendo Stato (2005); all’opera Il sorriso di San Giovanni (1997-8), dove la storia appare evocata anche attraverso l’inganno e il mistero della lingua della poesia, o di una “lingua impossibile”; alla rappresentazione di quello che possiamo considerare un periplo intorno alla morte e al desiderio, dominante in Shekespea re di Napoli (Premio Speciale Drammaturgia Europea 1994), una rapsodia unica, con i suoi straordinari esiti di stilizzata rappresentazione del registro letterario contaminato con il dialetto di Basile; o per finire, si ricordi l’impasto sonoro (con l’intreccio di cantica e deverbia) di un’altra riscrittura, Le Bacchidi (1998) che, insieme al Tieste, costituisce il dittico ispirato alla classicità romana.
Per una prima analisi del romanzo Fuoco su Napoli
Il romanzo che vogliamo presentare in questa sede è Fuoco su Napoli (2010), in cui protagonista è la città di Napoli, come ha scritto Raffaele La Capria: «Napoli così come nessuno l’ha mai raccontata in una grande storia d’amore e di stupro». Il romanzo Fuoco su Napoli è un testo di grande rigore formale, ma, al tempo stesso, venato da intarsi dell’oralità vernacolare del napoletano e da esiti propri della morfosintassi del parlato; per questo la sua particolarissima texture linguistica sembra oscillare tra tensioni sperimentali e recuperi della tradizione, insistita ricercatezza formale e permanenza dell’oralità. In cinquantasei capitoli che hanno quasi la misura del racconto breve, si racconta dell’imminente distruzione di Napoli che sarà sommersa dall’acqua:
«Al massimo tra cinque mesi Napoli finirà di esistere. Al massimo tra cinque mesi Napoli non ci sarà più. I Campi Flegrei ci stanno preparando il benservito. La città sarà distrutta. Ci sarà una violenta esplosione iniziale. Si formerà una colonna eruttiva che darà vita a gas incandescenti, frammenti di magma e di rocce che saranno scagliati a decine di chilometri di altezza» (Fuoco su Napoli, Feltrinelli, 2011, p. 9).
Napoli è dunque la protagonista del romanzo, insieme a un personaggio modernissimo, un imprenditore senza scrupoli, Diego Ventre che è il solo, insieme a pochi geologi corrotti, a essere informato dell’imminente sciagura che si sta per abbattere sulla città. Quest’ultimo è anche la coscienza della città, ama Napoli e vuol vederla distrutta e purificata, per liberarla dalla cementificazione selvaggia e dalla violenza estetica che l’hanno devastata per anni. Insieme a imprenditori e camorristi si impegnerà a dare un volto nuovo alla “Nea-pòlis”, auspicando, grazie a questa «occasione irripetibile» (ivi, p. 215), una nuova rinascita della città, con la costruzione di villaggi alberghieri nelle zone d’interesse storico-archeologico. Una palingenesi invece prenderà corpo letteralmente nel ventre della donna amata, Luce di Sangrano, che scoprirà infine di portare in grembo un figlio: così nel varco di una visione laica e disincantata della vita si aprirà un’onda di trascendenza prepotente per l’azione della pietà suscitata dalla maternità: «Luce era lontana, aveva deciso di essere lontana. […] Si sentiva violata, come Napoli. Ma come Napoli sapeva di poter sopravvivere a tutte le violazioni» (ivi, p. 226).
Napoli è vittima di uno stupro e lo è anche Luce che rappresenta, rispetto alla città, una “pars pro toto”, incarnando sia lei, sia la città stessa il principio femminile, gravido di vitalismo, perché simbolo di una purezza primigenia violentata.
Soprattutto nella parte centrale del romanzo domina dunque un’isotopia che collega il tema dell’accoglienza a quello della maternità: Napoli e il suo “ventre”, per parafrasare il titolo di un noto romanzo della Ortese, è una città offesa dall’abuso, una città che ha perso la sua identità, quell’ancestrale religiosità consacrata da Sandor Marai; ha perso il suo tempo, ha perso le sue voci, le voci dei pescivendoli, dei verdurai, dei marinai celebrate da Viviani, e la sua storia non è più “accoglienza”:
«Ora, io credo che Napoli, nei secoli, sia stata la più materna delle città del mondo. Per un bambino, Napoli era la grande madre che conteneva la sua piccola madre. Il bambino passava dalla dolcezza del seno alla dolcezza delle spiagge. Giocava a casa della sua piccola madre di carnee nei vicoli della sua grande madre di pietra. Il bambino passava da un’armonia all’altra. Dall’armonia della pelle di mamma, all’armonia della sabbia di madre. […] Una madre è l’accoglienza, l’accoglienza al di là di tutto. Vieni da mamma, si dice a un bambino per confortarlo. E la città con il suo clima, materno, con i suoi specchi d’acqua materni, con i suoi sfizi materni, con le sue lune, diceva proprio così: vieni da Napoli, vieni da me. Ma ora la città si nega. La città respinge. Non accoglie, non chiama, non calma.» (Fuoco su Napoli, p. 134).
