Inauguriamo, con questo pezzo di Antonio Moresco, una serie di ripubblicazioni dall’archivio del sito www.ilprimoamore.it.
Questo blog è, da ormai qualche anno, il riflesso mobile di un’intensa attività di militanza, pensiero e scrittura. Il gruppo che lo anima sceglie volta per volta modalità espressive e forme di azione differenti, ma tutte all’insegna di una parola d’ordine che ha il dono di lasciare libero chi la adotta per quanto riguarda stile e contenuti, ma nel contempo vincola inestricabilmente a un sentimento tragico e rivitalizzante di riconfigurazione di sé e del mondo. La parola che lega insieme i mille sentieri del Primoamore è “sconfinamento”.
Il testo che abbiamo scelto è un breve saggio su Cervantes e il suo personaggio più noto. Al lettore che ancora non conosce Moresco, questo piccolo gioiello potrà servire da presentazione, mostrandogli un approccio al discorso narrativo che per molto tempo non è stato più di moda in Italia e che proprio Antonio sta contribuendo a riportare tra le nostre abitudini: chiedere moltissimo, pretendere l’impossibile, lasciarsi incantare eppure, grazie alla natura peculiare di certi enunciati letterari, che sanno svelare il vero negando le convenzioni di realtà, lottare e sognare senza concedersi illusioni e vie di fuga.
La Redazione
Il sogno della letteratura
Antonio Moresco
Solo per me è nato Don Chisciotte, e io per lui; egli ha saputo agire, e io scrivere; tutti e due non siamo che una cosa sola.
Cervantes nasce nel 1547. Suo padre è un modesto chirurgo che si sposta da una città all’altra in cerca di clientela e che finisce anche in prigione per debiti. Sono anni tumultuosi e difficili, tra statuti per la purezza razziale e rivolte dei morischi. Nel 1568, in seguito al ferimento di un uomo durante un duello, Cervantes fugge dalla Spagna per evitare la condanna al taglio della mano destra. Arriva in Italia. Si fa soldato. Inizia la carriera militare. Nel 1571 combatte a Lepanto, la grande e decisiva battaglia navale contro i turchi. Su una delle trecento navi che costituiscono la flotta della Lega Santa, con a bordo più di 80.000 uomini tra soldati, marinai, schiavi e forzati ai remi, incitati a colpi di frusta e di staffile, c’è il futuro autore di Don Chisciotte. E’ su un vascello di nome Marquesa, stretto e sottile, adatto all’abbordaggio, dove stanno ammassati quattrocento uomini in un piccolo spazio tra i due castelli di poppa e di prua e 30 o 40 file di remi. Il giorno in cui le due armate si scontrano sta male, è buttato su una cuccetta, ha la febbre, ma chiede ugualmente di partecipare al combattimento. Le due flotte si avvicinano sempre più, con le bandiere al vento, tra un rullare ossessivo di tamburi e suoni di cembali e di pifferi. Si distinguono già le luccicanti corazze dei soldati nemici pronti all’assalto. Inizia un gigantesco corpo a corpo che coinvolge 60.000 soldati. Tra le navi accostate il mare è rosso di sangue. Alla fine della battaglia e dell’enorme saccheggio che la conclude si contano 42.000 morti, centinaia di navi catturate o distrutte. Il comandante della flotta ottomana, Alì Pascià, viene decapitato con un’ascia. Cervantes riceve tre colpi di archibugio, di cui due al petto. Il terzo lo rende monco di una mano. Ferito gravemente, divorato dalla febbre, riceve i primi rudimentali soccorsi sulla nave. Soltanto venti giorni dopo è all’ospedale di Messina, assieme agli altri feriti scampati alla carneficina. Dopo una lunga convalescenza partecipa alla presa di Biserta e di Tunisi. Negli anni in cui vive in Italia legge, tra gli altri, Boccaccio, Boiardo, Ariosto e Tasso. Conosce varie città e regioni del nostro paese: Roma, Sicilia, Sardegna, Napoli, Genova, La Spezia, Firenze, Milano… che ritornano anche attraverso le parole di uno dei personaggi del Don Chisciotte, il quale ricorda:
La bellezza di Napoli, le delizie di Palermo, l’abbondanza di Milano, i festini della Lombardia, gli splendidi pranzi in osteria (…). Gli riferì con squisita esattezza l’aconcha, patron, vien qua manigoldo, portatemi la macatela e li macarroni. Fece delle lodi alte fino al cielo della libera vita del soldato in Italia.
