Probabilmente mai nessun gioco è stato e sarà oggetto di tanta attenzione da parte dell’arte in tutte le sue forme, ed in particolare della letteratura, come gli scacchi. Quello degli scacchi, infatti, è un tema caro alla letteratura tanto antica quanto moderna come dimostra il fatto che autori di ogni tempo e luogo hanno scritto e continuano a scrivere opere il cui tema centrale ruota intorno a questo antico gioco di origine indiana, conosciuto in Persia, e diffuso in Europa dagli arabi tra il IX e il X secolo d.C.; quell’universo manicheo retto da rigide regole dove lo scontro tra il bianco e il nero incarna la metafora dell’eterna lotta tra il bene e il male, l’opposizione tra principi originari e contrari, simbolo dell’eterna contesa, infinito divenire dell’universo e della vita stessa. Da Zweig ad Edgar Allan Poe, da Digny a Montale, da Omar Khayyam a Dante, da Cervantes a Goethe, tralasciando gli antichi trattati sul gioco (alcuni di illustri personaggi storici come quello di Alfonso X “il Saggio” Re di Castiglia e Leòn del XIII sec.) e gli innumerevoli moderni studi dei grandi maestri, sono moltissimi gli autori che hanno dedicato particolare attenzione al gioco che nelle loro opere si spoglia delle sue caratteristiche logico-matematiche, per conservare solo i connotati filosofici ad esso connessi. La battaglia simulata sulla scacchiera non è soltanto una guerra tra eserciti contrapposti, ma è interpretata come la metafora della dialettica incessante dell’universo, l’eterna contesa tra la vita e la morte, la lotta dell’uomo contro se stesso, il conscio e l’inconscio la cui disputa mina l’integrità dell’individuo nella sua essenza con la minaccia della follia. In una delle varie leggende diffuse sull’origine del gioco, il re, che nell’impossibilità di esaudirne la richiesta aveva fatto uccidere il suo inventore che, rifiutando la metà del regno a lui offerto dal sovrano come ricompensa per la sua invenzione, aveva chiesto un solo chicco di grano sulla prima casella della scacchiera via via raddoppiato per ognuna delle restanti 64 caselle di cui la scacchiera era composta, impazzisce egli stesso a causa del gioco che ne causerà la morte.
Nessun altro gioco al mondo conosce una compenetrazione tale di scienza e filosofia, matematica e poesia, estetica e psicologia, logica e arte come questo; ed è forse proprio questo, insieme all’alone di mistero e leggenda che avvolge le sue origini, il motivo dell’interesse che il gioco ha suscitato in filosofi, artisti, scrittori e poeti di culture e tempi così diversi tra loro, tutti accomunati dalla seduzione e dal mistero che su di essi ha esercitato il mondo degli scacchi.
Ma tra gli scrittori precedentemente menzionati, piccola parte di tutti quelli che si sono interessati agli scacchi, ce n’è uno in particolare che più degli altri ne coglie le caratteristiche filosofiche e li erge a privilegiato simbolo del suo mondo letterario e sistema filosofico. Jorge Luis Borges, scrittore, saggista e poeta, genio della letteratura fantastico-realistica argentina, tra i più grandi e conosciuti scrittori latino-americani di tutti i tempi. Nato a Buenos Aires nel 1899, nella sua opera Borges crea un mondo sospeso tra la realtà e la finzione, ricco di suggestioni visionarie che hanno influenzato tutta la successiva tradizione postmoderna. Il suo sistema filosofico è ricco di simboli: la biblioteca, il labirinto, gli specchi, gli scacchi… rappresentano la realtà e il sogno, il tempo e lo spazio di un universo il cui carattere allucinatorio è sostanza di un mondo a metà strada tra il possibile e l’impossibile e la cui realtà non è scindibile dal paradosso. In Borges, come nei più grandi scrittori, l’antico e il nuovo convivono armoniosamente compenetrando tutta la sua arte; un’arte che rivela i segreti del conscio e dell’inconscio, capace di farsi espressione dei sentimenti di inquietudine profonda celati nell’animo dell’individuo e riportarli ad uno stato di coscienza nel labirinto di specchi sul pavimento a scacchiera dell’esistenza. È l’autore