Semplificare un romanzo così ricco di evocazioni simboliche, di suggestioni e di allusioni metaforiche non è facile. In prima istanza, occorre rilevare che l’allegoria della distruzione appare assolutamente necessaria alla funzionalità del romanzo: già a partire dall’incipit del primo capitolo, con tranches descrittive di forte impatto emotivo, viene presentato quello che è in fondo il tema dominante, una trascrizione allegorica della lotta tra Natura e Storia o civiltà, due presenze simboliche che assumono il valore di una sintesi altamente emblematica delle motivazioni profonde sottese al testo. Piena di echi che risalgono a Vico e Leopardi, ma prim’ancora ai greci, la diade “natura versus cultura” è poi un’isotopia centrale, che domina anche nelle opere di Raffaele La Capria in riferimento a Napoli, città dove i segni di queste due presenze si incarnano in evidenze materiali che anche Ungaretti, rapito dalla bellezza arcana e selvaggia della città, dal barocco dei monumenti, segni tangibili della memoria e della poesia (Virgilio, Stazio, Petrarca, Boccaccio, Tasso e Leopardi), non esitò a descrivere nelle sue prosa di viaggio dedicata alla Vecchia Napoli (3 luglio 1932):
«Andando nel polverone di questa lunga piattaforma, con quell’impressione dei porti: braccia muscolose, calzoni rimboccati, gambe pelose, piedi scalzi, sudore, mescolanza di urla meccaniche e umane che portano via l’anima, e la violenza impassibile delle pietre geometriche che afferrano il mare come una testolina inquieta (“uocchie che accarezzano nelle loro ombre d’antenne e di carene le mani di Otello)…».
L’antitesi natura-storia sembra imprimere i suoi segni nella città partenopea, per l’avvicendarsi di eruzioni, terremoti e pestilenze. Appartengono poi al campo semantico della Storia, intesa nella sua accezione negativa, i seguenti topoi che attraversano anche i romanzi e la saggistica di La Capria, un altro autore, insieme a Tomasi di Lampedusa, fonte di significative suggestioni evocative per Cappuccio: in prima istanza la figura del borghese incrudelito; il tema del laurismo rampante; del finanziamento illecito dei partiti e delle tangenti, della cementificazione selvaggia, che ritroviamo anche ne Le mani sulla città di Francesco Rosi, un celebre film sulle tragiche conseguenze di un caso di speculazione edilizia e delle manovre per insabbiare l’inchiesta. Tutti questi motivi dominanti che attraversano tante altre opere di Cappuccio in riferimenti che assumono varie sfaccettature (si pensi all’ultima pièceSpaccanapoli times) si contaminano, in una mirabile texture ricca di evocazioni e suggestioni simboliche e metaforiche, con le sublimi sequenze descrittive della natura, che compongono il multiforme affresco di Fuoco su Napoli. Nel campo semantico della natura (articolata sempre in rapporto alla diade natura versus storia) s’iscrive in particolare il simbolismo dominante dell’acqua, l’acqua che invade le coste di Napoli, che è l’acqua che ricorda un po’ Malacqua di Nicola Pugliese (un romanzo che appare come la cronaca, contaminata da una cifra surreale e fantastica, di quattro giorni di pioggia su Napoli;[i] ma è anche l’acqua che si potrebbe legare al tema del naufragio, un tema ancestrale che ha avuto infinite propagazioni, da Sofocle a Lucrezio a Naufragio con spettatore di Blumenberg:
«Ho visto tutta la città dall’alto. È uno spettacolo avvilente, ma c’è qualcosa di sublime. Tutto questo mare nelle strade, non ce lo aspettavamo» (Fuoco su Napoli, p. 191).
Così nel romanzo (e precisamente nel capitolo-frammento 41, ambientato nell’area archeologica di Paestum) Diego Ventre, lontano dalla sua Napoli, ripensa a un piano di ricostruzione per la sua città che parta dal turismo e da un superdecreto, mentre brinda davanti al Tempio di Nettuno (il dio del mare) a Caravaggio, e al quadro L’Adorazione dei pastori con i santi Lorenzo e Francesco, rubato nel’69 a Palermo e che si impegnerà a riportare a Napoli.