Ma non è finita. Si imbarca a Napoli per fare ritorno in Spagna. La sua nave viene assalita dai corsari turchi che lo catturano e lo portano ad Algeri, dove viene venduto come schiavo. Rimane ad Algeri cinque anni e mezzo. Anni di durissima prigionia. Quattro tentativi di fuga, tutti falliti. Così “il prigioniero” racconta, nel Don Chisciotte, la sua esperienza nei bagni di Algeri:
Mi misero una catena (…). E malgrado la fame e la mancanza di abiti riuscissero a spossarci a volte, o forse quasi sempre, niente ci tormentava di più che sentire e vedere a ogni istante l’inaudita crudeltà che il mio padrone riservava ai cristiani. Non passava giorno senza che impiccasse questo, impalasse quello o mozzasse le orecchie a quell’altro…
Finalmente viene riscattato e ritorna in Spagna. Tenta senza successo di partire per l’America. Si sposa. Viene coinvolto in un fallimento, incarcerato a Siviglia e scomunicato. Scarcerato, dopo un po’ viene accusato ingiustamente di avere ucciso un uomo e incarcerato di nuovo. A tutto questo si aggiungono problemi famigliari a non finire, accuse di immoralità rivolte alle sue due sorelle e alla figlia naturale. Ma è probabilmente proprio in questi anni, nella solitudine della prigione e a tu per tu con il fallimento della sua vita, che comincia a fantasticare il suo cavaliere dalla triste figura. Alla fine, scarcerato di nuovo, si trasferisce a Madrid. Da questo momento in poi, ormai anziano, scrive in pochi anni gran parte dei suoi libri, in particolare Don Chisciotte, la cui prima parte viene pubblicata nel 1605 -quattro secoli fa- quando il suo autore ha ormai 58 anni. La seconda parte esce una decina di anni dopo, due prima della sua morte, che avviene nel 1616, lo stesso anno e gli stessi giorni in cui, in Inghilterra, muore anche Shakespeare. Due giorni prima di morire, dopo avere pronunciato sul letto di morte i voti definitivi di terziario francescano, “con un piede già nella staffa”, Cervantes scrive -o detta- la dedica del Persiles:
La mia vita sta finendo, all’effimero battito dei miei polsi, al più tardi domenica finirà la sua corsa, e io quella della mia vita (…). Ieri mi è stata data l’estrema unzione, e oggi io scrivo queste righe. Mi resta poco tempo, l’ansia cresce e la speranza si allontana, e ciò nonostante vivo del desiderio che ho di vivere.
Nel Prologo delle Novelle esemplari così Cervantes descrive il proprio aspetto fisico:
Costui che qui vedete, e che ha volto grifagno, capelli castani, fronte liscia e senza rughe, occhi allegri, naso aquilino, ancorché ben proporzionato, barba d’argento che neppure vent’anni addietro era d’oro; folti i baffi, bocca piccola, denti né pochi né tanti, infatti non ne ha che sei, e questi sei malandati e peggio collocati che non stanno in simmetria gli uni con gli altri; quanto al corpo di taglia media, né grande né piccolo; carnagione viva, più bianca che bruna; alquanto curvo di spalle e non molto agile di piede; questa dunque è l’immagine dell’autore della Galatea e del Don Chisciotte della Mancia (…) e di altre opere che vanno in giro sviate, magari senza il nome dell’autore, che tutti chiamano Miguel De Cervantes Saavedra. Fu soldato per molti anni e cinque e mezzo schiavo, sicché imparò ad avere pazienza nelle avversità. Nella battaglia navale di Lepanto perdette la sinistra per un colpo d’archibugio: ferita che lui considera bella, anche se può apparire laida, perché avuta nella più alta e memorabile circostanza che abbiano visto i secoli passati e possano sperare di vedere i futuri, militando sotto le gloriose insegne del figlio del fulmine di guerra, Carlo V di felice memoria.