stesso che nel prologo a “L’oro delle Tigri” del 1972 dice: “Il mio lettore noterà in alcune pagine l’inquietudine filosofica. Mi appartiene dall’infanzia, da quando mio padre mi rivelò, con l’ausilio di una scacchiera (che era, ricordo, di cedro) la corsa di Achille e della tartaruga“. Da questo passo risulta evidente il profondo significato filosofico che Borges attribuisce agli scacchi che si elevano molto oltre il loro stato di semplice gioco. Il gioco degli scacchi si carica di significati mistici la cui simbologia diventa complessa e multiforme dilatando all’infinito il campo semantico di riferimento. Nell’opera borgesiana, la vita stessa è un’interminabile partita a scacchi le cui indeterminate e imprevedibili possibilità non indicano un libero arbitrio da parte degli uomini, ma il loro essere assoggettati ad una volontà superiore incarnata da Dio o dal destino, il cui arbitrio è, forse, a sua volta condizionato dall’imperscrutabile volere di un altro dio, in un diabolico gioco di scatole cinesi la cui causa prima nella successione causale rimane sconosciuta. Come le azioni umane, anche le mosse possibili su una scacchiera, così come i libri contenuti nella Biblioteca di Babele, uno tra i suoi racconti più conosciuti (Ficciones, 1944), sono come gli atomi del mondo e le loro possibili permutazioni, di un numero smisurato, certo, ma pur sempre finito. Il carattere paradossale dell’eternità e dell’infinito ben si adatta, secondo Borges, alle caratteristiche del gioco degli scacchi. Profondo conoscitore della letteratura orientale dalla Cina agli arabi, lo scrittore argentino gioca con le cifre arcane di una mitologia simbolica e letteraria dove gli scacchi rappresentano l’imprecisata dilatazione dello spazio e del tempo e le infinite e paradossali dimensioni della realtà, come risulta dalla lettura delle due poesie dal titolo, Ajedrez (Scacchi).
Scacchi
I
Nel loro angolo austero, i giocatori
dirigono i lenti pezzi. La scacchiera
li incatena fino all’alba alla sua severa
dimensione in cui battagliano due colori.
In essa, le figure irradiano magici rigori:
la regina armigera, l’omerica torre,
l’agile cavallo, lo scortato re,
l’obliquo alfiere e i pedoni aggressori.
Quando i giocatori se ne saranno andati,
quando anche il tempo li avrà consumati,
continuerà ancora ad officiarsi il rito.
In Oriente scoppiò questa guerra
il cui teatro è oggi tutta la terra.
Come l’altro, questo gioco è infinito.
In questa poesia come nella seguente, Borges indica tutti gli elementi del gioco che lo affascinano e, in esse, più che in tutte le altre sue opere in cui sono presenti riferimenti agli scacchi, svela la simbologia di cui il gioco si veste nella sua poetica. Nella prima delle due poesie, Borges descrive i singoli pezzi della scacchiera attribuendo ad essi caratteristiche umane. In questa operazione risulta evidente un certo parallelismo che lo scrittore fa tra il gioco degli scacchi e l’umanità stessa. Lo scenario si apre su quell’ “angolo austero” in cui i giocatori governano i lenti pezzi. L’aggettivo attribuito ai pezzi sembra estendersi a tutta la scena in atto, dandone così una prima caratterizzazione di temporalità relativa che si estenderà a tutto il sonetto. La dimensione di atemporalità e aspazialità della prima strofa trasmette una sensazione di disorientamento; l’impressione di trovarsi in un luogo imprecisato privo di coordinate spazio-temporali dove l’impersonalità dei due giocatori completamente assorti e prigionieri del gioco rivela quelli che sono i veri protagonisti della poesia: i pezzi, che sembrano le uniche cose animate della scena. Questa impersonalità degli scacchisti di Borges è voluta quasi a sottolineare che l’homo ludens della sua poesia non è un uomo in particolare, ma uno stereotipo appartenente ad ogni tempo, luogo e cultura. L’uomo di Borges perde le qualità di homo artifex che il Rinascimento aveva conferito all’umanità; egli viene detronizzato dal posto d’onore che si riteneva occupasse nell’universo, per confondersi in esso e incarnarne quasi un accidente determinato da leggi a lui superiori ed imperscrutabili che vanno ben oltre l’apparenza del suo libero arbitrio. La dimensione della scacchiera sembra uscire dal quadrato delle 64 caselle per dilatarsi all’infinito in una prigione senza confini in cui i giocatori sono prigionieri costretti a movimenti meccanici dal volere stesso dei pezzi eterni protagonisti di una battaglia di forze opposte che continuerà anche quando il tempo avrà avuto la meglio sulla loro vita di umani. I giocatori sono burattini i cui burattinai sono gli scacchi. In questa poesia, Borges, oltre a sintetizzare alcuni tra i problemi fondamentali del pensiero occidentale di cui è figlio, dal tema medievale della libertà umana all’incubo di Cartesio, si dimostra conoscitore delle leggende sull’origine del gioco alcune delle quali vogliono che esso sia antico quanto l’umanità e il cui inventore sia stato addirittura Adamo, o altre secondo cui gli scacchi sono ancora più antichi dell’umanità stessa. Interessante è notare che mai, in questa eterna battaglia, nessuno dei due colori ha la meglio sull’altro. In perfetto stile con la filosofia taoista ed eraclitea, Borges crede che i principi opposti siano l’uno dipendente dall’altro e che quindi non è concepibile che uno possa prevalere sull’altro. Il fine dell’atemporale battaglia è la battaglia stessa che, se pur non è eterna, in eterno si ripete. Gli scacchi diventano anche il simbolo del tempo, uno dei temi cari allo scrittore argentino, la cui paradossalità ben si configura con le caratteristiche del gioco. Nell’ultima strofa della poesia si fa riferimento alle origini storiche del gioco a prescindere dalle leggende. Gli scacchi, nati in Oriente, probabilmente in India, anche se non è da escludere che Borges sia sostenitore della tesi di un’origine cinese, si spostano seguendo il cammino del sole prima in Persia e poi, attraverso gli arabi, in Europa dalla Spagna e dalla Sicilia, fino ai giorni nostri. In quest’ultima strofa la dialettica del gioco esula dai confini della scacchiera per estendersi a tutto il mondo, teatro di una guerra infinita cui quella sulla scacchiera è solo il simbolo.
II
Vulnerabile re, mobile torre, spietata
regina, pedone accorto e sinistro alfiere
sul cammino di caselle bianche e nere
cercano e combattono la loro battaglia cruenta.
Non sanno che la precisa mano
del giocatore dispensa il loro destino,
non sanno che un rigore adamantino
sottomette il loro arbitrio e il quotidiano.
Ma anche il giocatore è in una voliera
(la sentenza è di Omar) su un’altra scacchiera
di nere notti e bianchi giorni.
Dio muove il giocatore che gli ordini impartisce.
Quale Dio prima di Dio la trama ordisce
di polvere e tempo e agonie e sogni?
Anche nella seconda poesia i pezzi della scacchiera vengono qualificati con caratteristiche umane ancora più che nella prima. Non è difficile cedere alla tentazione di dare anche una certa interpretazione politica alle liriche. I vari pezzi possono essere paragonati alle classi sociali sempre presenti nella storia dell’umanità, ciascuna con alcune caratteristiche che la contraddistinguono dalle altre. In effetti, soprattutto nella versione europea del gioco diffusasi in pieno medioevo, la struttura piramidale della gerarchia scacchistica vede il sovrano, pezzo più importante, e via via le altre classi della società (per esempio l’alfiere, che nella versione indiana del gioco era l’elefante, al-fil, è in inglese bishop, vescovo, ad indicare il clero) fino al pedone, semplice soldato – operaio (dallo spagnolo peòn) combattere fianco a fianco nonostante le differenze, per raggiungere un fine comune. Ma li vede anche soggetti alle stesse regole di vita e di morte, indipendentemente dalla posizione occupata nella scala gerarchica. Ma è nella seconda strofa che Borges, riprendendo il tema accennato nella prima lirica, manifesta quella sua inquietudine-preoccupazione filosofica sulla libertà e il tempo. Adesso i pezzi sembrano quasi perdere quel magico rigore descritto precedentemente, per diventare mere figure di legno docili ai