Parole tranquille e fiere, scritte da un povero vecchio sdentato cui è toccato in sorte di scrivere il più grande romanzo del mondo e che -a quattro secoli di distanza- fanno ancora venire i brividi. Sono molti gli scrittori e le opere che hanno lasciato il segno e che hanno aperto spazi, acceso illusioni e incoraggiato e suscitato altri scrittori nel corso del tempo. Don Chisciotte -questo libro per extraterrestri- ha suscitato i più grandi: Dostoevskij, Melville, Balzac, Dickens, Joyce, Kafka… Tra tutti i “personaggi” del mondo, questo povero mentecatto è il più lungimirante, il più “impegnato”, il trascinatore, il fronteggiatore. E’ il santo patrono degli scrittori. Il nostro comandante. E’ della stessa pasta di Gesù, del principe Amleto, ma anche di Giobbe, di Van Gogh, della Piccola Fiammiferaia… Don Chisciotte sta con la testa conficcata in qualcosa di collassato e di germinale che annulla e attraversa lo spazio, nega il tempo lineare, la Storia. Spiazza in anticipo tutte le costruzioni e convenzioni concettuali dualistiche sull’essere e l’apparire che hanno dilagato sempre più nei secoli successivi e soprattutto nel Novecento. Se la “letteratura” è menzogna e può essere solo menzogna, nel cortocircuito di questa “menzogna” egli fonda qualcosa di così indistinguibile e di così irriducibile a cui sta stretto persino il nome di “verità”. Mettendo radicalmente in pratica l’esperienza della “menzogna” e della “letteratura”, Don Chisciotte passa attraverso questa cruna per andare irresistibilmente da un’altra parte. Questo libro ritenuto quasi universalmente l’opera che apre alla letteratura moderna un unico, consapevole e irreparabile destino parodistico, speculare e autoreferenziale -proprio per essere passato radicalmente dentro questa cruna e questo incantamento- è il meno parodistico e autoreferenziale che sia mai stato scritto, quello che tiene aperto fin dall’inizio un’altra possibilità e un altro passaggio.
Don Chisciotte è il romanzo del desiderio e dell’illusione. Impossibile nominare tutti gli scrittori che ne sono rimasti a loro volta incantati. Anche se al favore con cui è stato accolto fin dall’inizio non ha corrisposto quello degli scrittori più noti del tempo, per lo più ciechi di fronte a tanta superiore naturalezza e a tanto splendore. “A poeti quest’anno non si sta bene…” scrive Lope de Vega “nessuno ce n’è così cattivo quanto il Cervantes, né così stolto che possa lodare il Don Chisciotte.” Per Quevedo è solo “un nuovo Amadigi volto in ridicolo”. Ma, più di due secoli dopo, per Dostoevskij, è il più grande romanzo che sia mai stato scritto. Per A.W. Schlegel “abolisce le leggi della fredda ragione e ci precipita nel caos della natura”. Per Flaubert è “perpetua fusione dell’illusione e della realtà”. Per Turgenev Don Chisciotte incarna la fede in una verità eterna che supera l’individuo. Per Unamuno la sete d’immortalità, ecc… Parole forti, omaggi tributati a pochi, eppure questo povero e sghembo cavaliere è sempre là, il più trasparente e il più disarmato eppure il più irraggiungibile e il più invincibile. Di lui non riusciamo nemmeno a capire se -come suol dirsi- “ci è o ci fa”. Come non lo capiamo del principe Amleto. Se insistiamo ad avvicinarlo attraverso queste categorie, non riusciremo mai ad acchiapparlo. E’ un enigma. Dopo avere ascoltato l’incredibile racconto di Sancio sulla sua cavalcata in groppa a Chiavilegno, così Don Chisciotte mormora all’orecchio del suo scudiero:
Sancio, se volete che creda quel che avete visto nel cielo, allora voglio che voi crediate quel che io ho visto nella grotta di Montesino. E non dico altro.
Non sapremo mai se “ci è o ci fa”. Ma non è importante saperlo. Non è questo il problema. C’è qualcosa d’altro e di infinitamente più grande dove queste due piccole possibilità sono contenute ed oltrepassate. Essere e apparire, letteratura e vita, realtà e finzione, verità e menzogna… Lettore irredento come nessun altro, Don Chisciotte va a toccare e a sfondare questo limite, che è anche il limite della “letteratura”, come di ogni altra attività umana.
Che cosa c’è dopo?