disegni e alla volontà dei giocatori, la cui precisa mano ne determina il destino e i giorni. Ma anche il giocatore è prigioniero, su un’altra scacchiera, quella del volere di una divinità che ne limita l’arbitrio e ne determina il destino, come diceva il poeta persiano del XII sec. Omar Khayyam “Noi siamo i pedoni della misteriosa partita a scacchi giocata da Dio. Egli ci sposta, ci ferma, ci respinge, poi ci getta uno a uno nella scatola del nulla.” A questo punto il tema centrale della poesia si manifesta con una domanda che insinua un dubbio e che non avrà risposta; una domanda in cui confluiscono i grandi temi della filosofia, della religione e della poesia stessa. Chi è il Dio che prima di Dio dà inizio alla trama? Chi è cioè il giocatore che gioca a scacchi con Dio stesso e la cui scacchiera è l’universo? Borges raffigura in questa lirica l’intero universo come una serie indefinita di scacchiere contenuta l’una nell’altra e i cui pezzi sono a loro volta burattini e burattinai di un’altra partita. L’ultima strofa del secondo sonetto si ricollega all’ultima strofa del primo, dove il mondo è una scacchiera soggetta a rigide regole, e in cui realtà e gioco si confondono fino a diventare la stessa cosa. Nel saggio Il fiore di Coleridge, parlando della previsione della profetessa Edda Saemundi, si dice che gli dei, al loro ritorno, dopo la ciclica battaglia in cui la nostra terra perirà, scopriranno abbandonati sull’erba di un nuovo prato, i pezzi degli scacchi con cui stavano giocando prima. Ma anche negli altri racconti i riferimenti al gioco sono numerosi. Ne Il giardino dei sentieri che si biforcano, nell’elencazione delle caratteristiche del saggio Ts’ui Pen, figura quella di essere stato uno scacchista, e nello stesso racconto è presente la celebre frase che dice che in un indovinello sugli scacchi, scacchi è la parola proibita. Ne L’immortale, il protagonista del racconto dice di aver giocato molto agli scacchi in un cortile del carcere di Samarcanda. Ne Il miracolo segreto vi si narra che lo scrittore praghese Jaromir Hladik, sognò di essere il primogenito di una delle due nobili famiglie che disputavano una partita a scacchi iniziata dai loro antenati molti secoli prima e la cui posta in gioco nessuno ricordava, ma che si sapeva essere di enorme importanza e che, al momento della giocata che doveva compiere lui e che non portò a termine, si risveglio mentre i carri armati del Terzo Reich entravano a Praga. E ancora, questa volta in Emma Zunz, ricordando il genitore, la protagonista riferisce che soleva giocare a scacchi con un conoscente, tacitamente… Gli scacchi sono un gioco dalle innumerevoli variazioni, come lo stesso autore dice, paragonabili forse alle finzioni letterarie; probabilmente anche per questo, come Cervantes, Dante e Shakespeare, anche Borges allude così frequentemente agli scacchi tanto nei saggi, quanto nei racconti e le poesie. Stretto è infatti, come abbiamo visto, soprattutto il rapporto tra scacchi e poesia nella quale Borges intravede un enigma paragonabile ad un enigma scacchistico: “Come scacchi misteriosi, la poesia, la cui scacchiera e i cui pezzi mutano come in un sogno e sul quale mi inchinerò dopo essere morto“. Nella poesia I Giusti, vengono insigniti di questa qualità anche “Due impiegati che in un caffè del Sud, giocano in silenzio agli scacchi“. E addirittura uno dei suoi 17 Haiku recita:
Da quel giorno
non ho più mosso i pezzi
sulla scacchiera
Molti sono ancora, nella vasta opera letteraria dell’Argentino, i passi in cui si parla degli scacchi, e altrettante le possibili interpretazioni della simbologia che essi incarnano. Allegoria del destino, metafora del tempo, immagine della vita… Il gioco è senza dubbio una chiave di lettura importante per capire fino in fondo la poetica e l’universo letterario di Jorge Luis Borges, uno scrittore il cui stile e il genio letterario continuano a sedurre i lettori di ogni dove.
Questo articolo di Mauro Ruggiero è stato pubblicato su: L’Italia scacchistica n.1179 - Set/Ott 2005.
Foto di David Mahlowe